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Arte di resistenza



Cos’è l’arte e cosa spinge un artista a creare? Nella sua accezione più elementare si può dire che l’arte è un mezzo di espressione e di comunicazione connaturato all’essere umano. Già l’uomo primitivo disegnava, scolpendole sulla roccia, figure di bufali per indicare che nelle vicinanze si trovavano mandrie da cacciare. La cosa interessante è che disegnava in forma stilizzata, realizzando una figura che non fosse solo un “affare con quattro piedi” bensì una forma riconoscibile, “il bufalo”, distinguibile da un cavallo o da un altro quadrupede. In quella forma c’era già il principio di un concetto artistico, la stilizzazione, una stilizzazione operata senza che si perdesse però il contatto con la realtà.
Già questa era una primitiva forma d’arte. L’artista cerca, da sempre, di oggettivare una sua esperienza, una sua urgenza di comunicare. Così, attorno a questo suo messaggio, ha una larga possibilità di consenso, nel significato etimologico del termine di “senso con lui”. Anche l’arte più raffinata ha sempre in sé qualcosa che colpisce. Basta pensare alla Maestà di Duccio, così ferma e conclusa nella sua perfezione, e a ciò che accadde nel momento in cui il dipinto uscì fuori dalla bottega del pittore e attraversò le strade per arrivare al Duomo di Siena.
Una descrizione straordinaria, che ho avuto la fortuna di leggere in una cronaca dell’epoca, parla di una processione di persone, di una folla intorno che piangeva e si commuoveva e addirittura di interi balconi abbattuti per far passare l’opera. In tutto questo può essere individuato il momento assoluto dell’arte, quando la comunicazione raggiunge in pieno la moltitudine di genti. Sempre in Italia accadde una cosa simile quando furono tirati su dal mare i bronzi di Riace. Davanti alla galleria che li ospitava, per giorni e giorni si osservava una fila interminabile di gente che pazientemente attendeva, in coda, di ammirarli. È un episodio che ci fa comprendere il significato profondo della validità universale dell’arte.
Una storia assolutamente autentica esprime al meglio questo concetto. Un caro amico, grande fotografo di arte, Pasquale De Antonis, fu incaricato dal primo ministro indonesiano di realizzare un repertorio fotografico di tutte le opere d’arte presenti in Indonesia. Si trattava di un lavoro lungo anni. Poco prima del suo compimento, lo informarono dell’esistenza di un artista naïf che viveva in solitudine. Era l’unico abitante di un’isola della quale aveva dipinto le piante e le pietre, come fece Antonioni per un suo film, fabbricando da sé i colori e i pennelli. Informarono il fotografo che bisognava documentare anche questo.
Fu così che con un idrovolante il mio amico si recò sull’isola chiedendo al pilota di fargli da interprete, visto che il pittore parlava soltanto il dialetto del posto. L’artista disse che avrebbe ceduto la sua capanna a Pasquale per dormire e questi, entrando, vide accanto al letto, la riproduzione della Gioconda ritagliata da una rivista. Il pittore, in realtà, non sapeva assolutamente che cosa fosse e chi l’avesse dipinta. Sapeva soltanto che era bellissima e che doveva tenerla sempre sotto gli occhi. L’arte è forse qualcosa che non sappiamo definire ma risulta innegabilmente empatica e meravigliosa.
Un artista non è mai figlio di un solo padre. Ne ha uno naturale che l’ha fatto nascere. E poi altri dieci, quindici padri che lui si è scelto. Sono i maestri, coloro che ci formeranno nella nostra educazione artistica. La bellezza di questi maestri è che non devono necessariamente avere il nostro stesso sangue, parlare la nostra lingua o essere nostri contemporanei. Possono essere vissuti svariati anni prima eppure li riconosciamo immediatamente come “padri” perché il linguaggio dell’arte è universale, non ha frontiere. L’arte negra sconvolse così tanto Picasso da far nascere il cubismo: dov’erano allora i confini? Per un artista è molto importante nutrirsi dell’interscambio, della conoscenza di quello che fanno gli artisti nelle diverse parti del mondo.
Oggi ci sono riviste e media che si occupano di arte, che ci informano e ci tengono aggiornati; ma quando questi strumenti mancano cosa accade? Durante il fascismo noi non sapevamo assolutamente nulla delle esperienze che si vivevano in Francia o negli altri paesi; eravamo diventati filonazisti e quell’arte era definita degenerata. I nostri pittori erano bravi a contrabbandare la buona pittura ma non avevano una conoscenza diretta dell’arte fuori dell’Italia. L’artista è come un albero che, se non riceve continuamente linfa vitale da tutte le parti, finisce col rinsecchirsi, morire o mettere poche foglie stente. L’artista necessita sempre della conoscenza del lavoro degli altri.
L’arte a Gaza
A Gaza esiste un’incredibile, inimmaginabile e fervente attività artistica di cui quasi nessuno sa niente. I mezzi d’informazione non ne parlano, preferendo dare notizie di morti e distruzioni invece di segnalare le molteplici manifestazioni di chi lotta pacificamente ed esistenzialmente in nome dei valori dell’arte. Cosa spinge gli uomini che abitano questa terra disgraziata alla necessità assoluta di esprimersi attraverso l’arte? Credo che l’arte sia, per queste persone, un grido estremo di speranza e di voglia di esprimersi, di conoscersi, di stringersi in un abbraccio che nasce da una società assediata incapace di intravedere soluzioni politiche a breve o medio termine.
Mi sono subito appassionato agli artisti che operano in questa massacrata terra, dove avviene una vera e propria sperimentazione in corpore vili, non solo di armi sempre più perfezionate bensì di qualcosa di assai più tremendo: il tentativo di distruzione dell’uomo attraverso la distruzione del suo sistema psicologico, del suo sistema nervoso, che gli sottrae progressivamente la certezza non solo della sua esistenza ma anche di quella degli affetti a lui più cari. Questa sperimentazione in atto a Gaza non è nient’altro che la possibilità della mutazione psicologica dell’individuo che subisce tale perversione. Incontrando gli artisti di Gaza ho compreso che per loro fare arte è una necessità, un’urgenza e soprattutto una concreta forma di sopravvivenza e di reazione. L’unica contro-guerra che queste persone sono in grado di esercitare in quelle condizioni con armi volutamente ed esclusivamente pacifiche.
Sostenerle, allora, significa partecipare a una guerra, la loro guerra quotidiana, fatta in nome dell’arte, con l’arte e attraverso i mezzi dell’arte. Quello che mi ha colpito di molti di questi artisti rispetto a quelli europei è il fatto che abbiano sempre un occhio attento all’educazione del loro avvenire, che non è più tanto, e non solo, il loro ma è l’avvenire dei figli e il loro orgoglio. È incredibile e meraviglioso constatare quanti si dedichino all’educazione artistica dei bambini, dei meno fortunati, dei menomati o malridotti di guerra, riconquistandoli attraverso l’arte per creare un futuro e far sì che essi diventino gli uomini di domani. Quest’arte, quindi, non solo combatte con le sue armi ma si preoccupa, con estrema intelligenza, anche del futuro.
Assume oggi, forse, il ruolo più sociale che si possa assegnarle. Se riuscissimo a fare uscire questi artisti da Gaza per qualche tempo, per farli conoscere in Italia e per mostrargli il lavoro degli artisti italiani sarebbe un enorme arricchimento reciproco. Perché nell’arte si prende e si dà, anche sapendo di non dare. L’arte può essere espressione di sé, bella e pacifica ma in certi momenti può anche acquisire un valore aggiunto. Per gli artisti di Gaza è, oltre che una necessità, un dovere sociale. Un modo per dire che, malgrado la cenere sparsa sulla città, nelle sue viscere continua ad ardere un immenso fuoco. Occorre mantenere viva la fiamma dell’espressione migliore di un popolo, e in questo senso parlo di “resistenza”, che non deve essere per forza armata o passiva. Non sempre chi fa lotta politica, magari violenta, riesce a comprendere quanto sia valida e forse più utile la resistenza attraverso l’arte, che è un continuo work in progress.
Si tratta di un contributo importante, anche se delegittimato o misconosciuto in patria. Non sempre chi detiene il potere ha piacere che i cittadini o i sudditi siano un passo più avanti di lui – o rischino di esserlo. I tagli che si operano a danno della cultura vengono fatti proprio per evitare che, per mezzo di essa, si acquisisca coscienza di sé, si abbia consapevolezza dei propri doveri ma anche dei propri diritti. Un popolo colto è un popolo pericoloso perché è una potente valanga rischiosa per i governi. Rappresenta la possibilità di mettere continuamente in funzione il cervello del popolo che, per evidente egoismo e comodità dispotica, è meglio tenere assopito, attraverso spettacoli leggeri, quiz, reality. Qualunque mezzo purché non si pensi. Perché il pensiero, la cultura, l’arte, contengono quella parte di verità che può essere rivoluzionaria e la parola “rivoluzione” non è mai piaciuta a chi detiene il potere.
Gli artisti e la guerra
Ho vissuto sotto una dittatura durante i miei primi diciotto anni. Sono stato in carcere soltanto per 48 ore e non è certo un’esperienza che abbia segnato la mia vita. Avevo diciotto anni appena compiuti e gli americani, per equivoco, mi mandarono al San Vito, il vecchio carcere di Agrigento. Quindi, anche se non posso dire per esperienza personale quello che accade in una simile condizione, l’artista che viene incarcerato non è sicuramente nella possibilità di esprimersi. I poeti, però, fanno eccezione. Abbiamo opere notevolissime scritte in carcere: le Poesie d’amore di Nazim Hikmet, La ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde o Diario di un ladro di Jean Genet. Per un artista che non sia poeta o scrittore la situazione appare invece molto diversa. Un pittore, uno scultore o un fotografo, in carcere viene privato dei mezzi per esprimersi anche se ha sempre la necessità e l’urgenza di farlo. Un pittore, uscito dal carcere, dipingerà molto probabilmente delle tele che in sé recano e comportano la memoria del carcere subìto.
L’arte, diceva Marx, è il risarcimento che viene dato all’uomo. Proprio come avviene quando si paga in moneta un danno provocato, l’arte risarcisce l’uomo del danno della vita. Credo che questo bellissimo concetto esprima in pieno il senso dell’arte. Nella storia, l’artista ha sempre avuto orrore della guerra e non ce n’è mai stato uno che, se doveva ritrarre fatti di guerra, abbia provato un minimo di compiacimento per ciò che faceva. Basta pensare a Il sonno della ragione genera mostri di Francisco Goya, a Guernica di Picasso, a Gott mit uns di Renato Guttuso. La guerra è uno stato innaturale dell’uomo, mentre l’arte è la più alta espressione del suo stato naturale. Esiste sempre una partecipazione umana dell’artista, alla denuncia di ciò che avviene. Di fronte alla guerra l’artista non può che denunciarne l’orrore, l’imbecillità, l’insensatezza.
È chiaro che nei regimi dittatoriali esiste una parte di non-arte che si spaccia per arte e che invece esalta le imprese belliche. Lo abbiamo vissuto con il fascismo, con il nazismo e con il comunismo. Una delle cose che più mi ha commosso, da parte di un artista, è il titolo che Capa volle dare alla sua raccolta di fotografie dello sbarco in Normandia. L’agenzia alla quale aveva mandato le foto le definì “belle ma leggermente fuori fuoco”. Quel leggermente fuori fuoco, che era innegabile, era l’emozione del fotografo davanti a ciò che vedeva, costituiva la sua umanità, parte integrante dell’opera d’arte. L’uomo che c’è in ogni artista prova sempre questa reazione di fronte alla morte violenta, alla guerra, all’orrore, alla tortura. Quando ci sembra che la cosiddetta oggettività dell’occhio fotografico sia freddamente obiettiva in realtà ci sbagliamo. Dietro l’occhio fotografico è sempre presente l’occhio dell’uomo, ovvero dell’artista.
Andrea Camilleri


Il fotografo Giorgio Palmera ha ritratto gli artisti palestinesi di "Windows from Gaza". Da questo incontro è nato il progetto "Arte contro l’assedio", per educare i ragazzi di Gaza all’arte.

 



Last modified Sunday, July, 24, 2011