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Abecedario di Andrea Camilleri



Autore a cura di Valentina Alferj
Regia Eugenio Cappuccio
Prezzo € 26,00
Note Video-intervista di 316' in 2 DVD con libro (pagg. 60)
Data di pubblicazione 9 giugno 2010
Editore DeriveApprodi
Collana Abecedari

 

Lasciare che un grande autore scelga un proprio lessico: un abecedario di parole chiave attraverso le quali parlare di letteratura, politica, teatro, regia, autori, opere, personaggi, incontri… Il tutto nella forma di un’intervista video della durata di 6 ore circa. Questo è l’Abecedario di Andrea Camilleri, affidato alla cura di Valentina Alferj e alla regia di Eugenio Cappuccio.
È l’incontro con uno dei protagonisti indiscussi della letteratura contemporanea italiana e non solo, con la sua biografia, con la sua vita precedente e successiva al successo editoriale. È l’incontro con la sua lingua letteraria e parlata, con la tonalità della sua voce, con il suo accento e il suo siculo idioma. Con l’immancabile fumo delle sue sigarette. È l’incontro con il suo pensiero tutto, non solo quello che prende forma nei romanzi e nella parola scritta, ma anche quello che vortica nella mente di quest’uomo instancabile. Andrea Camilleri parla, ogni tanto qualche domanda e uno spunto della sua intervistatrice e lo spettatore viene trascinato da un fiume in piena di parole e di immagini, catturato da un’intelligenza acuta e uno spirito pungente. Da una carica vitale e battagliera che non teme di assumere posizioni scomode. Da un’ironia e una capacità critica raffinata. Un dialogo improvvisato (ma non troppo) nel quale l’intervistato rifiuta di lasciarsi confinare nel posto dello scrittore. Non una semplice intervista dunque, un’opera in video piuttosto, il cui protagonista è appunto Andrea Camilleri.


Valentina Alferj ha lavorato come produttrice e organizzatrice di eventi culturali. È ideatrice del Festival di letteratura Sabir. È l'assistente di Andrea Camilleri.

Eugenio Cappuccio, regista e sceneggiatore, ha firmato la regia dei film: Il caricatore e La vita è una sola (insieme a Massimo Gaudioso e Fabio Nunziata); Volevo solo dormirle addosso (tratto dal romanzo di Massimo Lolli) e Uno su due (con Fabio Volo e Ninetto Davoli).


Indice delle parole contenute nei DVD
anomalia – alice – americani – animali – arguzia – barocco – basta (una vita) – bicicletta (Robert Capa) – cinema – clandestino – credenti – denaro – desiderio – dialetto – energia – esame – fascismo – fumo – g8 – generale (Patton) – hammett – intellettuale – intercettazioni – lavoro – magistrati – narcisismo – narrare – necrologio – occhio – ozio – pinocchio – pittura – quarantotto – regia – roma – rosetta – sellerio – trama – uomo – vastaso – vittorini – whisky – wojtyla – zibaldone

Indice delle parole contenute nel libro
anni sessanta – banana – buonumore – cattolici – comunisti – dormire – égalité – famiglia – guerra – harem – italia (oggi) – legge – madre – memoria – premonizione – quarto potere – superstizione – terrorismo – università – viagra – zabaione – zero


Banana (l'Unità, 23/7/2010)
Oggi la banana, naturalmente, è diventata una metafora. Diciamo che il vero massimo della metafora lo fece Joséphine Baker quando – dall’alto della sua bellezza – ballava cantando J'ai deux amours mon pays et Paris e ballava a tette nude (scandalo per l’epoca), con solo un gonnellino di banane al bacino, che erano abbastanza allusive e metaforiche. Purtroppo, poi la metafora è decaduta in politica con «lo Stato delle banane», per indicare uno Stato da quattro soldi.
Nella mia giovinezza le banane erano una rarità. Erano piccole e picchettate. Provenivano dalla Somalia. Io diffidai immediatamente della banana, che veniva molto elogiata perché si diceva proteinica. Finalmente un giorno cedetti alle insistenze di mia madre e sbucciai questa banana floscia, mi sembrò di aver messo in bocca una saponetta. Da allora, passarono anni – dovette cadere il fascismo, venire la liberazione –, prima che arrivassero le banane col bollino.
Gigantesche e leggermente oscene. Non avevano più il sapore della saponetta, ma erano quasi plastica; avevano un sapore plastificato e leggermente pungente nella parte centrale che mi disgustò. Quindi detesto le banane, posso amarle solo metaforicamente.

Comunisti (l'Unità, 16/7/2010)
Leonardo Sciascia sosteneva che il cattolicesimo e il comunismo fossero due parrocchie uguali, era un po’ cattivo coi comunisti. Intanto, il comunismo diceva e agiva cercando di far stare meglio gli uomini sulla terra e non nell’aldilà. Quindi le due parrocchie non erano mica tanto parrocchie. Io sono stato, e continuo a essere, un comunista. Certo il prezzo pagato è stato un prezzo alto, in vite umane, in molte cose.
Certo che molte cose del comunismo, nella sua attuazione pratica, sono state sbagliate e si sono trasformate in errori tragici proprio nel conteggio di vite umane. Ma continuo a ritenere che l’aspirazione all’uguaglianza, al diritto uguale per tutti sia il dettame più cristiano che io abbia mai sentito, cristiano non cattolico.
Purtroppo è un’applicazione terrena e quindi destinata a errori enormi, a sparire non saprei. Perché molti di quei princìpi sociali che erano alla base del comunismo sono entrati quasi senza avvertimento in certe visioni dello Stato sociale, della cura delle persone… Tante cose che nel primo Novecento non erano neppure ipotizzabili si sono insinuate, perché necessarie nel cammino sociale degli uomini.
Non era un’utopia. È stata consumata e voltata in utopia proprio perché si è mal realizzata.
Quando noi ci troviamo di fronte alla rivoluzione comunista in Cina, e dalla fame assoluta riesce a dare una scodella di riso a tutti, che cos’è questo se non un passo avanti nel vivere insieme di tutti gli uomini?
Il comunismo è una perdita di libertà, perché si manifesta come dittatura. E questo è inevitabile. È possibile ipotizzare un comunismo senza dittatura? Pare che non sia possibile. Io credo che lo sia. Quando, in un futuro non troppo lontano, avverranno spaventose crisi economiche, perché ora siamo solo agli inizi di piccole crisi che colpiscono la finanza. In un futuro non così lontano, comincerà a mancare l’acqua. Stiamo vivendo in questi giorni un sommovimento mostruoso delle stagioni, blocchi immani si staccano, diventano iceberg perché la calotta polare non tiene più.
Ci troveremo, credo, in un futuro non tanto lontano a combattere per un bicchiere d’acqua e allora forse ritroveremo una solidarietà che il benessere e il capitalismo c’hanno fatto dimenticare. Abbiamo rimosso non solo i princìpi del comunismo, ma anche quelli del cristianesimo e persino del vivere sociale.

Égalité (l'Unità, 20-21/7/2010)
Égalité non è parola italiana. È un’aspirazione ed è rimasta tale persino per coloro che la formularono. La frase «liberté, égalité, fraternité» è rimasta un flatus vocis, non una realizzazione pratica. Però, significò qualcosa per il paese dove venne pronunciata, un campanello d’allarme a voler dire «attenzione, c’è questo piccolo problema». E di questo sicuramente i francesi ne hanno tenuto conto. Dove, invece, non c’è stato questo grido, non se n’è tenuto conto. E infatti l’Italia è sicuramente arretrata, socialmente, rispetto ad altre nazioni.
L’eguaglianza non significa essere tutti uguali, perché è contro natura. Fortunatamente, felicemente, siamo tutti diversi, altrimenti il mondo sarebbe di una noia mortale. La natura c’ha dotati di forme di intelligenza, forza ed energia tutte diverse. Eguaglianza significa dare a chiunque le stesse condizioni di partenza di qualsiasi altra persona, non so se sono chiaro. E non vuol dire dare le stesse condizioni di partenza a tutti, attenzione. Significa dare le medesime condizioni di partenza commisurate – ovviamente – alle capacità dei singoli individui.
Perché se dai a tutti la capacità di correre velocemente ma io sono zoppo, occorre tenere conto che la mia velocità non è quella di una persona «normale». Questo è l’ulteriore passo dell’uguaglianza. Sono le condizioni ambientali e di nascita che determinano l’individuo. Noi ci meravigliamo continuamente quando sentiamo dire che un grosso industriale o un politico serio è nato in condizioni pessime, quindi ha dovuto faticare molto per raggiungere un certo livello. Ma perché questa fatica? Meglio per tutti se un genio ha subito condizioni di partenza agevolate, come tutti gli altri. Non che parta da sottozero, ma da zero come tutti.
Questo sarebbe il vero concetto di eguaglianza. Eguaglianza non significa avere gli stessi soldi o la stessa casa. È un po’ come il libero arbitrio: ce l’hai, ma poi devi saperlo usare e comunque alla base devi sapere di averlo.
Tutta un’idea politica dominante oggi non ti dice che tutti dobbiamo avere lo stesso livello di partenza, ti dice: «Mi dispiace, figlio mio, devi partire da sottozero e diventare qualcuno, se non ce la fai, pazienza». L’idea culturale dominante, di politica dominante oggi altro non è che finto mercato, finto liberalismo, perché tutto è finto nel capitale contemporaneo. Ve ne siete accorti in questi mesi con il crollo del liberalismo americano, dove lo Stato è dovuto intervenire – vi rendete conto: intervenire negli Stati Uniti? – sulle banche americane?

Italia (oggi) (l'Unità, 5/7/2010)
Prima ancora che si facesse o poco dopo che si era fatta l’Unità, c’è stato chi ha detto che l’Italia era «un’espressione geografica». In realtà a una prima osservazione superficiale l’Italia è un’espressione geografica; come sono un po’ tutte le nazioni aggiungerei io, perché il carattere di un marsigliese non è il carattere di un bretone. Ci sono distanze abissali. Il carattere di un siciliano non è il carattere di un lombardo.
Il problema dell’Italia è stato che, mentre l’unità d’Italia era un processo storico irrevocabile verso il quale tutti ci avviavamo, questa unità venne attuata assai malamente, con errori che ci portiamo appresso fino ai nostri giorni. Uno degli errori più gravi è stato che le regioni del Nord, soprattutto il Piemonte, l’artefice dell’unità italiana, hanno considerato le regioni del Sud non dico come colonie, ma poco ci manca. Faccio un solo esempio: nel Regno delle due Sicilie non esisteva la coscrizione obbligatoria. Tu andavi a fare il soldato coi Borboni perché così ti guadagnavi il pane. Ma la coscrizione obbligatoria non c’era. Venne introdotta già nel 1861, senza nessuna preparazione psicologica, con un diktat, dall’oggi al domani.
Ora, se in una famiglia di braccianti agricoli levi per due anni, perché tanto durava la ferma, un ragazzo di 18 - che diventa braccia-lavoro, diventa ricchezza della famiglia e possibilità di guadagno - è come aggiungere una tassa su quella famiglia. Si vestivano a lutto i famigliari del giovane chiamato alle armi e lo accompagnavano al distretto come per un funerale. Basta guardare, in un bel libro del professor Oddo sulla situazione economica della Sicilia dall’Unità d’Italia pubblicato dalla Laterza, i grafici della produzione del Sud, per esempio i telai (ottomila ce n’erano in Sicilia e chiudono nel giro di due anni, perché si preferiscono i telai biellesi). Oppure va a picco, come va a picco la borsa certi giorni, il grafico della natalità: perché fare figli per darli allo Stato? E lì si coniò uno dei modi di dire più belli e tristi della Sicilia: «Mi livaru u piaciri di futtiri». Che nacque in quell’occasione. Queste differenze l’Italia se le porta dietro e ancora oggi ne subisce le conseguenze.
L’Italia è composta da italiani, ed è questo il problema, problema che venne subito individuato dopo l’Unità da colui che disse «Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani» e sempre nello stesso periodo ci fu anche un grande uomo politico che aggiunse: «Non è impossibile governare gli italiani, è inutile». Se c’è un popolo che non ha il senso dello Stato è quello italiano.
L’unico periodo nel quale ebbe un breve e fittizio senso dello Stato fu sotto il fascismo (dovremmo ritornare alla lettera D di dittatura). Certo, le dittature sono una cosa terribile, levano le libertà (invece è dimostrato che certe libertà possono essere levate anche in una democrazia deviata), però rappresentano una forza unitaria forte per una nazione. Basti pensare a ciò che accade oggi in Iraq dopo Saddam Hussein oppure a quello che capitò in Jugoslavia immediatamente dopo Tito, come il frazionamento fra etnie si ripropose immediatamente mentre la dittatura era riuscita a tenerle unite; idem col grande esempio dell’Unione Sovietica…
Difficile parlare dell’Italia in tre minuti. Io dico che gli italiani sono come le particelle di Majorana che scomparve misteriosamente. La sua intuizione a proposito dell’antimateria scomparsa che nessuno sa dove va e dove si trova - intuizione grandiosa e tutt’ora a esame - è stata che sia la materia sia l’antimateria componessero la particella. Cioè, che non fosse solo composta della materia ma anche del suo opposto. L’italiano è la particella e ha in sé una carica positiva e una negativa, la materia e l’antimateria. È capace in una guerra di scappare mettendosi le gambe in spalla come a Caporetto e a fuggire precipitosamente davanti al nemico, ma è capace anche di farsi ammazzare in guerra a Bir el Gobi. Erano fascisti. Permettetemi di riconoscere questo coraggio a dei fascisti. Ma non erano gli stessi italiani? Sì, erano gli stessi. Italiani brava gente? Certo. E quelli morti per gas in Etiopia? Che abbiamo gasato in Etiopia? Ce li scordiamo?
L’italiano è continuamente sé e l’opposto di sé; questo ti spiega la sua politica e il suo vivere che sembra essere così contraddittorio. È la solita particella che gira un po’ in un senso e un po’ nell’altro e la faccia dell’italiano cambia.

Legge (l'Unità, 28/7/2010)
Al momento attuale sarebbe meglio cambiare la scritta che si trova nelle aule dei tribunali – «La legge è uguale per tutti» – con una frase dubitativa. Non fa danno a nessuno: «La legge dovrebbe essere uguale per tutti». Basta cambiare questa frase e siamo tutti più sereni, nessuno ha più necessità di lamentarsi dal momento che è scritto lì. Il fatto è che davanti alla legge dobbiamo assolutamente essere tutti uguali, è il principio stesso della legge.
La legge non può essere rispettata da nessuno, se per alcuni è legge e per altri no. Quindi, io personalmente sono contrario a qualsiasi immunità dalla legge, anche solo per dieci minuti a persona. In qualsiasi momento della sua vita, ogni persona è responsabile delle proprie azioni e, come tale, va giudicata dalla legge in qualsiasi momento o situazione si venga a trovare.
Non ci possono essere esenzioni momentanee dalla legge. La legge rappresenta la coscienza, il vivere civile. Si tratta di una serie di regole che ci siamo dati per vivere fra di noi civilmente. E sentirsi esonerato – o volersi far esonerare anche solo per un minuto – implica per me il giudizio che tu non appartieni alla società a cui appartengo io. E quindi, non appartenendo alla società alla quale appartengo io, tu non mi rappresenti in nessun modo. Perché sei un essere alieno rispetto alla mia società e alle mie leggi.

Magistrati (Il Fatto Quotidiano, 10/6/2012)
Tocchiamo un tasto dolente… Probabilmente tra i miei antenati dovevano esserci dei delinquenti a livelli mostruosi, perché io istintivamente ho sempre provato una sorta di repulsione berlusconiana nei riguardi dei magistrati. Una sera feci addirittura un salto dalla sedia, quanto sentii un magistrato che mi piaceva e che era molto bravo – soprattutto l’apprezzavo moltissimo perché era venuto in Sicilia a sostituire il povero Falcone, che era saltato in aria –, il magistrato Gian Carlo Caselli da Torino. C’era una trasmissione televisiva che si chiamava Italiani d’oggiIl gioco della mosca. Io ebbi un brivido, mia moglie è testimone. E mi venne da dire: “Perché dice il mio nome questo qui?”. Cioè reagii non da Camilleri, ma da cittadino che non ama nemmeno essere citato da un magistrato… nessun orgoglio da scrittore. Devo dire che negli ultimi tempi mi sono trovato a doverli difendere. Infatti una volta che c’era una riunione di magistrati alla quale mi avevano invitato, io esordii dicendo: “Una cosa che non perdonerò mai a Berlusconi è quella di avermi costretto a difendervi”. Ecco, questo lo dissi facendo calare il gelo sulla platea. Certo, quando si parla della mafia, dei siciliani mafiosi, ci si dimentica facilissimamente che nel novanta per cento dei casi i magistrati, i poliziotti, i carabinieri che sono stati ammazzati dalla mafia erano siciliani come i mafiosi. Questo va detto, tanto per stabilire i giusti pesi sulla bilancia. Quella era quindi una mia iniziale diffidenza, d’altra parte comprovata da anni di magistratura asservita al potere politico: durante gli anni della Democrazia Cristiana la magistratura è stata tranquillamente asservita al potere politico. Durante gli anni del Fascismo, quando il Fascismo chiese a tutti i dipendenti dello Stato (professori universitari…) il giuramento di fedeltà al Regime fascista, solo dodici professori universitari riscattarono l’onore di tutti, non giurando e facendosi licenziare. Ma i magistrati giurarono tutti fedeltà al Fascismo, quindi un motivo di diffidenza era ben più che giustificato da parte mia. È stato vedere il coraggio di certi magistrati, pagato a prezzo della vita, che mi ha fatto cambiare completamente idea. D’altra parte però, attenzione: i magistrati non sono esseri superiori, sono uomini come me e come voi, quindi soggetti a errori, soggetti a passioni, soggetti a tutto. Spesso e volentieri fanno uno sforzo sovrumano di astrazione da quelle che sono le proprie personali idee nel giudicare. Certe volte non ce la fanno, e con ciò? È un’imperfezione prevedibile all’interno del corpo della magistratura. Non credo che la magistratura possa perseguitare qualcuno che gli sta antipatico. Deve sempre muoversi sempre dentro binari. Tra l’altro, vorrei ricordare che in Italia ci sono tre ordini di giudizio, ed è difficile che oggi si commetta l’errore giudiziario, difficilissimo. L’errore può essere commesso nel primo processo, ma nel secondo e nel terzo comincia a essere problematico. La diversità stessa dei magistrati a essere una garanzia di oggettività.

Memoria (l'Unità, 10/7/2010)
Thomas Eliot diceva «che l’inferno sarà costituito dalla memoria», cioè «ricorderemo persino il prezzo della margarina nel 1928», il che è spaventoso. Dunque la memoria può diventare un inferno, ma anche un’enorme ricchezza. Per la verità la memoria in sé è abbastanza selettiva: non è vero che io ricordi tutto, io ricordo ciò che voglio ricordare. Ma la cosa importante è che non riesci a dimenticare ciò che vorresti, non ce la fai. Una volta si diceva: «Ah, vado a fare un lungo viaggio», così le giovani ragazze ricche, disilluse in amore, andavano nelle Indie per dimenticare. Ma non dimentichi proprio nulla. Perché il paesaggio esterno non incide minimamente sul tuo paesaggio interno. E se nel tuo paesaggio interno c’è una lacerazione, essa può essere ricucita semplicemente da qualcosa che scatta dentro di te per ragioni che non sai neppure come avvengono.
Personalmente non è vero che io ricordo tutto. Alcune cose le dimentico. In vecchiaia comincio a dimenticare le parole, che cosa terribile! Questo credo avvenga a tutti in vecchiaia: il vocabolario si riduce. L’avevo sentito dire a non so a quale scrittore: «Il mio vocabolario si è ridotto a 1500-1600 parole».
Questo avviene anche ora che sto parlando, a intermittenza. Mentre prima le parole le avevo pronte, ora ho attimi di pausa, successivamente ritornano ma con un certo sforzo. Con l’età si tende a perderle. Io la memoria non l’ho mai allenata: comincio ad agitarmi quando sento dire di allenare il cervello, di allenare la memoria. Potrei dire volgarità su quali altre parti del corpo bisogna tenere allenate. La memoria non è questo.
La memoria ce l’hanno tutti, gli animali in modo strepitoso. Noi uomini, invece, siamo gli unici appartenenti al regno animale che inciampiamo nello stesso gradino, una bestia qualsiasi, un cane o un gatto inciampano una volta e mai più. Noi siamo protervi, non abbiamo assolutamente una memoria di queste cose.
La memoria è un vero caleidoscopio, perché poi tutto si compone nella memoria, ma basta girarlo perché la prospettiva cambi e addirittura alcune cose arrivi a vederle in un altro modo.
Con la vecchiaia hai quello che Leonardo Sciascia chiamava «la presbiopia della memoria»: dimentichi ciò che hai fatto il giorno prima e ti ricordi cose di settant’anni prima. Per esempio, l’altra sera all’improvviso, senza nessuna provocazione esterna (e qui è come diceva Eliot sul prezzo della margarina nel 1928) mi sono ricordato il nome del pretore di Agrigento del 1940. Si chiamava Candido Giglio, Candido di nome e Giglio di cognome. Abitava al piano di sotto della casa di Agrigento dove momentaneamente con la mia famiglia c’eravamo trasferiti per evitare i bombardamenti a Porto Empedocle. Ma la cosa bella è che raramente mi sono trovato, omen nomem, davanti a una persona che corrispondesse esattamente al suo nome e al suo cognome.
Come fai a sapere quale meccanismo della memoria è scattato? Magari parlavano di un pretore alla televisione ed è scattato l’ingranaggio vorticoso dell’apparecchio memoria che ha fatto emergere tutto, dalla figura fisica al suo modo di fare. Non lo posso usare in un romanzo col suo nome e cognome, perché non sarebbe giusto, ma cambiare un nome e cognome del genere sarebbe difficilissimo, non avrebbe senso.

Quarto potere (l'Unità, 14/7/2010)
Quarto potere è il film di Orson Welles? Lo slittino, tutta la retorica finale, lo slittino in soffitta, il bocciolo di rosa… è un film straordinario, anche considerando il periodo nel quale venne realizzato. Welles era sempre in anticipo, anticipò la fantascienza con quel famoso scherzo radiofonico che fece piombare nel panico un’intera nazione.
Il quarto potere è un potere oscillante. Ma di chi è? Nel film il quarto potere è degli editori e credo che sia l’intuizione più giusta. In realtà, si dice che il giornalista lavori da indipendente per un giornale indipendente. Ma non esiste nessun giornale del genere, soprattutto in un tempo in cui il costo di un giornale raggiunge cifre stratosferiche. Quindi, possiamo dire che nella migliore delle ipotesi i giornali dipendono da una lobby, nella peggiore dipendono da un padrone unico. Dico peggiore perché magari all’interno della lobby possono esistere degli azionisti con pareri diversi e si può sviluppare una certa dialettica.
Quando c’è un padrone unico invece...
Quindi, io ci vado sempre molto cauto sull’indipendenza del quarto potere, perché è un potere condizionato dal denaro e tutto quello che è condizionato dal denaro non è mai libero. Denaro significa non solo rendimento del giornale in numero di copie vendute, ma anche influenza sul mondo politico ed economico. È un potere condizionato e condizionante, in questo senso dicevo che il quarto potere è ambivalente.
Un giornale come il New York Times - per non fare esempi nostrani, parliamo peraltro di un giornale che tira un numero di copie quasi pari al totale dei giornali italiani - ha un potere di diffusione enorme delle proprie idee. Però, attenzione, il New York Times ha trovato una linea politica: per esempio si è distinto nell’era Bush per la sua costante critica nei confronti dell’esecutivo.
Ma la sua è stata in realtà un’incidenza relativa, perché non riusciva a uscire dai confini dei suoi lettori. Quando un giornale prende una linea, stabilizza il numero dei lettori, quelli che lo leggono sanno già che merce andranno a comprare.
In un momento politico molto forte come il nostro, quando scrivo su un giornale sento quasi un senso d’inutilità del mio lavoro, perché in realtà mi rivolgo solo agli addetti ai lavori.
Quello che Welles allora non sospettava è che il vero e reale quarto potere non è la carta stampata, ma la televisione. La televisione è peggio della carta stampata, perché è ancor più condizionata dal potere economico e dal potere politico.

Roma (Il Messaggero, 5/7/2010)
A Roma non ne ho avuto bisogno, di queste ventiquattro ore.
Immediatamente mi sono trovato a mio agio. Due volte mi è successo in vita mia di trovarmi perfettamente a mio agio in una città che non conoscevo: Roma e Il Cairo. Al Cairo forse perché le mie origini musulmane probabilmente hanno avuto il sopravvento e un ritorno di fiamma.
Roma è una città bellissima, splendida. Soprattutto quando ci sono venuto io, quando ancora da Piazzale Clodio, qui vicino, passavano le greggi che se ne salivano al tramonto verso Monte Mario. Quando a Monte Mario c’erano una decina di villette sparse nel verde e da Piazzale degli Eroi dove ancora non c’era quella orrenda fontana c’era una vecchia fornace in disuso e si andava in camporella, mentre qui ora è solo cemento. Dunque a quell’epoca era bellissima.
Devo dire che io l’ho conosciuta molto bene in virtù anche di un grande pittore. Io all’Accademia di Arte Drammatica dove ero allievo trovai comodissima la tuta. Era una tuta che D’Amico obbligava tutti a mettere... “Mettete le tute!”, diceva la mattina. E questa tuta era di colore marrone e aveva il logo dell’Accademia qui a sinistra. A me piacque enormemente e allora ne comprai una seconda e non me la levai più, mandavo una a lavare e mettevo l’altra, letteralmente. La sera uscivo con la tuta! Mi ricordo, incontrai da Aragna un mio zio che era molto snob e fece finta di non conoscermi.
C’era anche una piccola retorica “operaistica” in tutto questo, va da sé... e suscitava curiosità ‘sta benedetta tuta, perché non era una tuta da metalmeccanico, nemmanco da camionista o da garagista, era curiosa, non aveva una macchia... e quindi la gente mi guardava un po’ così.
Allora io andavo a pigliare il cappuccino, che poi era il pasto serale, da quello che oggi si chiama Canova, e invece a quei tempi non si chiamava Canova, si chiamava Luxor, dove c’era una cassiera meravigliosa, centenaria: io credo che alla sera le mettevano una cosa addosso, e l’indomani era uguale al giorno precedente, cioè identica! Uno si pettina in un modo diverso, invece no, sempre uguale! Allora le macchine da scrivere avevano una sorta di coperta, credo che le mettevano una cosa di queste.
Ed era un centro di riunione di intellettuali, pittori, poeti, Antonello Trombadori ecc. E c’era un signore solitario, seduto sempre così al tavolino in questa posizione nella quale sono io (appoggia la testa sulla mano, n.d.r.) che mi vedeva entrare e non staccava mai più gli occhi da me.
Una sera io stavo bevendo il mio cappuccino, si alzò venne da me e disse: “Mi perdoni, ma questa cosa che ha addosso cos’è?”. E io dissi “È la tuta dell’Accademia Nazionale di Arte Drammatica”. “E che è l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica?” e gli spiegai cos’era.
“Ah perché la regìa si insegna?”. “Sì, si insegna”. “Ti vuoi veni’ a sede’ al mio tavolo?”. E io mi andai a sedere. “E tu chi sei?”, dissi. “Io so’ un pittore“ dice lui . “E come ti chiami?”. “Mario Mafai.”
Per poco non mi venne un collasso, giuro, perché era uno dei grandi pittori che amavo veramente: le Demolizioni, le cose sue, i suoi grandi quadri... Diventai amico di Mario Mafai, amico notturno.
Quindi, certe sere “’namo a fa ’na passeggiata” e andavamo in giro, e lui parlava di Roma. Quindi ho avuto una guida che si chiamava Mario Mafai, che mi spiegava i colori cangianti di Roma. Guardate, indimenticabile per me Mafai. Mi fece conoscere... Una volta era il tramonto: “Valla a pittà mi disse quella cupola.” “Perché Mario?” - “Eh perché...”. Ecco, mi spiegò come cambiava, bastava spostarsi un poco e i colori cambiavano.
Perché allora tu, a Roma, e torniamo al discorso iniziale, questi incontri, li facevi. Non c’era nessun problema a incontrare un grande pittore, o Cardarelli, che scendeva col cappotto in pieno luglio... Cappotto, ghette, guanti e sciarpa e cappello. Una volta vidi impazzire un camionista allora potevano passare per il Corso i camion che scese in mutande e si buttò per terra a vedere Cardarelli che attraversava Piazza del Popolo in pieno luglio vestito come per andare al polo nord, un attacco isterico gli venne, poveraccio... Ed era aperta a qualsiasi incontro Roma, tu potevi incontrare chiunque.

Sellerio (Il Messaggero, 4/8/2010)
In apparenza è lo stesso che dire Mondadori: è una casa editrice. Ma non è vero. È come per piazza Tienanmen: io mi rifiuto di leggere “il giovane che ha fermato il carrarmato”. E tu vedi la fotografia del giovane e il carrarmato che si ferma. Il carrarmato non si ferma. C’è un soldato che ferma il carrarmato, che noi non vediamo perché è dentro il carrarmato. Un soldato in divisa che trasgredisce a un ordine, e ha lo stesso coraggio, se non di più, del giovane davanti al carrarmato. Esistono gli uomini, le persone che fanno una certa cosa. Per me non esiste la casa Mondadori. Esistono Renata Colorni e Antonio Franchini, funzionari della casa editrice, che sono anche amici miei. Peggio mi sento con la casa editrice Sellerio. Nel senso che mi sento meglio.
La casa editrice Sellerio non è la Mondadori. È una piccola, si fa per dire piccola, casa editrice palermitana a conduzione familiare... Ora, il problema è che se tu metti piede in casa editrice Sellerio, automaticamente diventi amico delle persone che sono là dentro. Automaticamente entri in una famiglia. Non entri in un’anonima casa editrice.
Mi ci portò Leonardo Sciascia per farmi pubblicare il libro La strage dimenticata. Immediatamente con la signora Sellerio è stato come se ci fossimo conosciuti dall’infanzia.
Ho visto crescere Antonio, che ora è il numero uno della casa editrice. Proprio l’altro giorno con mia moglie ricordavamo quando lo vedemmo, diciottenne, dentro il magazzino. Che dice: “Vado a Milano a studiare”. Cosa Antò? “Professò, vado a studiare economia”. Ma perché, pensò mia moglie, meravigliandosi che uno, figlio di editori, andava a studiare economia. “Signora, vi dissi che questi due (indicando il padre e la madre) non ne capiscono niente. C’è bisogno di qualcuno che ne capisca...”. Ce ne fossero come la Sellerio di case editrici, in Italia.
La Sellerio per me ha significato molto. Non solo dal punto di vista della pubblicazione. È stato come uno stimolo. Sapere che era pronta a pubblicarti, dopo che per dieci anni, dieci, nessun editore italiano aveva voluto pubblicarmi, beh, questo diventava uno stimolo, una sicurezza... Io sapevo che c’erano a Palermo delle persone disposte a pigliare il mio messaggio, tirarlo fuori dalla bottiglia, stamparlo in 10 mila copie e farlo conoscere. Era una sicurezza e un senso di incoraggiamento straordinario.

Zabaione (l'Unità, 30/7/2010)
Anzitutto io da bambino non lo chiamavo uovo sbattuto, ma lo chiamavo «ovo duci duci», e mi piaceva da matto. Prima di tutto bisogna farselo da sé, non farselo servire. Se te lo fai da solo vedi via via il rosso montare che cambia colore e diventa sempre più bianco e sempre più fluido – non liquido – e questa è una goduria alla sola idea.
Non mi piaceva mescolarlo nel caffè, sì, è ottimo lo so, ma non è puro. Il cucchiaino dritto era il segno che l’«ovo duci duci» era pronto. Dopodiché riempivi il cucchiaio ma non lo mangiavi in una sola botta, era uno sbaglio, lo mangiavi poco alla volta e poi alla fine la leccata e lo rinfilavi dentro. Questa è una delle delizie dell’infanzia che ricordo.
Naturalmente poi per i siciliani ha tutto un altro senso.
Vitaliano Brancati, Don Giovanni in Sicilia: «Cavaliere mio se mi mangio due uova sbattuti fuoco e fiamme fazzu», ecco, il gallismo siculo con lo zabaione si accorda benissimo.
Su questa memoria dell’«ovo duci duci» ho scritto anche un racconto, perché va a finire che con la vecchiaia si ha la cosiddetta «presbiopia della memoria» e quindi le cose dell’infanzia ti ritornano presenti con un’intensità che è dovuta al passaggio del tempo, alla prospettiva del tempo: più lontane sono e più ti precipitano addosso e riesci anche a percepirne le sensazioni, cosa che credevo impossibile. Perché con l’età hai un certo ottundimento di alcune sensazioni. Invece, i ricordi dell’infanzia davvero ti ritornano con un nitore, una forza, una precisione incredibile.
Non sono ricordi malinconici, mi diventano divertenti quando mi tornano e sono sempre estremamente piacevoli, perché hanno un’intensità tale che la malinconia non s’insinua. D’altra parte nessuno ti vieta di riprodurre la sensazione – anche se il mio medico se ne risentirebbe come di un’offesa personale se mi sbattessi due tuorli d’uovo con lo zucchero, forse rischi la morte, anche se non è vero perché rischi l’aumento di qualche analisi, ma poi stai due anni senza e ti passa. Si può riprodurre la sensazione in laboratorio, come ogni bravo esperimento scientifico.
Non c’è malinconia. Malinconia non è «Malinconia, ninfa gentile, la vita mia consacro a te», figuriamoci! La malinconia è una camurrìa che non finisce mai, la malinconia è uno stato d’animo da malattia, infatti la «melancolia» era una malattia.


Eugenio Cappuccio presenta la sua video-intervista presso l'Auditorium Parco della Musica di Roma (10 giugno 2010)


















 



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