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Ahi serva Italia

Un appello ai miei concittadini



Autore Paolo Sylos Labini (a cura di Roberto Petrini)
Prezzo E 10,00
Pagine XXIV+165
Data di pubblicazione 2006
Editore Laterza
Collana Saggi tascabili


"Il discorso è angoscioso, ma mi sembra giusto farlo, dal momento che sulla questione ho riflettuto molto e riguarda noi tutti. Perché siamo caduti così in basso? Non per orgoglio né per presunzione, ma per 'disperazione sociale' mi rivolgo ai miei concittadini per esortarli a fare uno spietato esame critico della coscienza civile evitando ogni formula consolatoria. E la premessa per uscire dall'abisso."
Un uomo e un intellettuale che è stato grande protagonista del dibattito pubblico passa a tutti gli Italiani il suo testimone, in pagine memorabili e di raro impegno.
Paolo Sylos Labini, uno dei maggiori intellettuali italiani, è considerato economista di fama mondiale.

 

In memoriam
Presentazione di Andrea Camilleri
Casa Editrice Laterza, Roma, 9 marzo 2006

(Il testo che segue è stato pubblicato su La primavera di MicroMega, n.6, 6/4/2006)

Scusatemi se leggo, ma temo che parlando a braccio l’età e l’emozione possano tradirmi. Una piccola premessa. Quando l’editore Laterza mi ha mandato quest’ultimo libro di Paolo, ho provato una commozione grandissima nel leggere, nel capitoletto intitolato Ringraziamenti, anche il mio nome. In genere i ringraziamenti a fine volume sono riservati a chi quel volume ha aiutato a nascere, ai collaboratori, all’editor, alla stessa casa editrice. Qui no, qui Paolo ringrazia le persone che con il loro esempio, scrive, gli hanno dato speranza. Detto en passant, quei nomi mi parvero subito una gran bella lista di proscrizione. Dunque, gli altri compresi in quell’elenco e io gli abbiamo dato speranza. Ma speranza in che cosa? L’elenco dei nomi, 57 in tutto, comprende economisti, magistrati, giuristi, giornalisti, comici, filosofi, politici, scrittori. Certamente, come comune denominatore, queste persone non hanno la stessa idea politica: balza subito agli occhi che ci sono liberali e comunisti, socialisti e senza partito. Allora? La chiave è data da una frase di Paolo che precede la lista: si tratta, dice, di persone “che vivono e non si lasciano vivere”. E allora è chiaro che tutte queste persone sono contrassegnate, agli occhi di Paolo, da una comune volontà di resistenza: non vogliono perdere l’autostima e non vogliono perdere la loro dignità. Ma se le cose stanno veramente così, allora sono le 57 persone in elenco a dover ringraziare Paolo per essere stato lui, in ogni momento della sua vita, l’esempio che ci ha dato speranza.

Sono un narratore e il mio scarso sapere è circoscritto alla letteratura. Ma da sempre mi sono interessato ai fatti sociali, economici e politici perché ritengo che uno scrittore, sia pure come semplice cittadino con diritto di voto, abbia il dovere di conoscere il mondo nel quale sta vivendo prima ancora di narrarlo. Ho conosciuto le idee di Paolo non dai suoi libri d’economia che non ho mai letto non sentendomi nelle condizioni di farlo, ma dai suoi articoli che erano sempre chiari e comprensibili anche da parte di uno poco propenso alla materia come me. Ricordo ancora che la doverosa lettura giovanile di un compendio del Capitale mi procurò violente emicranie. Paolo si proclamava un liberalsocialista, o un socialista liberale se volete, e quindi era lontano dalle mie idee, eppure lo leggevo perché sentivo attraverso le sue parole qualcosa che profondamente mi convinceva del suo pensiero e cioè “l’aspetto civile dell’economia, in particolare quello dello sviluppo e dello sradicamento della miseria”, come scrive Roberto Petrini, il curatore di questo libro, nella prefazione.

E forse quest’acutissima attenzione verso la miseria c’era già nel suo Dna, perché la sua nonna materna era sorella di Giustino Fortunato.

Lo conobbi di persona nel 2000. Mi aveva invitato a cena a casa sua Sergio Garavini e poco dopo arrivò Paolo. Per me, fu una specie d’amore a prima vista. Aveva anagraficamente cinque anni più di me, in effetti m’apparve più giovane di me di una diecina d’anni. Era arguto, pronto, polemico, costruttivamente ironico, spiritoso, brillante, ma bastava poco per scoprire l’ossatura vera dell’uomo, fatta soprattutto di un rigore morale intransigente e di una sincerità spietata. Che Gaetano Salvemini fosse stato il suo maestro e che Ernesto Rossi fosse stato suo fraterno amico io quella sera non lo sapevo, ma credetemi che intuii che apparteneva non per elezione ma per diritto a quella razza. Inaspettatamente, l’anno dopo mi telefonò sbrigativamente, dandomi del tu (non ci eravamo più parlati né visti da quella sera) per dirmi di firmare l’appello di Bobbio e Galante Garrone che mi avrebbe inviato per fax. Lo firmai, grato per l’onore. Ci siamo incontrati un’altra volta a cena da Paolo Flores d’Arcais, ho presentato il suo libro sugli anticorpi (per dire il titolo esatto dovrei anche pronunziare un nome che non mi sento in questo momento di fare), ci siamo incontrati in qualche altra occasione, ci siamo telefonati una diecina di volte, l’ultima volta mi ha chiamato dalla clinica dove sarebbe deceduto qualche giorno appresso. Tutto qui. Ora questi che lui chiama “rapporti non fugaci” a me sembrano fugacissimi e purtroppo irrecuperabili. Avrei voluto stare di più con lui, imparare di più da lui. Voglio dire un’ultima cosa sull’uomo Paolo. Del suo estro quasi fanciullesco e del divertimento reciproco che provavamo quando stavamo insieme. Lui, da un certo momento in poi, prese a chiamarmi “killer di m…”. Era capitato che un attuale ministro siciliano, in un suo comizio, aveva affermato letteralmente che io ero un assassino della casa delle libertà. Ma visto e considerato che nessuno della casa delle libertà era morto assassinato da me, Paolo era arrivato alla conclusione che come killer non valessi niente. Un’altra volta, alla presentazione del libro di John Dickie su “Cosa nostra”, un giornalista del TG1 ci mise davanti una telecamera perché dicessimo qualcosa. Paolo si mise a ridere. “Ma perché volete sprecare il vostro tempo? Qualunque cosa diciamo, sarete costretti a censurarla!” Il giornalista insistette. Allora Paolo mi prese sottobraccio, disse “ecco l’unica cosa che possiamo fare per voi” e accennò al motivo e a due passi del can-can. E così due ottantenni si misero a ballare il can-can davanti a una telecamera.

Ho detto all’inizio che temevo l’emozione. L’emozione di parlare di un libro che, via via che viene composto, si trasforma, come dichiara l’autore, dall’iniziale invettiva in un appello accorato. Aveva in mente di scrivere un pamphlet che potesse racchiudersi nell’incipit dell’invettiva dantesca, “Ahi serva Italia”, ma il seguito del verso rapidamente lo ha sopraffatto facendolo virare verso la considerazione di quell’ostello di dolore che è diventato il paese nostro. Questo libro, nel suo andamento interno, rispecchia esattamente il carattere di Paolo. L’arrabbiatura che rapidamente cede prima al tentativo di capire e poi si apre a una calda e patita esortazione. Ma tra la composizione tipografica del libro e la sua pubblicazione, la morte di Paolo ha di colpo trasformato quelle pagine in un documento di valore altissimo, in un vero e proprio testamento spirituale. Ecco la ragione della mia emozione.

Elio Vittorini avrebbe detto che Paolo soffriva per i dolori del mondo offeso, ma non avrebbe mai potuto dire che cadeva in astratti furori. I furori di Paolo erano ben concreti, avevano persino nome e cognome. Ma in cosa consisteva la sofferenza di Paolo soprattutto negli ultimi tempi? Da cosa vedeva offesa l’Italia? Le risposte sono tutte in questo libro. L’offesa primaria, quella dalla quale ne discendono altre, è la separazione della politica dalla morale. In principio fu Machiavelli, scrive Paolo, e appresso gli andò Marx. Anche se mai la scrisse esplicitamente, la famosa frase “il fine giustifica i mezzi” riassume assai bene il pensiero di Machiavelli. Ed è divertente vedere l’elenco che Paolo fa di alcuni prefatori del Principe.

Comunque sia, Machiavelli non specifica la qualità del fine, direi l’assolutezza di un fine che possa giustificare qualsiasi mezzo per la sua realizzazione. In mancanza di questa specifica, tutti i fini sono da intendere buoni? Se il fine supremo di Hitler era la purezza della razza ariana, lo sterminio degli ebrei può esserne giustificato? Chi stabilisce la bontà, la validità del fine? Colui che vuole raggiungerlo? E comunque ricordiamoci sempre che Montaigne diceva che i cattivi mezzi adoperati per un buon fine inquinano il fine stesso, l’adoperare i cattivi mezzi è segno della fragilità della coscienza umana.

Quell’iniziale separazione tra politica e morale dunque si è andata via via allargando fino a diventare talmente grande che non è più possibile vedere le opposte sponde. E si è arrivati a questi miserabili giorni nostri dove il problema si è a un tempo complicato e semplificato, vale a dire che non si tratta più del rapporto tra politica e morale, ma del rapporto tra politica e codice penale. E quando si arriva a questo punto nasce la paura della possibilità del non ritorno. D’altra parte, c’era d’aspettarselo. Perché in Italia non è andata al potere una destra veramente liberale, alla quale io personalmente avrei fatto tanto di cappello in nome dell’alternanza democratica, ma, come ha scritto Franco Cordero, è andato al potere il governo della filibusta. La filibusta, come ognun sa, è al di fuori della legge. E quando arriva al potere non può che legiferare secondo gli interessi della filibusta. Dalle mie parti c’è un detto, “’u pisci feti di la testa”, il pesce comincia a putrefarsi dalla testa. E quindi, quando alla testa c’è la corruzione, il malaffare, tutto il corpo del pesce viene rapidamente infettato. Come abbiamo fatto a cadere così in basso? - si chiede Paolo.

Non c’è dubbio che la filibusta è stata eletta a larga maggioranza. Quindi quella maggioranza di elettori che l’ha votata appartiene idealmente alla filibusta? La domanda merita, a mio avviso, una risposta alla Paolo Sylos-Labini. Io credo che gran parte di quelli che hanno votato questa maggioranza siano pericolosamente inclini, o per ignoranza o per partito preso, alla piccola e quotidiana illegalità. Oggi impera la legge del motorino: il motorino che passa col rosso, che sorpassa quando non dovrebbe, che sale sui marciapiedi, che corre contromano sotto gli occhi indifferenti degli addetti al traffico. La legge del motorino è una metafora di ciò che vorrebbero gran parte degli italiani. L’altra parte ha votato la filibusta perché non sapendo dove andare dopo Mani Pulite ha scelto quello che è stato abilmente spacciato come il nuovo. Un’altra parte ancora  perché subornata dall’assillante, frastornante tam tam mediatico. Quindi il compito di chi governerà dopo l’anomalia è assai duro, oltre a riparare al danno economico, bisognerà ricucire lo squarcio prodotto nel concetto di legalità e cominciare a colmare l’abisso che separa la morale dalla politica.

E Paolo esorta, addirittura implora chi dovrà assumersi quest’immane compito ad abbandonare il cinismo politico, che non potrà essere altro che fonte di nuovi e rinnovati mali. Acutamente Paolo nota che Machiavelli non aveva nessuna fiducia nell’uomo. Lui invece ce l’aveva. E profonda. Da parte nostra, l’unico modo che abbiamo per tener fede alla sua laica fede, per onorarlo, è quello di continuare a dargli speranza.


Last modified Wednesday, July, 13, 2011