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L'Accademia è maggiorenne



Quando Silvio d'Amico fondò, nel 1935, l'Accademia nazionale d’arte drammatica, la tradizione gloriosissima dei «figli d'arte» andava lentamente scomparendo e le scuole di recitazione allora esistenti, private o governative, non erano certamente in grado di preparare le nuove generazioni di attori secondo una concezione moderna nei sistemi e negli intendimenti. D'Amico, fin dagli inizi della sua attività di uomo di teatro, si era preoccupato, con scritti e conferenze, di denunciare questo stato di cose, indicando proprio nella mancanza di un tipo nuovo di attore una delle cause della situazione non felice della nostra scena rispetto a quelle delle altre nazioni: d'Amico auspicava attori professionalmente preparati, colti, educati non al mattatorismo ma alla disciplina dell'insieme, consci della dignità del loro essere attori, informati sulle esperienze straniere. La realizzazione di queste idee D'Amico la conseguì appunto con la creazione dell'Accademia, che trovò sede in una villetta di piazza Croce Rossa, troppo piccola, adesso, per il crescente numero di allievi. Ora, a 21 anni di distanza dalla sua fondazione, si può serenamente affermare che almeno la metà degli attori e dei registi che hanno dato fama internazionale al nostro teatro, sono passati da quelle aule, hanno indossato la tuta marrone di lavoro. Secondo un ordinamento rimasto praticamente immutato, d'Amico volle che all’Accademia si accedesse con un rigido esame, che ai migliori allievi fossero concesse borse di studio rinnovabili di trimestre in trimestre, che i corsi, triennali, fossero due: uno riservato agli attori, l'altro ai registi, facendo obbligo a questi ultimi di seguire anche i corsi di recitazione. Alla cattedra di regia d’Amico chiamò Tatiana Pavlova, mentre i primi insegnanti di recitazione furono Irma Gramatica, Gualtiero Tumiati e Luigi Almirante: segno che d'Amico faceva opera di ammodernamento sì, ma richiamandosi alle migliori tradizioni dell'arte drammatica italiana.

 
Da questo criterio iniziale l'Accademia non si è mai scostata; basta scorrere i nomi degli insegnanti di recitazione che si sono succeduti, oltre ai citati, dal 1935 ad oggi: Carlo Tamberlani, Nera Carini, Rossana Masi, e, ancora in carica, Wanda Capodaglio, Sergio Tofano, Jone Morino; per la dizione del verso, l'indimenticabile Maestro Mario Pelosini tenne la cattedra dal 1936 al 1950 e, alla sua morte, il suo posto fu occupato da Vittorio Gassman, ex allievo, quindi da Annibale Ninchi e, a partire da quest'anno, da Carlo D'Angelo.
Alla cattedra di regìa, tenuta dalla Pavlova fino al 1938, andò dal 1938 al 1944 Guido Salvini, salvo il breve periodo in cui insegnò l'ex allieva Wanda Fabro, immaturamente scomparsa. Dal 1944 a tutt'oggi a tale cattedra si trova Orazio Costa, anche lui ex allievo. Per il trucco fu chiamato Gino Viotti, e dopo di lui altri insegnanti sono stati Francesco Sala, Nerio Bernardi, Hilda Petri; per la danza Raja Garosci, per la scherma Valentino Ammannato, per il canto corale prima Maria Labia e poi Cecilia Rocca; per l'educazione della voce Isabella De Grandis Mannucci; per la dizione l'ex allieva Alba Maria Setaccioli; per la storia della musica Guido Pannain. La cattedra di storia del teatro fu occupata da Silvio d'Amico per dieci anni, e dalle sue lezioni ebbe origine la sua vasta Storia del teatro Drammatico in quattro volumi. Poi la cattedra fu affidata a Luigi Ronga, cui sono succeduti Achille Fiocco prima e Niccolò Gallo dopo.
I frutti di un così qualificato corpo di insegnanti, le cui lezioni erano unitariamente coordinate dall'indirizzo impresso da d'Amico, si cominciarono a constatare già dall'estate del 1937 quando, nel centenario di Giotto, la Accademia mise in scena all'aperto un Mistero della Natività, Passione e Resurrezione di Nostro Signore, ricomposto da D'Amico su laudi del XIII e XIV secolo, con regia della Pavlova e scene di Virgilio Marchi, insegnante di scenotecnica e storia del costume. Fu un successo memorabile, che doveva rinnovarsi nel 1938-39, allorchè l'Accademia fece un giro artistico a Roma, Milano, Ginevra e Lugano con Re Cervo di Gozzi messo in scena da Sandro Brissoni, Urfaust di Goethe da Wanda Fabro, La Pesca di O'Neill da Riccardo Aragno (poi passato brillantemente al giornalismo) e Questa sera si recita a soggetto di Pirandello da Ettore Giannini. Le impressioni che questi spettacoli suscitarono possono essere sintetizzate in una frase del critico del Journal de Genève: «Se Copeau si fosse trovato ieri alla Comédie, credo che avrebbe pianto di gioia». Ma la consacrazione unanime si ebbe nel 1940, quando d'Amico formò e diresse quella «Compagnia della Accademia» che fu un altissimo esempio di stile e di intelligenza.


Diamo un'occhiata ai registri:Antonio Battistella, Alberto Bonucci,Tino Buazzelli, Manlio Busoni, Vittorio Caprioli, Leonardo Cortese, Antonio Crast, Giorgio De Lullo, Gabriele Ferzetti, Vittorio Gassman, Renzo Giovampietro, Nino Manfredi, Glauco Mauri, Marcello Moretti, Paolo Panelli, Antonio Pierfederici, Gianni Santuccio, Giancarlo Sbragia, Mario Scaccia, Gianrico Tedeschi, Aroldo Tieri... Apriamone un altro: Edda Albertini, Edmonda Aldini, Stella Aliquò, Marina Bonfigli, Flora Carabella, Miranda Campa, Giusi Dandolo, Elena Da Venezia, Rossella Falk, Giovanna Galletti, Fulvia Mammi, Anna Miserocchi, Ave Ninchi, Lea Padovani, Bice Valori... Un altro ancora: Flaminio Bollini, Alessandro Brissoni. Adolfo Celi, Orazio Costa, Mario Ferrero, Claudio Fino, Ettore Giannini, Mario Landi, Luciano Mondolfo, Vito Pandolfi, Luciano Salce, Eugenio Salussolia, Ottavio Spadaro, Luigi Squarzina, Pietro Masserano Taricco... L’elenco potrebbe continuare, ma rischierebbe di diventare una copia di un annuario teatrale. Abbiamo scelto solo nomi notissimi al gran pubblico del teatro, del cinema, della radio, della televisione. Ce ne sarebbero altri da aggiungere, di giovani o meno giovani, i quali si affermano ogni giorno di più. Basterebbe solo questo elenco a dimostrare l’attivo dell'Accademia, ma in verità l’importanza dell'Accademia trascende l'opera svolta singolarmente da ognuno dei suoi ex allievi nell'ambito del teatro. Il merito dell'Accademia consiste anche, e forse soprattutto, nelle nuove energie che ha saputo, direttamente o indirettamente, suscitare, nelle iniziative che ha promosso, in alcuni esemplari spettacoli impensabili senza l'apporto dei suoi attori e dei suoi registi (il mirabile Poverello di Jaques Copeau messo in scena da Orazio Costa a San Miniato ne fu un lampante esempio), nel rinnovamento che ha portato sulle scene, fatto di dignità, rigore, intelligenza e cultura, nell'aver favorito l'avvento di nuovi autori, di nuovi organismi teatrali. Tanto per fare un esempio, i Piccoli Teatri non avrebbero potuto sorgere e prosperare senza il fertile terreno preparato dall'Accademia.


Il sempre maggiore interesse che l'Accademia suscita presso i giovani aspiranti attori di tutte le parti d'Italia, è meglio dimostrabile con le cifre che con le parole. Dal 1935 al 1945 si iscrissero, complessivamente, all'Accademia 79 registi e 422 attori. Dal 1945 al 1956 gli allievi ammessi sono stati 312, i diplomati 109. Bisogna però tener conto che non tutti gli allievi si diplomano, alcuni preferiscono entrare in arte prima del termine dei corsi. Di contro, le domande di ammissione sono state, dal 1945 al 1956, ben 1053, toccando la punta massima nel 1953-54 con 166 domande, delle quali solo 35 accolte. Dal dopoguerra, la punta massima di attori diplomati si è avuta nel 1955-56: 18. Anche questa cifra è significativa, dimostrando come soltanto gli allievi più selezionati raggiungono il traguardo finale; la maggior parte preferisce abbandonare dopo aver saggiato la severità, il rigore degli studi. I quali, come si è detto, si dividono in due corsi. Per gli attori, dalla educazione della voce, dagli esercizi di mimica e di dizione, si arriva gradatamente alla recitazione di piccole scene, improvvisate su tema obbligato, e quindi alla vera e propria interpretazione di autori moderni e classici. Nei saggi pubblici di recitazione, che ordinariamente si svolgono nello «Studio Eleonora Duse» di Via Vittoria gli attori, con scenografie sommarie, ma perfettamente truccati e abbigliati, rappresentano, con la guida dei loro maestri, brevi scene da commedie. Per gli allievi registi, il cui corso triennale comprende anche l'insegnamento particolare della storia del teatro, della storia della musica, della scenotecnica e della storia del costume, le lezioni di regia sono teoriche e pratiche. Nei saggi di regia, l'allievo di secondo anno mette in scena lavori non superiori a un atto; l'esame di diploma comporta invece la regia di opere drammatiche in più atti, in un normale teatro, con l'impiego dei colleghi attori. Tutti i principali autori di ogni secolo o tendenza si può dire siano stati rappresentati nei 21 anni di vita dell'Accademia.
Già fin da ora fervono le prove all'Accademia, che di d'Amico adesso porta giustamente il nome e della quale Raul Radice fu nominato, poco prima della morte di d'Amico, Direttore e attualmente è commissario straordinario con poteri di Presidente, dei tre saggi di regìa che il pubblico e la critica romana saranno chiamati a giudicare fra qualche mese. Wilda Ciurlo, la prima allieva regista che si diplomi dal 1938, anno in cui Wanda Fabro diede il suo saggio finale, curerà la regìa di Nostra Dea di Bontempelli. I due gemelli veneziani di Goldoni e Turcaret di Lesage, saranno rispettivamente messi in scena da Giuseppe Borrelli e Mario Missiroli. Intanto gli allievi registi di secondo anno studiano già gli atti unici che dovranno presentare come saggi.
Abbiamo voluto chiedere alla allieva regista del primo anno, Giuliana Ruggerini, laureata in legge, che cosa pensasse dell'Accademia. Ci ha risposto: «Si sa che per l'esercizio di una professione non basta la preparazione teorica, e forse questo è il problema più grave che si pone attualmente in campo scolastico; d'altra parte all'università, per esempio, non si diventa oggi nè medici nè avvocati, tutt'al più si impara qualcosa di diritto e di medicina e l'addestramento pratico alla professione si fa dopo, fuori, a spese dei clienti. Ho visto invece nell'Accademia una scuola capace di contemperare gli insegnamenti teorici con gli insegnamenti e le prove pratiche. E, adesso che la frequento, mi piace considerarla, come un vero banco di prova, dove sia possibile anzitutto far esperimento delle proprie capacità ».
È intervenuto a questo punto Gian Carlo Dettori, allievo attore di terzo anno, che il pubblico milanese ha avuto modo di conoscere al «Convegno» di Enzo Ferrieri. Dettori si è voluto rifare a recenti polemiche sorte intorno all'Accademia, per controbattere alcune «osservazioni fatte all'indirizzo dell'Accademia, fra cui risalta l'appunto secondo il quale gli attori dell'Accademia e soprattutto i Maestri, che in essa insegnano, non ricercano negli allievi le due linee di interpretazione, che in genere un attore dovrebbe avere, e cioè: quella drammatica e di poesia e quella comica e brillante del teatro borghese. Io personalmente non ho mai cpito come si possa cadere in questo errore di valutazione nel giudizio. È evidente che spesso i giovani attori hanno una spontanea predilezione per il drammatico, e nel mio caso era proprio così: all'inizio dei miei studi credevo assolutamente di non riuscire nel comico. La prova che i nostri maestri indirizzano anche in quel senso sta nel fatto che io quest'anno reciterò come saggio di chiusura dei tre anni di corso, un testo comico, sempre si intende di un vero teatro di poesia: I due gemelli veneziani di Goldoni. È chiaro che questa non è che la conclusione di uno studio relativo, e non una improvvisazione accademica».
«Un'altra esperienza fondamentale in Accademia — ha aggiunto l'allievo Antonio Meschini, anche lui del terzo anno — è il rendersi conto dei rapporti che intercorrono fra attore e regista. Il nostro lavoro è sempre lavoro di collaborazione e di intesa, e quindi di avvicinamento alle idee altrui, e nel medesimo tempo, allenamento inteso nel senso moderno della parola».
«Uno dei meriti dell'Accademia, e non l'ultimo — ha tenuto a sottolineare Borrelli, che aveva appena terminato le prove di I due gemelli veneziani — è nella possibilità data a tutti gli allievi, in base al particolare ordinamento scolastico, di estrinsecare, di comunicare agli altri, fin dai primi giorni di studio, tutta la propria personalità in evoluzione (o no), cosicchè al corpo insegnanti, ma più precisamente a tutta la collettività Accademica, è reso possibile cogliere più o meno nel vivo il senso di evoluzione e di perfezionamento in atto in ognuno dei giovani allievi, così da individuarne il giusto, o più valido, senso artistico, o la sua possibilità, e indirizzarlo verso uno studio per una conclusione o definizione la più probabile. In definitiva l'allievo studia in una comunità, nel suo complesso tecnica, e ne subisce certamente l'influsso, senonchè, a conti fatti, l'Accademia pur restando nei propri schemi, nei propri metodi, ormai sperimentati a sufficienza, finisce con l'essere essa stessa influenzata, determinata, di volta in volta, dalle varie espressioni dei singoli e della comunità. Questo è, secondo me, un punto fondamentale nell'ordinamento di questa scuola d'Arte. E voglio precisare ancora che ciò che io ho creduto di notare non avviene solo in virtù di un metodo — sebbene questo esista ed è la cosa fondamentale — bensì la mia è una impressione conclusiva basata sull'esperienza diretta. Avendo ora vissuto personalmente questa esperienza, mi sarebbe difficile specificare meglio come tutto ciò avvenga, come possa stabilirsi questo «senso d'arte» e di responsabilità».
Questa «moderna scuola nazionale di arte scenica», quel «centro che fosse di preparazione insieme tecnica e culturale» (sono parole di d'Amico), trova, nelle parole dei suoi allievi attuali, la ragione della sua necessità, l'affermazione della sua indiscutibile validità.
Andrea Camilleri

Articolo pubblicato su Sipario, N.129, Gennaio 1957





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