Sei scrittori s’interrogano, con i loro racconti, sul destino del lavoro. Storie di persone in cui risorge, nonostante le favole da fine lavoro, l’homo faber, il lavoro come prima sostanza umana.
Che fine hanno fatto le promesse da uomo nuovo di flessibilità, le accelerazioni vertiginose della globalizzazione e tutti gli scenari futuribili della cosiddetta «fine del lavoro»? Questi mutamenti non sembrano aver fatto presa sulla fantasia letteraria dei sei autori dei racconti che compongono questa antologia. Non predominano vicende di precariato, non drammi collettivi segnati dal vuoto di prospettive, non storie di crudo sfruttamento della parte debole, nemmeno si sparge l’ottimismo edificante dell’inventiva individuale e delle sue avventure a lieto fine. Al contrario, ciascuno di questi autori, scrive storie che rappresentano il lavoro nella sua forma più profonda ed eterna, nei suoi aspetti che fanno radice in una generale condizione umana piuttosto che nei rivolgimenti dell’economia e dell’organizzazione produttiva.
Il racconto di Andrea Camilleri è una specie di parabola buffa: ciò che successe a Tano Cumbo, improvvisamente disoccupato, sembra l’allegoria di una mutazione di genere e sostanza.
Ugo Cornia, nell’autobiografismo dell’impiego estivo di un sedicenne dentro una fabbrica di lamiere, vede un’intera vicenda di formazione piena di malinconia e di gratitudine, l’epica del frammento di vita e la lirica del quotidiano nel lavoro. I contadini montanari di Laura Pariani ricordando, davanti al bicchiere, i mestieri li svelano come una generale concezione del mondo pessimistica e paziente: le promesse del mattino della vita che la vita è pronta a sbranare. Quella di Ermanno Rea è una migrazione che si sposta dai luoghi dello spazio a quelli dell’anima: il legame tra il professore bibliofilo e il suo tuttofare emigrato polacco sembra proiettarli in una dimensione di superiore umanesimo grazie alla riscoperta del sapere delle mani che produce insieme precisione, utilità e bellezza. L’ironia spietata di Francesco Recami trova la beffa e lo smacco che attendono ogni esistenza nel desiderio di una attualissima impiegata delle poste che vuole adeguarsi alla nuova «carta dei servizi offerti» al cliente-utente. E per Fabio Stassi, quasi hemingwayanamente, «il figlio del re», l’ultimo dei rais delle tonnare siciliane, può ritrovare la magnanimità che gli spetta, solo intrecciando la sua sorte a quella dei tonni snaturati dalla tecnologia della pesca.
L'uomo è forte
Che la flabbica prima o po' chiuiva, era 'na voci che corriva da qualichi misata. Si diciva che dall'estiro da tempo non erano arrivate cchiù né gari d'appalto né ordinazioni private. Lo sconquasso che era partuto dalla Merica aviva traversato mezzo munno ed era arrivato macari in quel paìsi perso 'n mezzo alle muntagne del centro dell'isola.
Ma non tutti i vecchi, vali a diri i cinco operai che ci travagliavano oramà da trent'anni, dal primo jorno che la flabbica aviva pigliato a funzionari, erano dello stisso pariri.
Gisuè Sorrentino era dei cinco il cchiù ottimista: «Picciotti, non faciti 'sti facci, non pirdemoci d'animo, 'sta facenna è già capitata' na para di volte, ve lo siete scordato? Pariva che eravamo arrivati alla vigilia della chiusura e po', com'è e come non è, abbiamo continuato a travagliare».
«Ma l'altre volte era diverso» replica 'Ntonio Mazza. «Stavolta la storia arriguarda il munno sano sano, ora c'è la recessioni».
«Me lo spiegate che è 'sta recessioni?» dimanna Pitrino Larocca.
«Te la spiego io» 'ntirveni Angelo Bianco. «Sàvuta 'u trunzo e va 'n culo all'ortolano».
«E che veni a diri?».
«Veni a diri che chi ha i dinari, 'nni perdi tanticchia, ma continua a mangiari e a viviri, mentri nui pirdemo tutto, macari le mutanne. Come sempri».
Tano Cumbo senti l'occhi dei sò compagni puntati supra di lui, gli attoccherebbi di diri la sò, ma non gli spercia.
«Bona sira a tutti» dice e nesci , dallo spogliatoio dell'anziani.
La sò casa dista a pedi 'na mezzorata di camino. Quella matina non ha pigliato la lambretta, a malgrado che siano i primi di novembriro la jornata pari ancora ottobrina epperciò ha addeciso che gli faciva beni fari quattro passi.
Piglia la strata che porta verso il centro del paìsi pirchì Lina gli ha arraccomannato d'accattare il pani.
Tri compagni assai cchiù picciotti lo sorpassano 'n motorino e lo salutano.
«A dumani, Tano».
Lui arrisponni con un gesto della mano, non havi gana di raprire la vucca.
Come fanno a essiri accussì sicuri che all'indomani s'arritroveranno ancora tutti in flabbica?
Lui è da tempo che s'immagina la scena di rapriri la porta di casa e vidirisi davanti a sò mogliere Lina che gli proi 'na littra. La littra di licenziamento.
E po' i tri picciotti hanno ancora la forza della giovintù, macari se saranno licenziati attroveranno modo d'arrangiarisi.
Ma lui, a cinquantott'anni sonati, che travaglio vuoi che trovi? E po', 'n coscienzia, che sapi fari di diverso da quello che ha fatto per tri decine filate?
La flabbica, per tutto 'sto tempo, era stata 'na speci di oasi nel diserto.
L'unica in un paìsi di dudicimila bitanti, nasciuta da 'na bella pinsata di Fabio Passatore, 'u figlio di Pippino 'u cantoneri, che aviva studiato ed era arrinisciuto 'ngigneri.
Quanno Fabio era tornato dalla Merica indove che era annato a studiari ancora appresso alla laurea, e gli ammancava picca a divintari trentino, in paìsi accomenzò a firriare la voce che aviva 'ntinzioni di costruiri 'na flabbica.
«E chi voli fari con 'sta flabbica?».
«Mattonelli».
A 'sta risposta, la genti si mittiva a ridiri.
E per fari mattonelli c'era bisogno d'addivintari 'ngigneri e macari d'annari a studiari nella Merica? Però le risate finero e principiaro le dimanne via via che la flabbica viniva flabbicata. A che serviva quella grannissima costruzioni 'n muratura che pariva un capannoni ma che capannoni non era? E pirchì 'na palazzina 'ntera per l'uffici? E pirchì 'na mensa che pariva un ristoranti di cità?
E po', quanno accomenzaro ad arrivari i machinari che dicivano che ognuno viniva a costari quanto dù palazzi novi, la genti addivintò muta, non fici cchiù dimanne, aviva accapito che la cosa era grossa assà.
Pirchì si trattava di mattonelli, questo era vero, ma di mattonelli spiciali, in grado di resistiri a timpirature altissime.
Il primo appalto se lo pigliaro in Sguizzera, le mattonelli dovevano rivistiri 'na lunghissima gallaria sotterranea che serviva per fari spirimenti alli scienziati. Per mantiniri l'impegno e consignari la robba a tempo, erano arrivati a fari tri turni, travaglianno notti e jorno. Il secunno appalto l'avivano avuto dalla Merica, le mattonelli ci abbisognavano per cummigliare l'esterno dell'apparecchi che annavano nello spazio.
No, meglio non pinsari a quello che è stato, meglio non pinsari alla festa che l'ingigneri aviva voluto fari quanno, sempri dalla Sguizzera, era arrivata la notizia che avivano vinciuto 'na secunna gara ancora cchiù 'mportanti della prima, meglio.
Mentri camina a testa vascia, senti un liggero colpo di clàcchisi alle sò spalli. Si scanza per lassare passari la machina. Ma arriva un altro colpo di clacchisi. Si ferma, appuiato al muro d'una casa, e si volta a taliare la machina.
Che è ferma e havi lo sportello della parti del passiggero aperto.
L'arriconosce, è quella di Anna, la sigritaria pirsonali dell'ingigneri che in lei havi la massima fiducia.
S'avvicina, si cala.
«Voli un passaggio?» spia Anna.
«Grazii, Annù, ma è troppo distrubbo, prima devo passari dal forno».
«Acchianasse».
Acchiana. La machina riparte. Non parlano. Tano vorrebbe spiarle la virità supra alle voci che girano, lei di sicuro sapi com'è la situazioni pricisa, ma gliene ammanca il coraggio.
(Incipit pubblicato su La Repubblica, 1.5.2009)