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“Romanzo criminale” è diventato un film per il grande schermo, uscito nelle sale il 30 settembre 2005. Con la regia di Michele Placido e per la casa di produzione Cattleya.
Girato a Roma, il film ha come protagonisti Kim Rossi Stuart nei panni del Freddo, Pierfranceso Favino nei panni del Libanese e Stefano Accorsi in quelli del commissario Scialoja, Anna Mouglalis in quelli di Patrizia.
L’autore, Giancarlo de Cataldo, ha collaborato alla sceneggiatura, curata dal collaudato duo Stefano Rulli - Sandro Petraglia, già collaboratori di Placido in “Mery per sempre”.
Il regista ha spiegato che alcune modifiche sono state apportate al romanzo. Si è voluto fare un inizio diverso rispetto al libro: il film vede i protagonisti ragazzini, non ancora banda. Inoltre alcuni personaggi sono stati sacrificati, altri sono stati riuniti.
Il produttore, Riccardo Tozzi, titolare della Cattleya, società di produzione che ama ispirarsi alla letteratura, dice del film: “E’una gangster story all’italiana e al tempo stesso il tentativo di recuperare un genere cinematografico in chiave d’autore. E’ forse il primo film che parla della criminalità non dalla parte dei ”buoni”, ma senza minimalismi né tentazioni moralistiche.
Racconta l’avventura pazza e disperata di un gruppo di delinquenti che coltivano un sogno ma devono arrendersi al fatto che l’Italia è un Paese in cui nessun sogno, anche il più scellerato, alla fine si può realizzare”.

Il Falcone Maltese, Anno 1 n.1, Ottobre-Novembre-Dicembre 2004
A cura di Maurizio Testa
Il “Romanzo criminale” dalla carta alla pellicola.

Il set è a Roma dove si svolgono le imprese della malavita che De Cataldo ha raccontato nel suo omonimo romanzo. Dirige Michele Placido e l’autore dà una mano alla sceneggiatura. Ecco cosa ci dice sul suo lavoro.
MT - Evitando gli scontati come e perché hai iniziato a scrivere, e se e come il tuo lavoro di magistrato influenza i tuoi scritti, vorrei invece sapere quando hai capito che era arrivato "il successo", (la gente che ricorda il tuo nome, qualcuno che ti riconosce per strada, richieste di lavori, la tv, i soldi...!)
GDC - Piano, piano! Il successo è dei divi tv, dei campioni del calcio e delle rockstar; la fama dei politici, la notorietà di scrittori molto più affermati di me: nel mio caso parlerei di "conoscenza allargata" a più settori, e non limitata agli addetti ai lavori. Questo rende più realistico il tutto, a partire dal mio approccio con questa fase particolarissima. Ma se devo sintetizzarti in una frase, beh... proviamoci: se oggi telefono a un produttore, non è mai fuori stanza (prima non lo trovavo mai). Se oggi racconto un soggetto a un produttore (o a un editore) mi ascolta anche dopo la venticinquesima parola (prima non riuscivo mai ad aprire bocca). Se oggi scrivo un articolo su qualunque argomento non ho difficoltà a piazzarlo (prima mi correggevano anche le virgole). E sono io, pensa come se la (s)passano Nik Ammaniti, o la Mazzucco, o Banana Yoshimoto o, per dire, the Nobel Prize winner Coetzee… insomma, la conoscenza allargata ti trasfigura agli occhi di molti. Ma guai a trasfigurarsi davanti allo specchio! Si corre il rischio di non riconoscersi più. Si comincia a sorridere come idioti. Il segreto - se segreto c’è - è di incassare la conoscenza con ri…conoscenza, senza montarsi la testa, vah.
MT - Dicci cosa non scriveresti mai e perché?
GDC - Bon. Detesto in linea di principio le storie che mi annoierei a leggere, e, dunque, rifuggo dallo scriverle.
Poi sono allergico al poliziesco nella stanza chiusa. Alle vecchie signore che si improvvisano detective.
Sono allergico alle descrizioni da tavolo del perito di settore modello Cornwell, alla rappresentazione compiaciuta della violenza in generale e su minori in particolare (di solito chi indulge in questo genere di descrizioni manifesta una chiara componente sadica), alle love-story fra hostess e piloti internazionali e, ultimamente, ai reduci del '77 che hanno perso l'occasione di fare la rivoluzione e, ormai cinquantenni, si piangono addosso dilungandosi in dialoghi di sapore adolescenziale. Ma ho anche molte altre idiosincrasie: le saghe familiari con una donna custode della memoria dove alla fine "tout se tiens" perché anche se il bisnonno Gionata stuprava, ammazzava e rapinava in fondo la famiglia è famiglia e c'è la Tradizione... il revisionismo storico, secondo il quale in Italia dal '45 hanno governato i Comunisti imponendo la dittatura marxista sulla cultura...
MT - Ormai oltre che scrittore, sei anche sceneggiatore. Quali dei due mestieri ti diverte di più e perché.
GDC - La scrittura è una maledetta esaltazione faticosa; la sceneggiatura una maledetta fatica esaltante.
Mi piacciono tutte e due, anche se nasco, e resto, scrittore. D'altronde, la forma di espressione più difficile e alta resta il teatro.

MT - In genere quali sono gli aspetti che ti danno più fastidio nella trasposizione di un tuo scritto per il piccolo o il grande schermo?
GDC - Bella domanda! Io ho una sola esperienza, "Nero come il cuore", le altre cose nascevano direttamente per lo schermo, e quindi "no trauma". Ora sono in attesa della trasposizione di "Romanzo Criminale", e staremo a vedere: gli sceneggiatori, ai quali anch'io do una mano, sono i migliori (Rulli e Petraglia), e hanno già fatto un gran bel lavoro preliminare. Ma tornando a "Nero come il cuore"... all'epoca mi infuriai come un picchio contro gli sceneggiatori e il regista. Oggi sono molto più saggio e pacato, avendo, come dire, il piede in due staffe. Il cinema e la tv sono" livelle", tendono a smussare le ambiguità. Il che a volte, paradossalmente, migliora la riuscita dell'opera. In ogni caso, sono due linguaggi e due industrie profondamente differenti.
La cosa più giusta la faceva quel gran dritto di Moravia: si faceva pagare per non occuparsi delle trasposizioni sceniche o cinematografiche dei suoi libri. E manco andava a vederseli poi, i film. Non per snobismo, ma per salvarsi il fegato!
MT - Il libro che vorresti scrivere e per un motivo o per l'altro non hai mai potuto scrivere.
GDC - Aah... sei un provocatore! Vediamo: una grande storia di SF alla Philip K. Dick ambientata fra virtuale e psicopatologico (ti ho mai detto che sono un appassionatissimo divoratore di trattati di criminologia e psichiatria?). E poi ho per la testa da anni, e mai il tempo per farlo, un romanzo d'avventure a sfondo esoterico che nasce nella Siberia del 1921 e finisce in un'immaginaria repubblica sudamericana nel 2010, passando per la guerra civile spagnola, Auschwitz, lo sciamanesimo e via dicendo. Sono convinto che sarebbe ghiottissima materia per una storia a fumetti. Ma non ho ancora trovato il fumettaro disposto a spendere un po' del suo tempo sul progetto.
MT - Il tuo futuro: uno scrittore di sempre maggior successo e di quali libri? (magari con trasposizioni cinematografiche hollywoodiane...) Oppure magari ti piacerebbe fare il grande salto dietro la macchina da presa, come regista? (ma questo credo non sia compatibile con il tuo lavoro di magistrato).
GDC -Insomma! Da ragazzo mi ammalai di cinema e volevo fare a tutti i costi il regista. Oggi vedo, incontro, frequento e conosco registi di tutti i tipi, e ho capito due cose:
a) Per diventare come loro, come quelli bravi, che ammiro e le cui opere adoro, mi mancavano alcune qualità fondamentali, dalla grinta (chiamala tenacia, se preferisci) alla capacità di trasferire sensazioni, intuizioni e strutture in una catena di immagini, e di farlo immediatamente, senza passare per la mediazione della parola. Io, invece, sono un soggetto da parola, e solo dopo riesco ad applicarmi all'immagine.
b) Dunque, considerando quanto appena detto, sto bene come sto.
MT - Fai un saluto ai lettori che si apprestano a leggere questo primo numero de "Il Falcone Maltese".
GDC - C'era una volta un ragazzo di provincia che avrebbe tanto voluto fare il regista, o, in alternativa, lo scrittore.
Dopo i primi incerti tentativi, tutti chiusi nel cassetto, questo ragazzo si convinse che non sarebbe mai riuscito a sfondare il muro della 'ndrangheta culturale, e cominciò a piangersi addosso.
Un giorno questo ragazzo si ruppe un braccio e fu costretto a un lungo periodo di immobilità.
Decise di sfruttarlo facendosi una cultura nel settore gialli e polizieschi. Cominciò da John Dickson Carr e approdò a Jim Thompson, passando per Maigret e Ruth Rendell. Quando il braccio fu guarito, il ragazzo aveva capito che la sua unica chance era smetterla di scrivere racconti autobiografici che avevano per oggetto la sua vita, tutto sommato poco interessante, e di concentrarsi sull'affascinante mondo del crimine.
Non fu tanto un'intuizione, quanto una constatazione: il mondo letterario non era solo pieno di mostri sacri e di bluff (entrambe le categorie tuttora amabilmente convivono) ma anche di grandi o piccoli indagatori dell'incubo, suscitatori di paure ataviche, ricostruttori del mito attraverso il percorso dalla vita alla morte - e viceversa - che scandisce tutte le nostre umane esistenze.
Il ragazzo decise di scrivere gialli, noir o come diavolo vogliamo chiamarli, perché si accorse che non sarebbe stato solo. Il ragazzo capì che sarebbe stato in ottima compagnia.
Auguro ai lettori del Falcone di trovarsi intrappolati in un analogo percorso.
Auguro loro di accorgersi che noi appassionati, da questo e dall'altro Iato del libro, non siamo e non saremo mai soli.
E in bocca al lupo!

La storia della banda
"Romanzo criminale", libro cult di Giancarlo De Cataldo, sarà presto un film. Così le imprese criminali della famigerata “banda della Magliana” intersecata ai quindici anni più difficili della storia italiana saranno fissate sul grande schermo da Michele Placido, ancora regista, impegnato sul set dal 12 Settembre. Tre mesi di riprese ci riporteranno nella vita di un gruppo di malavitosi, nella Roma degli anni Settanta e Ottanta, e ci sveleranno il loro assurdo sogno di impossessarsi della città attraverso legami più o meno noti con il terrorismo, i servizi segreti, la malavita locale, sullo sfondo tragedie che hanno segnato la nostra storia come il caso Moro e la strage di Bologna. Così personaggi reali, abilmente descritti dal giallista e magistrato romano, prenderanno corpo in un cast di tutto rispetto. I tre eroi maledetti, fulcro e mente dell’intera banda, saranno Kim Rossi Stuart, il Freddo, carismatico capo, Pierfrancesco Favino nei panni del Libanese, Claudio Santamaria che sarà il Dandi. Toccherà a Stefano Accorsi il ruolo del tutore dell’ordine, il commissario Scialoja. Molti i coprotagonisti, tra cui Diego Abatantuono nei panni del Secco e Riccardo Scamarcio, che sarà il Nero. Interpreti femminili la raffinata ed eterea modella francese Anna Mouglalis, nei panni di Patrizia, prostituta, dark lady spregiudicata e intelligente e la giovane Jasmine Trinca che sarà Roberta, la donna del Freddo. Prodotto da Riccardo Tozzi per Cattleya, il film si basa su una sceneggiatura firmata dal collaudato duo Rulli-Petraglia, con cui Placido ha già lavorato in “Mery per sempre”, mentre il direttore della fotografia sarà Luca Bigazzi.

La Repubblica, 23 Novembre 2004
Placido gira "Romanzo criminale" dal libro del giudice Giancarlo De Cataldo, sulla banda delle Magliana
"I miei gangster, eroi da niente"
di Paolo D'Agostini

Roma. La lavorazione di Romanzo criminale è a metà strada, Michele Placido lo definisce "un film di genere". Romanzo criminale è il libro che il giudice Giancarlo De Cataldo ha pubblicato (Einaudi) due anni fa ridisegnando con la fantasia il vero impressionante affresco di una banda, la banda della Magliana, che ha rivoluzionato la storia e la geografia malavitose della capitale tra gli anni 70 e 80 - tutto inizia con il rapimento del barone Rosellini nel libro, del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere nella realtà - sullo sfondo del terrorismo politico, delle trame eversive dei servizi segreti deviati, dei complotti di settori della finanza, di un'epocale trasformazione della "cultura" mafiosa e camorrista.

Questo spaccato della peggio gioventù riscritto dagli sceneggiatori Sandro Petraglia e Stefano Rulli, doveva diventare film per la regia di Marco Tullio Giordana che vi ha poi rinunciato. Proprio due domeniche fa il programma di Carlo Lucarelli Blu Notte proponeva una minuziosa ricostruzione della vicenda: a chi già sapeva ha ricordato, e a chi non sapeva ha consentito di riconoscere, attraverso le identità romanzesche di De Cataldo, le identità reali. Franco Giuseppucci detto il Negro, Maurizio Abbatino detto Crispino e Renatino De Pedis dietro i personaggi del Libano, del Freddo, del Dandi. Motivo d'attrazione e aspettativa per la traduzione cinematografica di una coralità che investe altre decine di comprimari, è il fatto che questo film coinvolgerà un'intera generazione di attori italiani.
Stefano Accorsi sarà il commissario Scialoja, che però non ha un corrispettivo diretto nella realtà; Kim Rossi Stuart il Freddo, Pierfrancesco Favino il Libanese, Claudio Santamaria il Dandi. Con loro: Riccardo Scamarcio, Massimo Popolizio, Elio Germano, Francesco Venditti, Antonello Fassari, Gianmarco Tognazzi. I personaggi femminili maggiori, Patrizia la prostituta che spartisce i suoi favori tra Scialoja e Dandi e Roberta la ragazza di buona famiglia che diventa la donna del Freddo, sono affidate ad Anna Mouglalis e Jasmine Trinca. Né il romanzo di De Cataldo né il film di Placido parlano esplicitamente di banda della Magliana. L'ultimo arresto è di poche settimane fa.

Placido, che cosa l'ha convinta?
"Il nucleo fondamentale del romanzo fa parte del mio vissuto. Sono arrivato a Roma in quegli anni, ho fatto il poliziotto prima di studiare da attore. I fatti che punteggiano il romanzo, dal rapimento Moro all'attentato della stazione di Bologna, mi hanno segnato. E proprio quello che mi coinvolge di più lo personalizzerò, lo forzerò memore delle mie emozioni. Di chi è stato non solo testimone ma anche complice nel senso di non aver saputo reagire abbastanza. Vedendo il film televisivo su Borsellino (cui peraltro lo stesso De Cataldo ha collaborato, ndr), poche sere fa, mi sono detto: ecco, prima li ammazziamo e poi ci facciamo i film sopra. Ed è una riflessione amara che faccio io che ho interpretato Falcone nel film di Giuseppe Ferrara, cotto e mangiato subito dopo l'assassinio. Anche se qui la consegna è quella di fare un film di genere".
Perché lo chiama film di genere?
"Mi hanno raccomandato che dev'essere un film popolare che racconta la storia di un gruppo di gangster. I produttori (Cattleya con Warner, ndr) si aspettano un film alla Leone, alla C'era una volta in America, trent'anni di amicizie e tradimenti. Rispetterò l'aspettativa d'un racconto immediato: ma anche rigoroso, che rimanga dentro una tradizione di cinema civile, da Rosi a Un eroe borghese. Ne è garanzia anche la firma di Petraglia e Rulli".
Tante le aspettative. E i rischi?
"Quello di fare di questi gangster degli eroi. Noi dobbiamo far capire che saranno degli sconfitti. E tutti i ragazzi che interpretano i ruoli sono molto consapevoli. Tengono ai loro personaggi ma sanno quello che stanno facendo".
Il più suggestivo e "affascinante" è il Freddo.
"È quello dall'umanità più complessa. A un certo punto della scalata criminale vorrebbe tornare indietro. Per amore cerca di redimersi. Nel mio finale mi piacerà pensare che il Freddo un attimo prima di andarsene per sempre riviva l'infanzia perduta e pasoliniana sulla spiaggia, rivedendo i suoi amichetti. Mi sono fatto aiutare dal linguaggio di Citti. Mentre per il commissario Scialoja ho tenuto in mente Germi, il suo Ingravallo di Un maledetto imbroglio. E ho chiesto d'utilizzare la stessa struggente canzone di Rustichelli che canta Alida Chelli in quel film. Insomma nel mio film ci sarà la memoria di un cinema che abbiamo visto - ma non dei polizieschi tipici degli anni 70, da Maurizio Merli al Monnezza, perché non voglio fare "colore" - e di una letteratura che abbiamo letto già. I produttori sono un po' spaventati da un linguaggio troppo romano, ma credo che tutti gli attori sapranno dare ai loro personaggi una statura drammatica al di là di questo limite".
Il romanzo è molto vasto, avrà imposto delle scelte.
"Sono stati sacrificati alcuni personaggi. O più personaggi sono stati riuniti. Abbiamo fatto un inizio diverso: vediamo tutti loro ragazzini, non ancora banda. Il motivo principale resta: il percorso di crescita di questo gruppo criminale coincide con gli anni più terribili della storia d'Italia. Sarà molto presente il rapimento Moro. Visto da loro: dalla richiesta di aiuto dello stato tramite la camorra di Cutolo per ritrovarlo, alla presa di distanza della banda dalla politica. Fino alla "crisi di coscienza" del Freddo di fronte alla strage di Bologna".
Ma i capi hanno nel libro forti riferimenti ideologici di destra.
"Il Libano, sì, si sente fascista. C'è poi la figura del Nero. Io oppongo il Freddo il quale sente naturalmente, istintivamente che quella cultura gli fa schifo. Non è che io tifi per il Freddo però credo che sia quello che più cerca il riscatto da una vita sbagliata. Questa sarà la storia di un gruppo di ragazzi che volevano diventare ricchi ad ogni costo e sono diventati infelici dilaniandosi tra loro, mentre sullo sfondo delle loro gesta feroci l'Italia stava scoppiando. Vorrei anche che il film offrisse un ripasso di storia italiana. So che il limite, anche del film, è che alla fine i misteri restano. Ma una cosa il film la dirà: che lo stato italiano ha avuto gravi responsabilità nella destabilizzazione del paese".

 

La Repubblica, 26 Settembre 2005
Rossi Stuart protagonista con Accorsi dell'atteso film, dal libro di De Cataldo, su una gang ispirata alla banda della Magliana
Kim e gli altri, eroi alla rovescia del "Romanzo criminale" italiano
di Claudia Morgoglione

Roma - Chi ha amato il bestseller da cui è tratto, probabilmente apprezzerà anche il Romanzo criminale versione grande schermo: ovvero vent'anni della più nera storia italiana, dai primi Settanta alla fine degli Ottanta, mostrati attraverso gli occhi - e i misfatti - di una gang romana modellata sulla celebre banda della Magliana. Il tutto con un cast all star che va da Kim Rossi Stuart a Stefano Accorsi, da Claudio Santamaria a Piefrancesco Favino, passando per i superemergenti Riccardo Scamarcio e Jasmine Trinca. E con il regista, Michele Placido, più battagliero che mai: "Con quest'opera - racconta oggi, alla conferenza stampa di presentazione - ho voluto raccontare non solo una vicenda di mascalzoni, di ragazzi di borgata, ma anche la storia del nostro Paese: la corruzione, gli scempi, le vittime innocenti".
Placido, insomma - ancora provato dai fischi riservati al suo Ovunque sei, alla Mostra di Venezia 2004 - tiene più a sottolineare l'aggancio della pellicola con la tradizione del cinema italiano di impegno civile, da Francesco Rosi in poi, che non il suo essere una versione romanesca di Quei bravi ragazzi: "Ci sono tanti scheletri negli armadi che chiedono di essere raccontati", dichiara. Tanto che, su questa falsariga dell'aggancio alla storia recente, il regista confessa un altro suo sogno, finora proibito: un film su Bettino Craxi. "Da anni mi batto per farlo - rivela - non solo sul personaggio, ma su tutto ciò che ruotava attorno a lui. Una materia scottante, difficile, ma di grande spessore drammaturgico e tragico".
In attesa di vedere se il progetto si realizzerà o meno, occupiamoci adesso di Romanzo Criminale. Tratta dall'omonimo libro di Giancarlo De Cataldo (che è anche autore della sceneggiatura, insieme al duo Stefano Rulli-Sandro Petraglia), prodotta da Cattleya in collaborazione con Warner Bros, in uscita venerdì prossimo in circa 300 sale, la pellicola racconta la parabola di tre amici d'infanzia: il Libanese (Piefrancesco Favino), il leader storico della gang; il Freddo (Kim Rossi Suart), il più enigmatico; il Dandi (Claudio Santamaria), il più viveur. Dopo aver compiuto un sequestro con uccisione dell'ostaggio, i tre decidono di reinvestire il riscatto in droga e di conquistare, a suon di pallottole, la piazza romana.
E in effetti ci riescono, grazie a una scia di sangue che passa quasi inosservata, in un'Italia alle prese con gli anni di piombo. Tra i pochi a intuire subito il pericolo c'è il commissario Scialoja (Stefano Accorsi), che tenta invano di incriminarli. E che, nella caccia ossessiva alle prove dei loro misfatti, finisce con intrecciare una relazione pericolosa con la prostituta d'alto bordo Patrizia (la modella francese Anna Mouglalis).
Giunti all'apice del successo, anche grazie all'alleanza con la mafia siciliana, la gang comincia a "sbandare". Un po' per le relazioni pericolose con gli apparati deviati dello Stato, che la protegge ma anche la usa per i lavori sporchi: così ad esempio un nazista detto appunto il Nero (Riccardo Scamarcio), amicissimo dei nostri eroi negativi, finisce coinvolto nella strage di Bologna. Un po' perché il Libanese comincia a perdere il controllo, facendo una brutta fine. Un po' perché il Freddo si innamora di una brava ragazza (Jasmine Trinca). Ma per loro, non ci sarà lieto fine.
Il tutto in un film che mescola le storie criminali dei protagonisti con le vicende della tragica cronaca italiana: sullo schermo vediamo una scena in cui si riscotruisce l'esplosione alla stazione di Bologna, l'audio (reale) della telefonata con cui le Br resero noto l'assassinio di Moro, perfino il crollo del Muro di Berlino. Tutte scelte che un Placido emozionato (ma anche un bel po' nervoso, verso le critiche rivolte al film da alcuni dei giornalisti presenti), rivendica: "Durante la lavorazione - racconta - sia io che i ragazzi abbiamo vissuto con emozione questo ripercorrere la tragedia del nostro paese. Basta pensare a Bologna: per quella sequenze ho chiesto alla produzione uno sforzo economico in più, per poter mostrare la strage in tutta la sua potenza. Spero così di spingere anche i giovani ad approfondire la nostra storia".
E loro, i "ragazzi" che hanno incarnato gli antieroi dell'Italia pre-Tangentopoli? A guardare le loro interpretazioni, sembra che tutti abbiano sentito molto l'importanza del film. "Sono stati loro stessi a decidere i ruoli - spiega ancora Placido - ad esempio, Favino ha insistito per fare il Libanese, e Scamarcio per diventare il Nero". "E' vero - conferma Scamarcio - la cosa che più mi affascinava era rendere, attraverso il mio personaggio, la degenerazione di un'ideologia (l'estremismo di destra, ndr), la follia di quegli anni".
Ma forse l'interpretazione che colpisce di più è quella di Rossi Stuart. "Sullo schermo tutti noi - racconta l'attore - siamo uniti da un'amicizia tipica di una certa romanità, che ha dei codici ben precisi. Quanto a me, ho amato tantissimo il mio personaggio. Anche per come è scritto il romanzo, ho sentito subito grande fascinazione per i vari caratteri. Un sentimento che ho condiviso con gli altri, visto che, prima delle riprese, Placido ci ha riuniti tutti quanti in un agriturismo, per discutere della sceneggiatura".
L'unico a mantenere un certo distacco è Stefano Accorsi. Anche perché il suo Scialoja - nel film, ancora più che nel libro - non risulta per nulla simpatico: non a caso, in conferenza stampa, il regista lo definisce "una m...a d'uomo". "La cosa più interessante di lui - conferma l'attore - è che non è un buono che diventa cattivo, ma qualcuno che fin dall'inizio è invidioso dei soldi della banda: diciamo che è un borghese piccolo piccolo con una grande ambizione". E forse proprio per questo, sarà lui l'unico a trarre vantaggio dalla "lunga guerra".

 

l’Unità, 27 Settembre 2005
di Roberto Cotroneo

Ci sono degli strani tic, e degli strani modi oggi per parlare di cinema, di libri, di musica. Il tic è sempre sintetizzabile in una domanda che si fanno tutti, senza distinzione. E che ci si fa a vicenda: «ti è piaciuto?». E a questa domanda si risponde con una frase di solito altrettanto concisa, che ovviamente implica un giudizio: molto, moltissimo, abbastanza, per niente... e via dicendo. Ci si potrebbe interrogare a lungo sul perché la gente ti chiede, e si chiede, se gli e piaciuto un film o un libro. Ed è facile capire che è una domanda che non ha senso come non ha senso qualunque risposta. Ma è facile notare che quella domanda, «ti è piaciuto il film? il libro? il concerto?», si utilizza anche per una cena in un buon ristorante, per un gelato alla crema, per un vestito di buon taglio, per una festa in discoteca.
Ora, questa considerazione di ordine, diciamo così, estetico, non è qui fine a stessa, ma è utilissima per farsi una serie di importanti domande sul film di Michele Placido: “Romanzo criminale”, tratto dal fortunato libro di Giancarlo De Cataldo e in sala da venerdì. La domanda alla fine dell’anteprima per giornalisti e addetti ai lavori, era: «ti è piaciuto?». E la risposta più onesta è: «si, mi è piaciuto». Mi è piaciuto anche vedere tutti assieme questi ragazzi, Accorsi, Favino, Kim Rossi Stuart, recitare in una bella storia italiana. E mi è piaciuta la regia di Michele Placido. Eppure non mi basta. Non basta dire queste cose ad un film, non serve più ragionare in questi termini. Proviamo a cambiare questi termini, e analizziamo una serie di cose. Prima cosa: la storia. La storia di questo film segue le note vicende di una banda di criminali, una banda che viene chiamata «La banda della Magliana» nel decennio che va dalla seconda metà degli anni Settanta fino a metà degli anni Ottanta. La banda della Magliana, dal quartiere romano in cui si forma, è un fenomeno assai particolare e inedito nella storia criminale italiana. Non è mafia, non è camorra, ma è un’organizzazione criminale che semina tenore e morte nella capitale per anni, utilizzando metodi da un lato violenti, e dall’altro «manageriali». Gente che reinveste, gente che ha aperto discoteche, locali, che ha fatto operazioni immobiliari, partendo dal riutilizzo dei soldi di un sequestro. Ma la banda della Magliana, che era una sorta di società per azioni del malaffare, ha perlomeno lambito, e in certi altri casi ha attraversato, quel terreno di nessuno dove i servizi segreti, certi apparati coperti dello stato, e persino forze dell’ordine si sono incontrati per mettere a punto delle strategie illecite. Insomma, i capi della banda della Magliana sono stati in certi casi pilotati e indirizzati dai servizi segreti deviati, e nel film tutto questo viene detto e raccontato con molta chiarezza. E non solo, nel film si accenna a un collegamento preciso tra i membri della banda e la strage alla stazione di Bologna del 1980. Queste sono cose che gli addetti ai lavori conoscono benissimo. E il film riprende molte delle tesi di De Cataldo, l’autore del libro: che di professione fa il magistrato, e che ha indagato su queste cose. Ma allora, che film è questo “Romanzo criminale”. E un film dì denuncia? Se intendiamo i film di denuncia come quelli di Francesco Rosi (vedi, un esempio su tutti, “Il caso Mattei”), il film di Placido non è un film di denuncia. Ma allora è un film sulle vicende della malavita romana, viste dalla parte dei malavitosi? Neanche, o meglio non soltanto. O forse è un film che racconta come un poliziotto abbastanza integerrimo, e isolato, riesce a perdere la sua battaglia con i malavitosi, che a loro volta perdono la loro di battaglia, e finiscono tutti morti ammazzati?
Sono domande che non hanno una risposta semplice. Rosi girava film con un linguaggio molto chiaro. Era un linguaggio che sposava il taglio del documentario con il cinema. La verità veniva data dalla commistione dì immagini della realtà montate con quelle degli attori. Il caso Mattei è costruito in questo modo. E quel misto di colore e bianco e nero, è quell’idea che un linguaggio diverso rafforzi delle tesi che hanno una loro verità. Chi in questi giorni ha visto “Good Night and Good Luck” di George Clooney avrà notato che è in bianco e nero. Il bianco e nero è sintomo di verità, perché i filmati della storia, almeno fino agli anni Sessanta, sono tutti in bianco e nero. Se per Clooney la verità incomincia dalla scelta estetica del bianco nero, per Steven Spielberg, per fare un altro esempio, che girò “Schindler’s List” in bianco e nero, fu addirittura il contrario, capovolse proprio un luogo comune. Nel film di Spielberg le persone reali, i sopravvissuti di Schindler entrano in scena a colori. E quando irrompe il colore nel film (la celebre bambina con il vestito rosso del film, per esempio) è il segnale che tutto quello che stai vedendo è assolutamente autentico.
Placido non usa il bianco e nero per raccontare quegli anni. Lo fa soltanto quando usa documenti d’archivio. Ma questo non toglie che il messaggio che esce dal film è di una durezza terribile. La tesi è che nel nostro paese lo Stato ha utilizzato dei criminali per alimentare la strategia della tensione, ha coperto assassini, ha impedito persino il ritrovamento di Aldo Moro. Soltanto che la cornice in cui è inserita questa tesi toglie verità alla storia. Per usare un paradosso: «è una storia vera che sembra dì fantasia». E sembra di fantasia perché i linguaggi sono mescolati tutti assieme e non si distinguono più. Cosa capirà, un diciottenne di oggi nel vedere queste immagini? Penserà che è una storia classica, che forse non c’è niente di vero, eccetto i riferimenti a Moro e alla strage di Bologna? Oppure penserà che è la fedele riproduzione di un’epoca e di un mondo? Non riuscirà a pensare nessuna delle due cose. Nel film non c’è quella Roma degli anni Settanta, se non per rapidi flash cinematografici, e il gruppo degli attori, tutti bravissirni, non sono esattamente la fotocopia dei banditi della Magliana, ma rappresentano quello che lo spettatore di oggi si aspetta di vedere in un film sulla malavita. Violento, ma mai troppo violento, rapido al punto giusto, con un buon ritmo, con una grammatica che è la grammatica a cui ci hanno abituato il cinema e la fiction di questi anni. Il risultato è il migliore possibile che ci si potesse aspettare da una storia per il pubblico nella nostra epoca. Quella di un pubblico che si chiede a vicenda: «ti è piaciuto?». Un pubblico che ha trovato il passepartout di un criterio estetico unico e uniformato per tutto: dal giudizio su un film al giudizio sul cous cous del ristorante sottocasa. Non lo dico con moralismo o con snobismo. É così, e basta. Ma in questo modo non si finisce forse per rendere rassicuranti anche i misteri e le inquietudini di questo paese terribilmente irrisolto? Patinando un po’ troppo l’orrore? O invece è solo questo l’unico modo ancora possibile per far passare (come si diceva un tempo) certi messaggi?

 

La Repubblica, 27 Settembre 2005
Da venerdì in sala “Romanzo criminale” di Michele Placido dal best seller di Giancarlo de Cataldo
Il Libanese, il Freddo e il Dandi
la peggio gioventù della Magliana
di Maria Pia Fusco

«Chi sono il Libanese, il Freddo, il Dandi, il Nero? Quattro disgraziati che invece dì andare a lavorare preferiscono fare i ladri, sono personaggi tutt’ altro che positivi», sintetizza Kim Rossi Stuart - lui è il Freddo - alla presentazione di “Romanzo criminale”, uno dei titoli più attesi della stagione, tratto dal best seller di Giancarlo De Cataldo, regia di Michele Placido. Sceneggiato da Rulli, Petraglia e lo stesso De Cataldo, che ha benedetto i tradimenti del romanzo, «necessari nel passaggio dal linguaggio scritto a quello delle immagini», il film, salutato da un applauso insolito alle proiezioni stampa, esce con 300 copie il 30 settembre.
Se sono negativi il Libanese e i suoi compagni della banda della Magliana che negli anni Settanta e Ottanta dominò con ferocia la malavita romana, non è certo positivo l’uomo di legge, il commissario Scialoja che, secondo Steafano Accorsi che lo interpreta «non è uno che da buono diventa cattivo, ma ha già dentro il male, non ha scelto di fare il ladro, ma invidia chi lo fa, desidera soldi e potere. É un borghese piccolo piccolo con ambizioni grandi grandi. Non ha un lato romantico, vuole solo arrivare al massimo della carriera. Ho parlato con persone della polizia e mi hanno raccontato che molti poliziotti hanno fatto carriera con la banda della Magliana».
«Anche durante le riprese parlavamo sempre, con gli attori, con Luca Bigazzi, stiamo attenti a non farne eroi positivi», dice Placido, che ha voluto «rendere l’emozIone del romanzo e insieme la tragedia vissuta dal nostro paese, ho voluto sullo sfondo quell’Italia corrotta, piena di misteri, insanguinata da tante morti innocenti. Per esempio la strage di Bologna: ho voluto che fosse più esaltata con le immagini della realtà, perché agli occhi di un criminale come il Freddo risultasse più scandalosa della sua già scandalosa vita. Io mi sono commosso e spero che i giovani, vedendola con gli occhi del Freddo, abbiano voglia di approfondire quella realtà, che non tutti conoscono. Alcuni degli attori sono stati colpiti dalla voce del brigatista che fornisce indicazioni per il ritrovamento di Moro assassinato, non sapevano certi dettagli essenziali del caso».
La forza del romanzo e del film è, dice Petraglia, «la presenza della politica. “Romanzo criminale” non è solo una storia di gangster, è anche la storia di come venivano manovrati dal potere o dai sottopoteri più o meno occulti. E una caratteristica tutta italiana, abbiamo romanzato una realtà tipica del nostro paese, qui non puoi fare storie di gangsterismo pure come “Quei bravi ragazzi”». Anzi, secondo De Cataldo, «cambiando il finale con il cecchino che spara, il film è più coraggioso del mio libro, ha tenuto conto delle vicende giudiziarie degli ultimi anni, dei tanti misteri irrisolti».
Ma proprio l’elemento politico suscita nell’incontro stampa un paio di reazioni polemiche: da sinistra e da destra. Da sinistra per via di un personaggio di cupo spione, il tramite tra la banda e un grande vecchio - una bella interpretazione di Gianmarco Tognazzi - che ha tra i suoi trascorsi il movimento studentesco e il traffico d’armi in Sudafrica, addirittura con il sospetto che la battuta sia stata imposta dal produttore Riccardo Tozzi che nega indignato ogni interferenza. Da destra perché il film “mostra come eroi i banditi e come cattivi i rappresentanti dello stato”. La risposta di Placido è secca e infastidita, ribadisce la valenza politica del film, anzi «ci sono molti scheletri che chiedono di uscire dargli armadi della storia italiana. E sarebbe bello se si aprisse di nuovo il filone del cinema civile, quello della scuola di Rosi, Petri, Damiani, Bellocchio, con cui mi sono formato». Gli interpreti del film sono tutti dalla sua parte, da Pier Francesco Favino (il Libanese) a Claudio Santamaria (il Dandi) - e secondo loro l’unico elemento che restituisce un minimo di umanità ai personaggi è l’amicizia che li lega, da Rossi Stuart ad Accorsi a Riccardo Scamarcio, interprete del Nero, che, dice l’attore, «è uno assolutamente negativo, rappresenta tutti quelli che partono da un‘ideologia politica e degenerano nella follia omicida». I componenti del cast, in cui gli elementi femminili sono Anna Mouglalis (Patrizia) e Jasmine Trinca (Roberta, la ragazza del Freddo), «hanno scelto loro il personaggio da interpretare, arricchendolo spesso di dettagli estetici o di linguaggio», dice Placido. Il quale, a proposito di cinema civile, è deciso ad andare avanti: «Voglio raccontare Craxi, da tempo chiedo a Rulli e Petraglia di scrivere qualcosa, non sull’uomo, ma su Tangentopoli e la realtà che c’era intorno. Ma bisogna trovare la chiave giusta, come questa di “Romanzo criminale”, in cui il punto di vista sulla realtà è quello della banda, e dunque senza pregiudizi e senza giudizi».

Corriere della Sera, 30 Settembre 2005
di Tullio Kezich

«Il delitto è una forma sinistra della lotta per la vita» filosofeggiava Louis Calhern, l’avvocato dei gangsters nel classico “Giungla d’asfalto” di John Huston. A ripensarci, questo non è solo un granello di saggezza, ma la chiave per capire tutto il cinema americano sulla malavita, da Hawks a Coppola e a Scorsese.
Ovvero la capacità di far sentire allo spettatore che quei delinquenti non sono degli alieni, ma dei nostri simili le cui scelte aberranti nascono sul terreno di un’umanità comune.
Piccolo Cesare, Scarface, Il Padrino o i «bravi ragazzi» sono come noi, solo hanno preso una strada sbagliata. Ed è per questo che pur inorriditi dalle loro gesta non li abbiamo mai odiati. Mentre di fronte ai caporioni della banda della Magliana nel film “Romanzo criminale”, nelle vivide incarnazioni di Kim Rossi Stuart, Pierfrancesco Favino, Claudio Santamaria e compagni, non si può che detestarli da principio alla fine. Arroganti, sbruffoni, violenti, rnachisti, drogati, incapaci di lealtà nei confronti l’uno dell’altro; e pronti a prestarsi per denaro ai più bassi servizi pretesi dalla politica e dallo spionaggio. In tale senso bisogna riconoscere che il film di Michele Placido è più vicino alla realtà di quanto lo siano in genere gli americani, tanto più che l’uomo della legge (Stefano Accorsi), rientrando in pieno nella visione pessimista di Placido, non sèmbra fatto di una pasta migliore rispetto a quella dei banditi ai quali dà la caccia.
Attraversando le 632 pagine di “Romanzo criminale” (Einaudi) di Giancarlo De Cataldo mi è venuta la curiosità di saperne dì più intorno alla banda della Magliana. E così mi sono procurato un altro paio di libri, “Ragazzi di malavita” di Giovanni Bianconi (Baldini Castoldi Dalai) e “La banda della Magliana” di Gianni Flamini (Kaos), il primo puntigliosamente sociologico e il secondo animato da passione dietrologica; ma nonostante queste raccomandabili letture, direi che ne so meno di prima.
Perché le gesta dei maglianesi, che tennero banco nella criminalità romana dal 1977 al decennio successivo e oltre, mettono in evidenza una selva di nomi, una somma di delitti che vanno dai sequestri di persona con uccisione dell’ostaggio alle rapine, una serie di tragedie personali. Il tutto in un sovrapporsi di illazioni e false piste destinate a vanificarsi in testimonianze reticenti e in dubbie accuse di pentiti, opinabili soprattutto quando vengono chiamati in causa i poteri occulti. Si tocca con mano che l’espressione corrente «i misteri d’Italia» è davvero appropriata perché molti fatti misteriosi sono e tali restano. Nessuno è riuscito a individuare fino a che punto la banda della Magliana è stata implicata in trame nere come il caso Moro, l’uccisione di Mino Pecorelli, la strage alla stazione di Bologna, l’attentato al Papa. Né il film, che pur cita tali episodi, ci fa fare un passo avanti in direzione della verità, limitandosi a confermare la presenza di un lugubre burattinaio dell’eversione concretata nella figura (troppo stereotipa per essere credibile) dell’ennesimo Grande Vecchio (Toni Bertorelli).
A differenza dei libri citati, “Romanzo criminale” non è sociologico né dietrologico. È un colpo d’occhio inquietante e atroce che affonda nei buio della coraggiosa fotografia di Luca Bigazzi, proponendosi come un affresco della Roma anni ‘80. Un periodo nero, che vede l’innesto della criminalità comune su quella politica e viceversa fino a far cadere le barriere tra l’una e l’altra. Troppo lungo (due ore e mezza), ridondante nei particolari e (come notavamo per contrasto con il cinema americano) asceticamente sgradevole, è un film che magari non fornisce informazioni inedite sulla banda della Magliana, ma ti lascia inquieto e spaventato come dopo una discesa all’inferno.

 

La Repubblica, 30 Settembre 2005
"Romanzo criminale" di Michele Placido racconta le gesta dei balordi della Magliana
Storia di un banda e di una città sotto scacco
Ottimo il cast ma il film lascia in ombra la rete di complicità che aiutò quei delinquenti
di Paolo D'Agostini

Questa storia l´hanno raccontata Giovanni Bianconi nel libro "Ragazzi di malavita", poi il giudice Giancarlo De Cataldo con il bestseller "Romanzo criminale" e Carlo Lucarelli nelle sue appassionate ricostruzioni televisive. Il film, che nasce dal romanzo di De Cataldo, anche collaboratore alla scrittura accanto alle star Rulli e Petraglia, doveva inizialmente essere "la peggio gioventù" di Marco Tullio Giordana, il controcanto nero agli stessi anni da loro tre narrati in "La meglio gioventù". Poi è arrivato Michele Placido, prodotto da Cattleya e Warner per una scommessa importante e ambiziosa nell´economia del cinema italiano.
Placido ha messo da parte un po´ della sua autorialità (quella dei due precedenti, discussi, film) ma ha dato prova di grande senso della regia. Accompagnato da riferimenti che comprendono Pasolini ("Ragazzi di vita") e Sergio Leone nella concezione di uno spettacolo imponente, ma forse anche Petri di "Indagine" o lo Scorsese narratore di malavita ("Quei bravi ragazzi"), Placido si è avvalso al massimo dell´orchestra dei collaboratori: la luce di Luca Bigazzi, il montaggio serrato e incalzante di Esmeralda Calabria, scenografia, costumi, musica. Di forte impatto emotivo l´Equipe 84 che canta "Io ho in mente te" sui titoli di testa. Arbitrio poetico, giacché le gesta della banda della Magliana (cui è dedicato anche un severo ed efficace film inchiesta di Daniele Costantini) iniziano nel ‘77 con il rapimento del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere (nella finzione barone Rosellini), come lo è l´antefatto che ci mostra i futuri Libanese, Dandi e Freddo ancora ragazzini negli anni 60.
Ma l´asso nella manica è il cast, la cui adeguatezza alla coralità della storia è già da sola la prova di una sfida vinta. Placido ha riunito le migliori risorse di una generazione (si sente solo la mancanza di Valerio Mastandrea). E il discorso non vale solo per le figure di primo piano, ma per tutti: dal "Sorcio" di Elio Germano al faccendiere di Gianmarco Tognazzi, dal "Bufalo" di Francesco Venditti al "Terribile" di Popolizio, dal Buffoni di Fassari al "Nero" di Riccardo Scamarcio. Dubbi? Lasciamo perdere quelli "etici" - dei farabutti che diventano eroi - perché così cestineremmo metà storia del cinema. Solo quello che, dovendo selezionare un materiale sterminato, il "prendersi la città" da parte di questo pugno di delinquenti di quartiere, qui, sacrifica all´epopea delle loro gesta parte dell´oscura rete di complicità - mafiose, massoniche, politiche, finanziarie, spionistiche - che ha percorso la storia degli ultimi decenni italiani.

 

il manifesto, 6.10.2005
Indagine sul `68 al di sopra d'ogni sospetto
di Roberto Silvestri
 
Coinvolto nella promozione di Romanzo criminale, il film “sulla banda della Magliana”, lo scrittore e ex magistrato Giancarlo De Cataldo, autore del romanzo che è alla base del “gangster movie” di Michele Placido, ha risposto però volentieri a alcune nostre domande “on line” a proposito di alcune battute contenute nello script e di alcune divergenze di fondo tra il manifesto e il gruppo creativo/produttivo che ha voluto, come dichiara l'altro sceneggiatore Sandro Petraglia “rendere il senso di quello che è accaduto in questo paese”. Siamo convinti che il film non restituisce il senso in più di quegli anni, semmai si irrigidisce, come molto cinema civile all'italiana, in un senso unico, consentito dalla legge. Ma il grande cinema è fuori legge. E non nel senso della banda della Magliana. Un grande cinema di genere, entusiasmante e liberatorio, capace di bucare i mercati internazionali e sovvertire come solo la finzione può fare, il rapporto tra legalità repressiva e illegalità democratica, insomma alla Eastwood, deve dare immagine e parola a altri miti e pulsioni, oggi banalizzati più che criminalizzati nell'immaginario. Un grande cinema italiano nascerà solo quando si criticherà il `68, ma con lo sguardo del `77. L'arco di tempo impiegato per perseguitare e aggredire la parte migliore della società italiana. Nessuno Straccio o Brandirali è diventato, infatti, nonostante l'artaudiano know how criminale delle lotte antagoniste, “stragista fascista”, per quanto romanticamente demenziali fossero nel `68. Anzi, da tutti quelli che hanno scelto la lunga marcia dentro le istituzioni, per quanto marce siano dentro, ci aspettiamo da tempo rivelazioni sensazionali. Se no che ci stanno a fare in quegli orridi palazzi?
Perché è “fuori dal film” il rapporto tra banda della Magliana e autorità vaticane?
Potrei risponderle che, secondo le fonti su cui lavorai per il romanzo, un simile rapporto diretto fra banda della Magliana e autorità vaticane non c'è mai stato. Va bene che in Italia tutto può succedere: anche che qualche autorevole intellettuale sostenga che la Banda c'entra persino con l'omicidio di Pasolini (avvenuto, sia detto per inciso, quando nemmeno coloro che l'avrebbero fondata avevano in mente l'idea stessa della banda), ma a parte la sepoltura di Renatino De Pedis a Sant'Apollinare, nessuna altra seria “connection” era a mia conoscenza. E dietro quella sepoltura può persino esserci un umanissimo, per quanto discutibile, desiderio di fede. Ma la risposta che sento più sincera è un'altra: è fuori dal film ciò che gli autori del film, me compreso, non hanno ritenuto essenziale alla drammaturgia del film stesso. Per libera scelta.
Perché è “fuori dal film” ogni accenno alla lotta di massa popolare del momento, per difendere e allargare la democrazia, e contro cui agì il quartetto banda della Magliana - gruppi armati nazifascisti - organi deviati dello stato - mafia?
Potrei risponderle che frenare la lotta di massa popolare era l'ultima preoccupazione di capi e gregari della Banda. Ciò che interessava era, in una prima fase, arricchirsi facendo piazza pulita dei concorrenti. E successivamente “ripulirsi” in modo da potersi godere i proventi dei traffici illeciti. Potrei risponderle che le alleanze con mafia, neofascisti e servizi deviati (ma perché dimenticare anche certi settori della Massoneria?) furono di alcuni componenti dell'ala “testaccina” e non dell'intera banda. Ma la risposta che sento più sincera ricalca la precedente, con qualche precisazione: a me, nel libro, e agli autori tutti, nel film, interessava raccontare fondamentale la storia di una “fratellanza” di giovani maschi, i loro riti iniziatici, la loro “scalata al cielo”. Erano criminali, e dunque il modo di essere, di agire, di pensare, era, necessariamente, criminale. E siccome erano criminali “italiani”, giocoforza si trovarono coinvolti in un gioco paradossale di connivenze e anche di ricatti reciproci con alleati a volte insospettabili. In definitiva, è “fuori” da “questo” film ciò che abbiamo scelto di non metterci dentro. Immagino, a questo punto, che lei avesse in mente un film diverso.
Perché il Freddo tocca livelli quasi mistici nelle scene dei soccorsi alle vittime della strage di Bologna? Chiaro che gli antieroi di un film devono essere circondati da un'umanità peggiore di loro, ma non si è esagerato (per non parlare del romanticissimo «suicidio d'amore» che purtroppo strumentalizza un dramma disperato nella vita carceraria)?
Il suicidio d'amore è ricalcato, con qualche differenza, su una storia vera da me raccolta in ambito carcerario. I criminali, d'altronde, non si alienano dall'umanità per il solo fatto di essere tali. Sentimenti, passioni laceranti, persino inusitati atti di generosità appartengono a loro come a chiunque. Ma ne sono reso conto quando facevo il giudice di sorveglianza. Mi sono imbattuto in persone che, magari calate in un altro contesto, messe al cospetto di altre scelte, nella vita parallela di un universo parallelo, avrebbero potuto senz'altro essere ottime persone. Non mi scandalizza lo sgomento del Freddo davanti alle vittime di Bologna. Non mi scandalizza nessun atto di pietà, da chiunque provenga. Appartiene a quella parte dell'essere umano che è ancora in grado, persino nelle circostanze più drammatiche ed estreme, di riconoscere “l'altro”, e di entrare in empatia con lui. Non sono così ideologicamente schierato da postulare che un simile sentimento del riconoscersi sia patrimonio esclusivo del Movimento studentesco. Ma forse neanche lei, Silvestri, lo è. Credo che questa lamentazione sui banditi eroi o antieroi nasca da un sostanziale equivoco: questo film non rende eroici dei delinquenti. Questo film adotta il loro sguardo e, di conseguenza, quella loro particolarissima “etica” che a noi appare immorale, ma che è la sostanza “fuori margine” (per citare un bel libro di Giulio Salierno, uno che se ne intende) di cui sono fatti. C'è piuttosto da chiedersi perché nessuno si scandalizza quando il filtro dello sguardo criminale è applicato a Michael Corleone, a Carlito Brigante, a Bonnie and Clyde, o ai Romanticissimi Yakuza del mio adorato (spero che almeno su questo siamo d'accordo) Takeshi Kitano. Forse ci facciamo meno scrupoli perché loro sono americani o hanno gli occhi a mandorla?
”Militanti del movimento studentesco” non hanno mai compiuto reati di strage, prima durante e dopo la stagione delle “lotte in Italia”. Perché chi si ribella alle ingiustizie e vuole «tutto e subito» e per tutti, è moralmente votato o alla follia criminale (non si dice nel film che il personaggio di Tognazzi è ricattato o è un ex infiltrato nel movimento studentesco) o alla lotta armata rivoluzionaria più spietata (la voce delle Br che annuncia l'esecuzione di Moro), mentre chi vuole «tutto e subito», e solo per sé, e con ogni mezzo necessario, sembra quasi il profeta dei nuovi tempi?
Ah, la famosa battuta che trasformò il Romanzo Criminale in Romanzo Criminalizzato... vediamola un po': Carenza... un passato nel movimento studentesco... poi per cinque anni più nulla... poi ricompare come trafficante di armi in Sudafrica... beh, la chiave di tutto sta in quei cinque anni. Carenza non è descritto come uno che dal movimento studentesco passa direttamente al traffico d'armi. Questo per amor di precisione. Così come nessuno ha mai inteso sostenere che il movimento studentesco abbia commesso stragi. Ci mancherebbe altro! Ma, insomma, Carenza... Ripensandoci mi sembra che il personaggio abbia qualche ascendenza letteraria (Arrivederci amore ciao) o addirittura cinematografica (Hotel Colonial). Dobbiamo considerarlo necessariamente un infiltrato o un ricattato perché ci ripugna l'idea che un idealista (l'idealismo pare dato per statuto al militante di sinistra, anche armato) possa cambiare bandiera? Trovarsi più a suo agio dall'altra parte della barricata? Questo implica un giudizio storico definitivamente, assolutamente negativo sull'intero movimento studentesco? Ma andiamo! Credo che ciascuno possa costruirsela come meglio crede, questa biografia possibile di un figlio di (quei) tempi. Quello che mi pare discutibile è ricostruire o decostruire un intero film intorno a una singola battuta. Ma sia pure! Ancora una volta, mi sento trascinato a parlare di due film: quello di Silvestri e il nostro. La sua delusione, o la sua indignazione, come preferisce, nascono dalla non corrispondenza fra la sua pellicola virtuale e quella che abbiamo realizzato, e che è sotto gli occhi di tutti. Un film dove i cattivi, tutt'altro che profeti dei nuovi tempi, pagano con la vita la loro ybris e la loro umana meschinità.
Non crede che il movimento studentesco, universitario e liceale, per la sua insubordinazione sociale, che aveva ottime ragioni di lotta nella scuola, nella società, in famiglia e contro le aggressioni in Vietnam e Santo Domingo, sia stato oggetto di aggressione ripetuta, continuata e vigliacca da parte di organizzazioni fasciste protette dalla polizia, dalla magistratura e dal governo? Insomma non di guerra civile si parlò, ma di incivile aggressione contro la parte migliore della società italiana?
Ragioni anagrafiche mi hanno escluso dal movimento del Sessantotto. Ero troppo giovane persino per il Liceo! Certo, il “celerino” si sentiva molto più solidale con la Destra e con le sue parole d'ordine, ci mancherebbe,ma... ma perché dimenticare, ad esempio, che il primo ad intuire la pista nera di Piazza Fontana fu il commissario Pasquale Iuliano, certo non una “divisa rossa”... o che proprio in quegli anni nasceva Magistratura Democratica... Questa visione dello Stato come entità granitica volta alla repressione è, mi perdoni la franchezza, a mio avviso obsoleta e sostanzialmente semplicistica. Uno Stato vive, ha sempre vissuto, al suo interno, di una pluralità di articolazioni che mal tollerano la “reductio ad unum” che lei propone.
Ho apprezzato la sua premessa, alla conferenza stampa: un libro è altra cosa rispetto al film da cui viene tratto, i linguaggi sono differenti e l'infedeltà è vera fedeltà. Ma non pensa che una “costituzione d'oggetto” credibile sia l'ingrediente base di ogni film popolare d'azione ispirata alla Storia?
Certo. A patto d'intendersi sull'oggetto. Che in questo film non è la storia del movimento studentesco e dei suoi rapporti con gli apparati repressivi. Ma la storia di una banda di criminali di strada legati da una brotherhood tribale e dei loro rapporti con la strada, appunto, e con il Palazzo.

 


 
Last modified Wednesday, July, 13, 2011