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Esce il 20 febbraio 2006 "Vetro freddo" (e/o), il nuovo romanzo di Piergiorgio Di Cara .
Grazie all'Autore, ne pubblichiamo in anteprima l'incipit
.


C’è un’aria irreale tutto attorno.
Come fosse vetro.
Aria di vetro.
Fredda.
Vetro freddo.

A sgomentarmi è la dolce ipocrisia dell’addio. Quel momento malinconico e terribile delle promesse vane, che non saranno mantenute. Mai. Mai più.
Non conforta saperlo. Rende ogni cosa più difficile. Enormemente più difficile.
Sai che è inutile scambiarsi promesse come biglietti da visita. Carezzarsi le spalle e la schiena guardandosi negli occhi velati di tristezza, dove lacrime si annidano come una miopia temporanea che trasforma la realtà. Rendendola terribilmente più reale. Vera.
Come una promessa vana.
A chi non è capitato?
Sai di trovarti sul sottile filo di rasoio che divide la familiarità dall’estraneità. Come sul ciglio di un burrone.
Di qua la quotidianità rituale, di là il vuoto assoluto. Pneumatico.
E ti senti feroce e crudele ammantato dall’ipocrita dolcezza dell’addio.
Perdente.
In fuga come un reietto.
Errabondo.
Sospeso in un ultimo afflato caldo, prima che il gelo ti bruci le ossa.
Perso nella consapevolezza che c’era un mucchio di cose da dire e da fare prima di allontanarsi per sempre. E vorresti afferrare il tempo, imbavagliarlo e inchiodarlo in un eterno presente. Come un samsara ininterrotto, dove ti aspettano pub alla chiusura e ristoranti e passeggiate e risa e discussioni animate e gesti di solidarietà cameratesca che resteranno per sempre là, irreali e confusi. Invisibili pur nella loro nitidezza. Inutili e inconsistenti come le promesse di un politico. Come un contratto vergato con un elegante e innocuo svolazzo di mont blanc.
Non ci sarà più caffè o tempo da perdere. Solo fugaci telefonate e: scusami ma ho da fare; fatti sentire; magari una volta si va a mangiare un boccone assieme; vieni a trovarci, qua hai degli amici, lo sai.

È quello che succede. Esattamente quello che sento nell’istante in cui il Capo della Mobile mi notifica il trasferimento.

Eravamo nel suo ufficio. Il sole entrava a sciabolate dalla finestra. Investendo una tazza da caffè con il logo dorato del FBI in campo blu. Dentro, alcune penne. Il capo ne prese una nera.
Mi diede da firmare un foglio nel punto in cui era scritto: La Parte.

Imbarazzante essere La Parte. Sembra una cosa finta.
Un velo di polvere come fumo sospeso.
Il mio dirigente si agita sulla sedia.
Il capo evita di guardarmi.
Firmo.
- A posto, - dice.
- Bene. – Dico.
- Bé, allora buona fortuna Salvo. Fatti sentire presto, lo sai, qua hai degli amici.
- Lo so.
Usciamo.
Non mi va di aggiungere altro. Sento come se avessi un asciugamano in gola. D’istinto cerco le sigarette nel taschino. Non ci sono. Non fumo più. Almeno per il momento.

 


 
Last modified Wednesday, July, 13, 2011