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Un filo di fumo



Uno dei più riusciti romanzi di Camilleri, se non il migliore in assoluto. Il romanzo contiene il glossario, perché quando fu pubblicato, l'editore Garzanti, per risolvere le proprie perplessità e quelle dei colleghi, domandò a Camilleri un glossario che rendesse accessibile a tutti la lettura del romanzo. Camilleri accondiscese di malavoglia, ritenendolo superfluo; personalmente credo che faciliti l'impatto del lettore non siciliano con una lingua che a volte è difficilmente comprensibile e permetta di godere appieno del romanzo, cui indubbiamente la parlata siciliana conferisce un'atmosfera che altrimenti non sarebbe stato facile creare, ma che al contempo impedisce una piena comprensione di parti del discorso. "Lo spunto del romanzo - disse Camilleri - me lo diede un volantino anonimo, trovato tra le carte di mio nonno, che metteva in guardia contro i maneggi di un commerciante di zolfi disonesto". Il romanzo è ambientato alla fine dell'800, come si deduce nelle prime pagine da un documento datato 2 luglio 1890, che è in realtà un ordine di una certa quantità di zolfo, fatto alla ditta Salvatore Barbabianca e figli.

Ambientazione storica e sociale

Molti sono i riferimenti storici, sin dall'inizio del romanzo, quando si danno spiegazioni dell'operazione in atto nel paese all'ingegner Lemonnier, piemontese, ma ormai considerato "nostrano" e ammesso nel circolo dei nobili di Vigata, in quanto al servizio del marchese Curtò di Baucina, padrone delle miniere. Si parla chiaramente del malcontento nei confronti dell'unità d'Italia. Si dice che attorno al '75 sbarcarono in Sicilia due commissioni di inchiesta, mettendosi a fare una tale quantità di domande che pareva di essere ritornati a scuola e con "l'aria di doverci insegnare qualcosa"; tutti i commercianti di zolfo vennero interrogati, "onestissime persone", tutti tranne uno, Romeres, chiamato Salvatore Barbabianca. Quesre commissioni di inchiesta all'inizio parevano una cosa seria, ma poi si sono lasciati "fottere", che è ingannare e possedere insieme, dalla storia della mafia; hanno verificato che la Sicilia è un albero malato e, invece di aiutarla, hanno contribuito a peggiorare la malattia. E' così che, quando Garibaldi sbarcò in Sicilia a Vigata erano in funzione circa tremila telai, mentre dopo l'unità ne restavano in funzione meno di duecento; dopodichè la stoffa è cominciata ad arrivare da Biella e i siciliani l'hanno dovuta pagare a prezzo doppio, mentre la gente che si guadagnava il pane coi telai è andata "a minarsela". Ed è pure così che Garibaldi usò i soldi dei siciliani "mise la mani e magari i gomiti nelle nostre cassa", per pagare i vapori che aveva acquistato dal "patriota" Rubattino, che in realtà stava fallendo e colse al volo l'occasione. Del resto il generale Boglione, piemontese, che mise a ferro e fuoco anche Vigata ebbe il coraggio di sostenere in parlamento che i siciliani non "erano cresciuti dallo stesso tronco che aveva portato gli altri popoli alla civiltà" ma erano sanguinari assassini e come tali andavano trattati. Se non altro i Borboni, potevano anche essere forcaioli, ma difendevano ciò che era loro, erano onesti, tutti di un pezzo e non guardavano in faccia nessuno. Molti sono i Vigatesi rimasti fedeli ai Borboni; pochi quelli che hanno accolto a braccia aperte l'Unità. E tra gli uni e gli altri è guerra. Così Fofò Cavatorta, "liberale e cospiratore", fa murare tutte le finestre del suo palazzo che guardano verso la casa dei Ciarramidaro, borbonici convinti prima dell'arrivo di Garibaldi, ma diventati favorevoli all'Unità dopo lo sbarco dei Mille. Ma c'è anche chi, come il marchese Curtò di Baucina si fa passare per autentico rivoluzionario "non solo fra quelli del suo censo ma pure presso gli operai delle sue miniere che quasi quasi si dicevano contenti d'esser pagati di meno pur di poter stare sotto a un signore tanto liberale". La discriminazione sociale è violenta. Dei novemila abitanti di Vigata solo trecento sono quelli che contano, otto o nove famiglie nobili e una trentina di famiglie borghesi. Gli altri ottomilasettecento non possono essere considerati uomini perchè non svolgono "lavori consoni alla dignità dell'uomo". Sono gli "uomini di mare", vecchi, giovani, anche ragazzi, curvi sotto il loro carico, che fanno la spola tutto il giorno, senza un lamento, anche se il carico provoca ulcerazioni, di cui sono quasi contenti perché avere la piaga significa avere lavoro; sono i conduttori di cavalli e carretti che non gli appartengono, il cui compito è trasportare le maggiori quantità di zolfo possibili dalla miniera al deposito ma senza rovinare il cavallo né rompere una ruota, altrimenti "ti giocavi due o tre settimane di una paga già ridotta all'osso"; sono i minatori di zolfo e sale "con i polmoni fatti più polvere e pietra che carne"; sono i pescatori, che dopo una giornata di mare grosso, tornano con una magra pesca. C'è insomma tutta la Sicilia che già abbiamo conosciuta con Verga e con Pirandello. Il quadro è arricchito dalla descrizione dei pasti di questa gente; anzitutto si cucina solo di giovedì e domenica, quando si cuoce la pasta; gli altri giorni si mangia pane; come companatico si deve accontentarsi di una sarda, che si lecca e non si morde almeno finchè il rapporto col pane è diventato cosa ragionevole, o di un pugno di olive, o di un uovo ben sodo, che si tiene in bocca per sentirne il sapore e poi lo si tira fuori per usarlo il giorno seguente. I più fortunati sono quelli cui il lavoro dà diritto al companatico a spese del padrone; essi mangiano caponatina e si sentono meglio di un re. Ma a nessuno di costoro viene in mente che la loro condizione possa cambiare; non credono alle promesse dei Fasci; hanno creduto a Garibaldi a un patto, che non li facesse partire per la leva e invece per la leva erano dovuti partire.

Costruzione del romanzo

E' un romanzo corale, almeno nel senso che tutti gli abitanti che contano in Vigata contribuiscono a fare la storia raccontata. Dopo le prime pagine, in cui si capisce che è in atto una rappresaglia di stampo mafioso tra don Ciccio Lo Cascio e don Totò Barbabianca, incontriamo una serie di quadri, ciascuno dei quali ha un protagonista, collegati da un filo narrativo, l'attesa della vista del filo di fumo all'orizzonte che indica l'arrivo in porto di una imbarcazione. Ogni quadro vive anche di vita propria ed è interrotto per lasciare posto a un altro quadro, per essere poi, più in là ripreso e poi di nuovo abbandonato e di nuovo ripreso. Questo crea un clima particolare di attesa nel lettore, che deve aspettare la fine del romanzo per veder conclusa la storia psicologica dei vari personaggi, continuamente interrotta. Si tratta di una scelta stilistica non casuale, perché, mettendo in ordine i vari quadri a seconda del protagonista la storia non cambierebbe e la lettura risulterebbe senz'altro più semplice, ma verrebbe meno quel clima di attesa. che spinge a continuare nella ricerca di come procede la vicenda dell'uno o dell'altro dei personaggi. E' una specie di sofisticato puzzle, di cui solo alla fine si ha una visione completa. Il romanzo inizia e chiude con la persona di Don Angelino Villasevaglios, novantenne e cieco, che si fa portare sul terrazzo di casa e guarda il mare con la "mano a pampèra sugli occhi per evitare il riverbero, come se ci vedeva per davvero". Subito dopo ci viene presentato il Circolo dei nobili e cioè il marchese Simone Curtò di Baucina, padre Imbornone, don Agostino Fiandaca; in questa occasione ci viene spiegato chi è Totò Barbabianca. Salvatore Romeres, soprannominato Barbabianca perché al suo arrivo in paese faceva il vasaio e aveva sempre la barba sporca di creta e di gesso bianco, è da tutti considerato "la schiuma di questa nuova società che insegna a non aver rispetto di nessuno": prima liberale antiborbonico, poi spia dei garibaldini, poi iscritto alla società massonica; è uno di quelli che si riempiono la bocca di eguaglianza sociale, emancipazione, collettivizzazione, e in realtà fa in modo che quello che è suo resti suo e quello che è degli altri diventi anch'esso suo. A detta di tutti Barbabianca ha fatto i soldi rubando.

Cambia quadro e troviamo don Masino Bonocore, che da sette anni tiene le persiane chiuse a lutto stretto, mentre ora fa entrare dalla finestra un filo di luce. E' suocero di Emanuele Barbabianca, figlio di don Totò, e da questi rovinato economicamente. Ora" trovando una forza che credeva perduta per sempre, d'un salto si parò davanti alle persiane……..e mentre il sole entrava, manco ci fece caso che stava piangendo". Segue una breve rassegna di tutti quelli che in paese vivono ma non contano, una serie di nomi non meglio identificati, ma insomma tutto il paese, che," perduti mano piedi panza petto ma fatto solo occhi, occhi a filo di finestra, occhi a filo di porta, come una passata di sogliole sotto un banco di sabbia che pensano di nascondersi e invece si rivelano per centinaia e centinaia di luccicanti punti neri"…. Il quadro successivo è dedicato a Agatino Cultrera, che aveva chiuso un occhio quando don Totò spesso aveva avuto problemi e ora teme di cadere nello stesso tranello in cui è stato fatto cadere don Totò. Ritorna don Angelino sempre in attesa sul terrazzo e questa volta scopriamo il motivo per cui, prima di morire vuole aver la grazia di vedere la rovina del Barbabianca: una notte di quarant'anni prima, don Angelino e due compagni contrabbandavano seta proveniente da Malta e una volta caddero in un agguato teso loro dal Barbabianca in cui persero le mule con la seta e don Angelino si beccò una coltellata alle spalle, che non gli permise più di tornare l'uomo che era. Il Circolo dei nobili frattanto continua a ripercorrere la storia della fortuna di don Totò, dandoci contemporaneamente un quadro della Sicilia subito dopo l'unità. Ecco poi il Principino figlio del principe Luigi Gonzaga di Sommatino, ormai vecchio e demente, dedito a perfezionare la sua scoperta, la quadratura del cerchio; il Principino informa il padre di ciò che sta succedendo al Barbabianca, il quale, tempo addietro era riuscito a portar via al principe una miniera per un ventesimo del suo valore, incoraggiandolo semplicemente nella sua follia, mostrando di credere nella di lui scoperta della quadratura del cerchio. E' quindi la volta dei cinque magazzinieri che hanno negato aiuto ai Barbabianca, che si sono riuniti nel magazzino di Ciccio Lo Cascio e se la godono, pensando a un Nenè Barbabianca con la coda in mezzo alle gambe "che domandava sùlfaro come lo sperduto nel deserto domanda acqua". L'attenzione si porta ora sui Barbabianca, che finora abbiamo conosciuto solo attraverso le parole di altri. Nenè Barbabianca, alla ricerca dello zolfo che gli serve, si incontra con un altro magazziniere e riceve l'ennesimo rifiuto. Gaetano Barbabianca prega fervidamente , chiuso nella sua camera tra statuine di santi "adatte e pronte per ogni occasione". Torna , per un quadro brevissimo don Angelino Villasevagios; non ci viene detto chi si sta parlando, è solo un breve dialogo del servo con il vecchio, che come statua non si vuole muovere dal balcone in attesa del fumo. Ancora Nenè Barnabianca alla ricerca dello zolfo, accolto con ipocrita gentilezza da un magazziniere, buon samaritano, e lui per un attimo si lascia andare ed accetta le cortesie, per accorgersi subito dopo che è il gioco del gatto col topo e che l'acqua zammù che gli è stata offerta non è che "la sponza bagnata d'aceto". Segue adesso una serie di brevi quadri, che rappresentano i nostri personaggi impegnati a mangiare, ma sempre con il pensiero all'evento di cui attendono l'epilogo; e infatti non è il loro solito mangiare, perché chi beveva vino ora voleva acqua e che mangiava solo il secondo ora aveva voluto anche il primo. Mangia Michele Navarria: un personaggio nuovo, che per natura si porta addosso tanto fiele e veleno che una sua frecciata a parole sicuramente se ne andava in suppurazione. Ma oggi è contento e riesce a essere gentile con la serva. Mangia Padre Imbornone che si era sempre divertito a rivelare i segreti confessionali, con il gusto di far succedere un quarantotto, e non sapeva che un mese dopo la serva l'avrebbe trovato con la testa dentro la minestrina per essergli sopravvenuta una sincope. Mangia Ciccio Lo Casio, nemico numero uno del Barbabianca. Mangia Filippo Ingrassia, componendo un epitaffio, per sistemarlo sulla tomba della Ditta Barbabianca. Mangia Paolo Attard , rivale a morte in politica di Ingrassia. Mangia il marchese Curtò di Baucina Ma c'è anche chi non mangia e sono i tre vecchi del romanzo, tutti e tre colpiti profondamente nell'animo e nella mente dall'età o dalle vicende vissute. don Angelino Villasevaglios, il Principe di Sommatino e Masino Bonocore. A questo punto, mentre il lettore è ormai in attesa anche lui del filo di fumo, la tensione sembra allentarsi; Camilleri ci fa tornare psicologicamente indietro e ci presenta Blasco Moriones alla ricerca di zolfo per don Totò. L'attenzione del lettore è catturata dalla storia dei rapporti tra Blasco e don Totò e da quella dei rapporti tra don Totò e don Gerlando Munda. Ma è proprio allora, alla fine del lungo quadro, che appare il filo di fumo. Lo stesso vale per il quadro seguente, il pranzo nel casino di campagna del marchese Curtò di Baucina, cui sono stati invitati Lemonnier e padre Imbornone; un sereno e piacevole trovarsi tra amici all'apparenza, dove si discute di poesia e si parla di ciò che capita, ma in realtà si rivela solo un modo di riempire l'attesa del fatidico filo di fumo il cui arrivo è annunciato da un servo. La sensazione che prova Lemonnier, che ci si sia dimenticati del Barbabianca è la stessa sensazione che prova il lettore di un ritorno a vivere senza l'ossessione della sua distruzione e il risveglio di Lemonnier quando scopre che si è trattato solo di un'apparenza e che in Sicilia l'esplicito discorso principale non è che una copertura, è materialmente tradotta da Camilleri in questo suo modo di raccontare fatto di intermezzi. Del fumo si accorge il cieco don Angelino prima del servo e da lui si fa dare il cannocchiale quasi ci vedesse , ma è troppa la gioia per il vecchio che si lascia andare a una risata "che pareva fatta sbattendo due latte vacanti di sarde" e, sempre ridendo, ai accascia su se stesso e muore. L'annuncio arriva, attraverso il grido di un caruso nella camera di don Gaetano, che pensa bene di invocare direttamente la Madonna e aiutare le sue preghiere aggiungendovi l'autoflagellazione a sangue. Tutti ormai ne sono certi: la nave sta arrivano, Barbabianca è rovinato. A tradirli sarà proprio una delle caratteristiche principali del siciliano, il puntiglio, che questa volta è quello del pilota del faro che dovrebbe guidare la nave verso il porto, ma non lo fa, pur conoscendone il pericolo, perché la nave non "ha messo il segnale"; per cui "se si sentono tanto sperti da potercela fare da soli, se la fottono loro". Ma anche questa volta il lettore saprà che la nave è destinata a spaccarsi in due solo dopo aver letto la storia della formazione tempo addietro sul posto di un'isola vulcanica, che dopo alterne vicende è diventata una pericolosa secca. E così il magazziniere Ignazio Xerri si precipita da don Totò per sprofondarsi in inchini, don Masino chiude la sua finestra, don Ciccio Lo Cascio si ritrova solo come in un deserto. E nessuno riesce a dormire. L'indomani sarà proprio padre Imbornone a condurre la processione di ringraziamento promossa da don Totò. Anche la risata che si era fissata sul viso di don Angelino morto diventa una smorfia aperta, "una specie di sorriso storto che andava da un'orecchia all'altra".

La "sicilianità" secondo il romanzo

C'è un personaggio nel romanzo, l'ingegnere Lemonnier, torinese, ma ben introdotto nella società di Vigata e nel circolo dei nobili, attraverso i cui occhi e le cui orecchie di straniero Camilleri ci spiega, quali elementi costituiscono l'essenza del siciliano. Perché Lemonnier, "nei due anni di permanenza a Vigata aveva imparato a capire qualche cosa dei siciliani". In Sicilia più che le parole che si dicono sono importanti i gesti che si fanno e come questi gesti si fanno; le cose che contano sono le sfumature, "le increspature, impercettibili mutamenti di ritmo e di intonazione". A volte una innocentissima richiesta di informazione contiene una carica di ironia, un feroce sarcasmo; bisogna sempre capire quando il si è si e quando invece è no. Il vero discorso da capire è il non detto, il rimando, il sottinteso, mentre quello che appare come l'esplicito discorso principale non è che copertura, fumo negli occhi. Il siciliano fa le cose per "sfregio", cioè per legittimare un'offesa ricevuta: così Romeres è stato chiamato Barbabianca per disprezzo, perché appena trasferitosi a Vigata faceva il vasaio e di conseguenza aveva sempre la barba sporca di creta e bianca di gesso, e, una volta divenuto potente, pretese di essere chiamato Barbabianca con rispetto. Tra i siciliani le liti "si alzavano rapide come fuochi d'artificio e altrettanto rapide cadevano a piombo". Quando Totò Barbabianca diventa proprietario di palazzo Cavatorta, non fa riaprire le finestre e i balconi murati, solo perché in ogni occasione della vita meno occhi ti guardano e meglio è. La religiosità per il siciliano è assolutamente legata alla superstizione, a volte è fanatismo. Gaetano Barbabianca bene la esprime, con tutti i suoi santini sparsi per la camera, ognuno dei quali è adibito a una particolare missione e, quando i santini sembrano non bastare a raggiungere lo scopo, si autopunisce, pur incolpevole, e si flagella. E 'chiamato "U figliu fissa", ma quando l'operazone va a buon porto per i Barbabianca è lui a essere osannato, perché è lui che ci ha visto giusto, che ha scelto l'unica via percorribile per la salvezza: chiedere il miracolo. Il figlio naturale in Sicilia non è un'eccezione, perché nell'isola "il sangue pare seguire lo stesso sotterraneo e tortuoso percorso delle anguille". Di Blasco Moriones si dice che sia figlio di don Totò, che gli ha sempre voluto bene e l'ha fatto studiare, anche se alla fine del romanzo gli ricorda la sua condizione di servo; e persino padre Imbornone ha quattro "nipoti" che "con lui erano una stampa e una figura". Su come nascano o muoiano i rapporti interpersonali nell'isola, c'è l'episodio che racconta come don Totò abbia aiutato don Gerlando Munda a nascondere il cadavere di una ragazza "incidentalmente" uccisa cosicchè, mentre prima non si salutavano neppure, ora erano diventati "culo e camicia"; e il padre della ragazza "sparita" era diventato ricco perché aveva acquistato per poche lire un oliveto che apparteneva a don Gerlando Munda. Non ultimo c'è il puntiglio, che è motore e causa del ribaltamento degli eventi che si ha nel finale del romanzo. Il mare è in tempesta, in prossimità del porto c'è una pericolosa secca, ma la nave russa in arrivo non ha alzato il segnale che richiede la presenza del piloto; e così il piloto non si muove, pur essendo perfettamente consapevole di quello che succederà.

A cura di Odeia




Last modified Wednesday, July, 13, 2011