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Don Vito e lo scabroso bagaglio per l'aldilà





Un anziano prete trovato morto. Nudo, nella vasca, strangolato. In paese si dice che in casa avesse materiale porno e frequentasse giovani stranieri. La Curia smentisce, i carabinieri indagano...

Il 5 giugno 2003, don Vito Renda, 72 anni, parroco di San Vito, una delle chiese di Mazara del Vallo (Trapani), viene ucciso nel bagno della sua villetta. I sospetti si concentrano subito su alcuni giovani extracomunitari che il sacerdote era solito frequentare. Le voci sullo stile di vita di don Vito si rincorrono, così come le chiacchiere sul ritrovamento di materiale pornografico nella sua casa, tutte circostanze seccamente smentite dalla Curia. Dopo tre giorni, a Roma, viene fermato Mohammed Hmida, 31 anni, tunisino. Non ha un alibi né un avvocato di fiducia e dopo poco confessa tutto, raccontando di essere stato scoperto mentre cercava di rubare e di avere perso la testa.

Prima di tutto fate una cosa: andate di là e gettate via tutto. Nel cassonetto, proprio. E proprio tutto: ogni singolo materiale compromettente, cassetta, rivista, oggetto, qualsiasi cosa. Fatelo subito, perché non c'è tempo da perdere. Io vi aspetto: mi fermo, vado a capo e salto pure una riga, di modo che quando tornerete potrete ritrovare il punto e leggere quest'articolo a cuor leggero. Ecco.

Non l'avete fatto, vero? Succede sempre così. Non lo si fa mai, si rimanda. E quando poi succede il disastro è sempre troppo tardi. Eppure bisognerebbe pensarci, non cadere nella pigrizia, perché da un momento all'altro il grande riflettore della cronaca potrebbe illuminare la vostra vita e sputtanarvi per sempre. Non si sa mai. Lo sputtanamento potrebbe prendere la forma di un'improvvisa perquisizione della polizia: basterebbe una soffiata, una falsa segnalazione, un errore di notifica, e vedreste la vostra esistenza rivoltata come un pedalino che mostra tutti i buchi che pensavate di poter tenere nascosti all'interno della scarpa. Ahà! Guarda un po' che c'era dietro i libri, sullo scaffale della saggistica. E se anche la polizia non venisse mai a frugare in casa vostra, rimane sempre la penosa ricognizione degli eredi in cerca delle memorie di una vita. Provate a immaginare la scena: nel cassetto, in mezzo a lettere e souvenir dei momenti felici, ecco spuntare l'oggetto indicibile, quello che mai e poi mai si sarebbe potuto immaginare. Diranno: pareva una persona così per bene, così gentile, e invece anche lui aveva le sue debolezze… Inutile nasconderselo: è il classico problema da porci. Quindi vi invito ancora, prima di proseguire nella lettura, a sbarazzarvi di ogni utensile o prodotto che possa causarvi postumo imbarazzo, quando sarà il momento. Per cercare di convincere gli esitanti vi racconterò una storia che dovreste conoscere e ricordare, perché è successa poco tempo fa. La storia di don Vito Renda, parroco di Mazara del Vallo, ammazzato due volte, prima fisicamente e poi in memoria.

Don Vito dicono fosse quello che si definisce un bravo parrino, con la passione per la musica e una consuetudine di familiarità con i molti extracomunitari del paese, che provengono soprattutto dal Nord Africa: arrivano e si integrano con facilità, trovando un lavoro nelle mansioni più umili della pesca, l'industria che fa di Mazara del Vallo una prospera cittadina. In questo contesto già sufficientemente caratterizzato, don Vito rappresentava un personaggio a tinte forti. Aveva settantadue anni, era alto, ancora vitale. Alla sua età manteneva almeno tre incarichi, tre chiese a cui badare, più altre cariche minori. All'apparenza era un prete all'antica, con la tonaca e tutto. Ma anche un accanito fumatore di sigari quando poteva e sigarette sempre, nonché guidatore di auto di grossa cilindrata.

Nell'immediatezza dell'omicidio, ai microfoni dei giornalisti calati a ragionare sul caso i mazaresi imbandirono più o meno tutti la versione standard della brava persona, cui ognuno voleva bene. L'immancabile però arrivava semmai a microfono spento, e sempre seguito da quel genere di puntini di sospensione che alludono, preludono e quasi mai chiariscono. Quando poi i giornali scrissero quello che scrissero, i puntini di sospensione sparirono, la comunità fece muro e le porte della reciproca solidarietà cittadina si serrarono a protezione del buon nome di Mazara e dei mazaresi tutti. Di certo c'è che don Vito abitava in una specie di villa fortificata sul mare, a tre chilometri dal centro abitato, in una strada che già nel nome è promessa di vita felice: via California. La villa è circondata da un muro di cinta piuttosto alto; e sul muro, una rete metallica; e sulla rete metallica, filo spinato. A ciò si aggiungano spuntoni acuminati e cancello di ferro. Don Vito ci teneva alla sua riservatezza. Possedeva anche due cani, ma gli erano stati avvelenati un paio di mesi prima, cosa che a suo tempo aveva fatto preoccupare il parroco e in seguito avrebbe gettato un sospetto di premeditazione sul delitto. Dicono che da allora don Vito non era più lui, che si mostrava scontroso come mai era stato.

Fino a quando successe che una mattina il prete fece tardi alla celebrazione della messa. I parrocchiani si preoccuparono e mandarono un suo amico a cercarlo a casa, violando le difese che don Vito aveva predisposto attorno a sé. L'amico arrivò e lo trovò morto, nudo, in bagno. E già questo bastò ad attizzare gli scabrosi sospetti: la fantasia popolare è normalmente inibita a immaginare l'intimità di un prete. Figuriamoci l'effetto che in un piccolo centro poté suscitare un prete nudo, in bagno, morto ammazzato a botte, oppure strangolato, oppure tutte e due le cose assieme. Il delitto risaliva al pomeriggio del giorno precedente, nell'arco di ore compreso fra le 15 e le 18. Già le prime indagini, i primi resoconti dicevano e non dicevano, più che altro lasciavano capire. Una dovizia di dettagli venne fornita sull'identità dello scopritore del cadavere: dell'amico del parroco si seppe nome, età, stato civile – sposato – e provenienza anagrafica, specialmente: tunisino. Il contesto del delitto fu completato da voci dal sen d'investigatore prima fuggite e poi negate. Voci su una particolare attenzione che sarebbe stata riservata, durante l'autopsia, a un risvolto della recente intimità della vittima. Proprio a seguito di queste voci, la Curia di Mazara del Vallo si sentì in dovere di emettere un comunicato di diffida in cui veniva espresso cristiano cordoglio per la barbara uccisione, e altresì sorpresa e indignazione per tutte le illazioni già apparse senza alcun controllo sugli organi di stampa, riservandosi ogni ulteriore azione a propria tutela, eccetera, eccetera.

Come beffardo contrappasso a questo comunicato vescovile, passarono ventiquattr'ore e trapelò la notizia della scoperta, durante le perquisizioni della villa, di un'indicibile collezione. Per carità: una collezione più pittoresca che offensiva, che di per sé non provava nulla, e che in ogni caso il parroco adoperava per uso personale. Una collezione di quel genere di materiale che probabilmente in modica quantità anche voi tenete in casa, e dunque inutile che adesso facciate gli angioletti. Semmai pensateci: siete in tempo a interrompere la lettura e andare a gettare via tutto. A Mazara del Vallo nelle ore successive al delitto ognuno badò a fare il suo mestiere: i giornalisti scavavano, il vescovo negava, la gente mormorava e i carabinieri indagavano. Indagavano soprattutto nel centro di Mazara, una casbah dove la popolazione è in massima parte di origine maghrebina; e del resto non potrebbe essere altrimenti, visto che i mazaresi preferiscono vivere nelle case moderne, che si trovano in periferia. È singolare che nelle città siciliane spesso succeda l'esatto contrario di quanto accade nel resto del mondo: gli ultimi arrivati in centro e i ricchi nella banlieue. In ogni caso, le indagini dei carabinieri dovettero funzionare, tanto è vero che in capo a due giorni venne arrestato un altro tunisino, prontamente qualificato come nuovo giardiniere del parroco. Si chiamava Mohamed Hmida e aveva trentun'anni. Venne arrestato a Roma, dove era andato a rifugiarsi in casa della sorella. Gli trovarono in valigia alcuni oggetti d'oro provenienti dalla casa del prete assassinato, e lui, messo con le spalle al muro, rese piena confessione del delitto. Sulla sua pista i carabinieri si erano lanciati dopo aver tenuto sotto torchio per dieci ore un suo connazionale che pure aveva lavorato nella villa come giardiniere – e sono due. In un primo tempo il giardiniere numero uno aveva cercato di tenere nascosto il nome del giardiniere numero due, poi di fornirgli un alibi, ma infine aveva dovuto cedere.

Un capitolo significativo di questa vicenda è rappresentato dalla conferenza stampa convocata nei locali del comando provinciale dei carabinieri, e che si svolse in un clima teso e surreale. Prima che cominciasse, per un bel pezzo inquirenti e magistrati si chiusero in una stanza assieme all'avvocato della Curia per discutere non si sa di cosa. Poi uscirono dalla stanza e l'avvocato andò a sedersi in mezzo ai giornalisti, dove rimase fino alla fine della conferenza stampa malgrado lo stesso procuratore di Marsala gli avesse fatto notare l'irritualità della situazione. Ma tant'è, il magistrato si rassegnò a spiegare in presenza dell'avvocato come si erano svolti i fatti. Secondo quanto emerso dalle indagini, il giardiniere si trovava nella villa per svolgere il suo lavoro, quando il parroco decise di fare il bagno. Il giovane allora ne aveva approfittato per entrare in casa e mettersi a frugare nei cassetti in cerca di qualcosa da rubare. Don Vito se ne era accorto e aveva cercato di mettergli paura impugnando una pistola giocattolo che era stata poi trovata anche quella nel bagaglio dell'assassino. La pistola era però molto poco credibile e per nulla deterrente. Fra i due era nata una colluttazione nella quale il tunisino aveva avuto il sopravvento a forza di calci e pugni, cercando pure, al culmine del raptus, di strangolare la vittima. Panico, fuga e fine della storia. I fatti – ripeterono gli inquirenti in conferenza stampa – andavano inquadrati esclusivamente come omicidio per rapina. Omicidio – Per – Rapina. Quando poi le domande dei cronisti si concentrarono sui punti più scandalosi della vicenda il procuratore definì le notizie circolate «chiacchiere di paese che non interessano le indagini». Che fosse vero o che si trattasse di una versione di comodo, a passare fu la tesi dell'omicidio per rapina, la stessa che con maggiore o minore prudenza venne raccontata dai giornali dell'indomani. E poi basta, sulla vicenda il sipario calò prima ancora che venisse celebrato il funerale del parroco, al quale non furono ammesse né telecamere né macchine fotografiche. In queste condizioni, si sa, non c'è notizia.

Finale nel silenzio per il povero don Vito, prete discutibile e discusso soprattutto dopo una morte del genere, arrivata senza nemmeno il tempo di un'avemaria. E comunque: pace all'anima sua. Chissà se si era reso conto di essere sul punto di morire, e chissà cosa avrà pensato in quei momenti, se si sarà soffermato sul disordine lasciato alle sue spalle: la tonaca gettata su una poltrona, il letto disfatto, la vasca piena a metà, il corpo nudo scomposto. Per non parlare di quell'imperdonabile collezione abbandonata in balia dei posteri. La morte è il flash di una macchina fotografica che scatta certe volte nel momento meno opportuno, senza quasi mai lasciare al soggetto il tempo di mettersi in posa, sorridere e rimettere ordine nell'inquadratura. Quel che c'è, c'è. Per cui spesso ne viene fuori e viene tramandata una di quelle fotografie in cui siamo venuti male, con gli occhi semichiusi e una risata sguaiata che non ci appartiene. Sono le fotografie che, potendo, poi di solito vengono strappate, ma che stavolta non c'è più tempo di strappare. Quelli siamo stati magari solo per un breve istante, e quelli resteremo per sempre. Magari un attimo prima o un attimo dopo saremmo stati molto migliori, ma ormai non possiamo farci più niente.

Se da tutta questa storia è lecito trarre una morale, forse si potrebbe azzardare questa: meglio così. Se pure quella fornita ufficialmente fosse una verità di comodo, meglio così. Se pure piena luce non venisse mai fatta, meglio così. Se pure quella dei paesani che fanno fronte in difesa del buon nome di Mazara fosse pura e semplice ipocrisia: meglio così. Quello che don Vito faceva una volta tornato a casa dopo aver detto messa – ammesso che facesse qualcosa di particolare, e appurato che questo qualcosa coinvolgeva solo altri adulti consenzienti – riguardava lui stesso e il suo Dio, visto che ci credeva. Fatti loro. Riposi dunque in pace la buonanima di don Vito Renda, un prete che forse, forse, aveva qualche debolezza. Ma che forse, forse, non era tanto diverso da noi tutti.

Roberto Alajmo - Panorama 08.08.03



Last modified Wednesday, July, 13, 2011