Il volume, molto ampio, analizza diversi aspetti della figura e dell'opera di
Andrea Camilleri, nel dettaglio.
Il volume “Camilleriade – I luoghi, il commissario, i romanzi storici”, appena
pubblicato dalle edizioni Diogene Multimedia, è stato scritto “a sei mani” da
Vito Lo Scrudato, Bernardo Puleio e me. Non è la prima volta che noi tre,
“sodali in scrittura” (come ci definisce Lo Scrudato nella premessa al volume),
scriviamo insieme un libro, poiché cinque anni fa pubblicammo con Vittorietti
“Sicilitalia – Scontro-incontro fra Lingue, Identità, Culture”.
Il titolo principale del volume, “Camilleriade”, intende sottolinearne la
dimensione quasi “epica”: ognuno di noi, infatti, si è cimentato in un’avventura
critica tanto ardua quanto appassionante, con l’intenzione prioritaria di
rendere un doveroso tributo a uno scrittore di cui riconosciamo concordemente la
straordinaria importanza a livello letterario, storico e culturale in senso
lato.
In questa particolare ottica, il risultato finale “è” e “non è”, al tempo
stesso, un “saggio critico”: infatti, ognuno dei tre autori ha colto
l’occasione, parlando di Camilleri, di mettere alla prova il proprio mondo
culturale e interiore, ritrovando spesso ricordi lontani e magiche sensazioni
della nostra vita.
Inoltre, nota caratteristica di questa fatica (che da noi non è stata mai
avvertita come tale) è stato il “divertissement”, «desunto dallo stesso
diletto dello scrivere di Andrea Camilleri» (come precisa ancora Lo Scrudato);
semmai è stato il nostro rigore professionale di docenti, spesso, a rimetterci
in carreggiata e a riportare la nostra scrittura nei binari dell’ortodossia
filologica.
Il libro si articola in tre parti e tre appendici.
Nella prima parte (“Camilleri, i luoghi, l’arte, i pinsèri”) Vito Lo Scrudato,
cammaratese e quindi quanto mai vicino geograficamente, storicamente e
culturalmente a Camilleri, indugia anzitutto nell’analisi dei luoghi descritti
dall’autore empedoclino, trasportandoci da Vigàta e Montelusa (alias Porto
Empedocle e Agrigento) a Boccadasse, dalla sua natìa Cammarata a Palma di
Montechiaro, dall’eremo della Quisquina al Teatro Greco di Siracusa.
Invano però si cercherebbe, in questo viaggio (che è anche un viaggio nella
memoria), un criterio rigido, un ordine, una (chiamiamola così) logica
stringente; la trattazione procede invece, con un fare divagatorio
costante/scostante, con un tono dichiarato di “babbìo”, in una sorta di
conversazione amichevole che nega sul nascere ogni paludata dissertazione
accademica.
Del resto, in questo modo, Lo Scrudato ritiene giustamente di essere
perfettamente sulla stessa rotta di Camilleri, del quale sottolinea
correttamente la “levità” e “leggerezza”: «I fatti lontani fisicamente
diventano più facilmente manipolabili, il babbìo prende libero corso, la
nostalgia, che Camilleri ha più volte confessato di avere nutrito costantemente,
viene consolata da queste rivisitazioni creative, improntate al divertimento
sfrenato, sul piano dell’effetto grottesco; la levità diventa stile,
l’invenzione comica si fa sterminata, il rapporto dell’autore con la scrittura
diventa una copula goduriosa, la trasfigurazione è compiuta, l’effetto sul
lettore è ovviamente simmetrico e coinvolgente» (p. 95).
Ci si sposta dunque dalle donne dei romanzi camilleriani alla straordinaria
lingua “vigatese”, dal legame con i luoghi pirandelliani alla dettagliata
rievocazione del rapporto di Camilleri con lo scrittore agrigentino, dalle
miniere di zolfo a un altro accurato giro per Vigàta, con un gustoso riferimento
alla trattoria di Enzo Sacco, che ha ispirato le pagine in cui sono descritti i
lauti pasti di Salvo Montalbano (e qui Lo Scrudato conferma di essere “liccu” e
buona forchetta almeno tanto quanto lo è il celebre commissario camilleriano…).
Non manca qualche sassolino tolto dalle capienti scarpe di Lo Scrudato, sia che
faccia sue le polemiche sulla Sicilia postunitaria, sia che evidenzi certe
contraddizioni all’interno dell’ideologia camilleriana, sia ancora che ne
contesti l’atteggiamento “antichiesastro” (magari mettendolo a impietoso
confronto con alcune pagine di Sciascia).
Resta però predominante l’ammirazione per Camilleri, cui è riconosciuto il
merito di aver provocato una «netta inversione di tendenza» nella
percezione della Sicilia da parte della comunità nazionale ed internazionale, «riportata
finalmente ad una realtà largamente caratterizzata dalla bellezza dell’Isola e
della cultura dell’accoglienza e del rispetto della sua gente, soprattutto
grazie alla travolgente realtà televisiva del Commissario Montalbano» (p.
95).
Del Maestro empedoclino, infine, sono studiati magistralmente i rapporti con
Pirandello e Sciascia, con una serie di riflessioni tanto più interessanti
quanto più sembrano divagatorie e occasionali. Infine, viene citato il monologo
su Tiresia recitato da Camilleri l’11 giugno 2018 al Teatro Greco di Siracusa,
nel quale l’assimilazione con l’antico indovino (anche per la perdita della
vista) permise all’autore di riflettere sulla capacità divinatoria, in una sorta
di “asciutto saluto” conclusivo al suo affezionatissimo pubblico; così, infatti,
si congedò Camilleri: «Può darsi che ci rivediamo tra cent’anni in questo
stesso posto. Me lo auguro. Ve lo auguro» (p. 107). Come commenta Lo
Scrudato, «è un congedo sospeso, ma qualcosa si riesce ancora a capire:
Camilleri affida il suo tempo, la sua sopravvivenza, il suo bisogno di eternità,
all’arte, come facevano i poeti antichi, quando si auguravano l’immortalità
attraverso l’arte, per il riconosciuto valore alla loro poesia» (ibid.).
L’ultimo paragrafo (“Per concludere: Empedocle”) ha per protagonista l’antico
filosofo agrigentino, di cui viene ricordata la preghiera agli dèi che si trova
all’inizio del suo poema sulla natura; per Lo Scrudato, chiudere la sua nota con
una citazione dall’opera di Empedocle, un altro agrigentino, «è un
definitivo, ultimo, omaggio al paese di Camilleri che, prima di chiamarsi Vigàta,
continua a chiamarsi Porto Empedocle!» (p. 108).
La seconda parte del libro, da me curata, si intitola “Identikit di un
commissario: i romanzi di Montalbano nella produzione di Andrea Camilleri”.
In questa ampia sezione ho cercato di ripercorrere, soprattutto da lettore
appassionato, i romanzi e i racconti di cui è protagonista il commissario più
noto d’Italia: ecco dunque anzitutto un resoconto sulla genesi del personaggio,
cui in origine l’autore avrebbe voluto destinare soltanto un libro (salvo a
essere poi “costretto” da Elvira Sellerio, stante lo straordinario successo de
“La forma dell’acqua”, a proseguire in quella che sarebbe divenuta una vera e
propria “saga”).
Di Montalbano vengono poi esaminate le fasi della vita: dall’infanzia segnata
dalla precoce perdita della madre al successivo allontanamento dal padre,
colpevole di essersi rifatto una vita con un’altra donna; dalle prime fasi della
sua carriera nel paese montano di Mascalippa al trasferimento a Vigàta; dal
decennale rapporto a distanza con la sua Livia all’avventura spiazzante con
Antonia nel romanzo “Il metodo Catalanotti” (2018).
Le vicende biografiche del commissario sono corredate da un quadro completo del
suo carattere, delle sue idiosincrasie, dei suoi pregi e dei suoi innegabili
difetti, delle sue manie, delle sue immutabili abitudini, delle persone che lo
circondano (anzitutto i membri della sua “squadra” al commissariato), dei suoi
difficili rapporti con i superiori, della sua coerenza ideologica, del suo
malcelato passatismo (che sembra rispecchiare a volte l’età avanzata del suo
autore), della sua vasta cultura, del suo rapporto quasi idolatrico con il cibo.
Di Montalbano, poi, è seguito un elemento particolare e specifico (che
costituisce un’altra delle differenze con il Maigret simenoniano):
l’invecchiamento, il senso doloroso del tempo che passa, il timore
dell’ineluttabile decadenza fisica e mentale. Da qui deriva, anche, il suo
contrastante e doloroso rapporto con i ricordi: «è un gioco tinto, quello dei
ricordi, nel quale finisci sempre col perdere» (“L’odore della notte”, p.
56).
Come reazione agli anni che passano, il commissario, che nei primi romanzi
mostrava un’incrollabile fedeltà nei confronti della sua Livia, evidenzia sempre
più la tendenza a “dimenticarla” e a sostituirla; ecco quindi che un’ampia
digressione è dedicata alle donne che, via via, si pongono come “tentatrici” e
“seduttrici” nei confronti di Montalbano, mentre parallelamente il rapporto con
Livia si evolve e si scontra con nuove difficoltà (soprattutto dopo la mancata
adozione del piccolo François, che avrebbe potuto costituire la base per un
legame più profondo).
L’analisi del romanzo “Il metodo Catalanotti” (2018) è particolarmente
approfondita, proprio perché costituisce di fatto l’ultimo romanzo di Camilleri
in ordine cronologico, dato che “Il cuoco dell’Alcyon” (2019) era stato composto
anni prima, come anche “Riccardino” (uscito postumo nel 2020), da tempo
destinato a chiudere idealmente la serie su Montalbano.
Non meno opportuna mi è parsa un’accurata riflessione su “Riccardino” e sulla
soluzione surreale adottata dall’autore per far “svanire” per sempre il suo
personaggio, in una prospettiva “pirandelliana” che fa dell’opera un vero e
proprio “metaromanzo”.
Le notizie sull’evoluzione della lingua camilleriana nei romanzi di Montalbano,
da “La forma dell’acqua” a “Riccardino” (nella sua revisione finale), mirano a
far cogliere l’evoluzione progressiva di uno strumento espressivo del tutto
particolare e inimitabile, quel “vigatese” che è assurto al rango di lingua
letteraria ma si è mostrato capace di influire potentemente persino sul lessico
quotidiano di milioni di persone.
Non mancano le notizie (doverose) sulla “fiction” televisiva (sia quella
principale con Luca Zingaretti, sia quella del “giovane Montalbano” interpretato
da Michele Riondino), con una puntualizzazione delle differenze con i testi
camilleriani.
Il problema conclusivo è quello relativo alla “sopravvivenza” di Montalbano
“post mortem auctoris”: Montalbano “orfano” non per questo è condannato a
“svanire” come aveva previsto il suo autore; la potente vitalità di certi
personaggi, che sopravvivono alla scomparsa dei loro autori, è confermata in
questa riflessione di Maria Corti, insigne filologa e semiologa milanese: «Noi
moriamo, diventiamo polvere e non ci siamo più; loro, i fantasmi di quel teatro
dell’immaginario che è la letteratura, escono dalla vita del testo senza morire,
anzi continuano a popolare la vita degli uomini; non appartengono a nessuno e
appartengono a tutti».
La terza sezione, “I romanzi storici di Camilleri: il rapporto con Sciascia”, è
stata magistralmente curata da Bernardo Puleio, autore anche delle prime due
appendici del volume.
Partendo dalla “scoperta letteraria” di Camilleri da parte di Sciascia, il
critico analizza i rapporti fra i due autori, soffermandosi anzitutto sui primi
romanzi storici camilleriani; infatti, come ricorda opportunamente Puleio, «Camilleri
non è soltanto l’inventore di Montalbano, dal momento che non sono pochi i suoi
libri d’altro genere, fantastici, libellistici, civili e di varia fiction
giallo-storica» (p. 315).
Analizzando le fonti, Puleio smaschera alcune contraddizioni di Camilleri nel
rapporto con Sciascia, sia quando lo accusa falsamente di “anticomunismo
viscerale” (quando invece era stato eletto, sia pure da indipendente, nel PCI,
con il solo torto di esserne un “intellettuale disorganico”, a differenza dell’empedoclino,
che fu organico al partito, cfr. p. 319) sia quando gli attribuisce una
“santificazione” della mafia (ad es. nella figura di Don Mariano ne “Il giorno
della civetta”) in realtà assolutamente estranea agli intenti e all’effettiva
scrittura di Sciascia.
Puleio evidenzia poi la profonda cultura di Camilleri, il quale, «attinge
copiosamente alla tradizione siciliana che spazia dai veristi a Pirandello, da
Brancati a Sciascia, fino all’amico D’Arrigo, ma che comprende una sterminata
carrellata di autori europei e americani (nella duplice accezione di americani
del Nord e di latino-americani)» (p. 322). Giustamente il critico aggiunge
poi: «Il condimento di questa ricca pietanza non può che essere il “camilleriano”,
il pasticcio linguistico intriso di dialetto, siciliano parlato, parasiciliano,
invenzione linguistica e, abbattendo la peculiarità della lingua scritta, di
cunto, cioè della capacità di far vivere il racconto in una dimensione orale, di
primigenia purezza che rimanda a codici antichi della letteratura» (p. 323).
Una sezione critica molto significativa e decisamente originale è quella in cui
Puleio individua un vero e proprio “metodo Camilleri” nell’approccio con il
romanzo storico (pp. 324 ss.): «il lettore dei romanzi storici di Camilleri
deve preliminarmente fare ‘tabula rasa’ di quello che è o potrebbe essere il
codice identificativo del genere romanzo storico. […] I romanzi cosiddetti
storici di Camilleri hanno infatti ben poco di storico. Innanzitutto, perché le
fonti vengono spesso travisate o non esistono affatto o vengono ricostruite
fantasiosamente anche quando ci siano dei ben precisi riferimenti storici. È una
libertà, questa, che l’autore rivendica con sicuro orgoglio. Se a ciò
aggiungiamo anche l’utilizzo di espressioni della lingua ‘inventata’
dall’autore, espressioni tipiche del linguaggio parlato, uso diffuso del
turpiloquio, caratteristiche non certamente proprie del genere letterario
storico che, ha, per così dire, una sua austera, rigorosa e letterarissima
tradizione, ci imbattiamo perlopiù in testi che costituiscono la parodia del
genere storico, che forse è uno degli intenti che ha voluto comicamente
realizzare l’autore» (p. 325).
Su queste basi si pone il distacco dal modello sciasciano e, prima ancora, dalla
tradizione del romanzo storico europeo; Puleio pone qui giustamente l’accento
sull’ironia camilleriana, «che, con leggerezza, dissacra, ma invita a
riflettere. Alla fine il narratore, anche se la narrazione si è sviluppata senza
il supporto di precise indicazioni d’archivio, propone interessanti questioni
morali filtrate attraverso un rapporto diacronico per cogliere genesi ed
evoluzione delle maggiori problematiche sociali siciliane» (p. 328).
Lo studio del “metodo camilleriano” viene sviluppato attraverso un’analisi
accurata prima di “Un filo di fumo” (1980), con un esemplare approfondimento
storico sul tema delle zolfare, poi del romanzo “La strage dimenticata” (1984),
testo “decisamente sciasciano” (p. 351). Con dovizia di opportune
citazioni e riferimenti culturali ad ampio spettro, il critico chiarisce al
lettore i meccanismi dell’operazione camilleriana, fornendo chiavi
interpretative originali e spesso inaspettate.
La sezione relativa a “La bolla di componenda” (1993), come precisa Puleio, «dà
la stura ad una serie infinita di discussioni e di polemiche. Esistevano ed
esistono ancora in Sicilia, e probabilmente non solo in Sicilia, forme di
ricomposizione, di mediazione tra i malviventi e i derubati» (p. 370). In
tutta questa interessantissima trattazione la critica letteraria e storica si fa
denunzia civile, esemplare presa di coscienza morale, informazione doverosa che
colma lacune, suggerisce comportamenti e apre nuove prospettive.
Nel capitolo intitolato “La storia e l’attualità”, Puleio rileva come in
Camilleri prenda forma «un progetto di riscrittura senza idealizzazioni della
storia siciliana e italiana postunitaria» (p. 402); infatti «è da
osservare che Camilleri, senza cadere nella retorica neoborbonica ma anche senza
accedere ad una esaltazione aprioristica del processo unitario quasi come se si
trattasse di una fuoriuscita verso il progresso della Sicilia, intravede nel
fenomeno risorgimentale e nella gestione post-unitaria dell’isola non un
elemento di rinnovamento ma un elemento problematico, una condizione di
sofferenza e di angoscia soprattutto a danno degli ultimi. L’unità è una mancata
occasione di progresso» (pp. 403-404).
Chiude il prezioso contributo di Puleio la sezione relativa a “La mossa del
cavallo” (pp. 416 ss.), a sua volta ricca di spunti di riflessione e
particolarmente curata dal punto di vista dell’analisi linguistica.
Quanto alle tre appendici del volume, mentre le due curate da Bernardo Puleio
(«“La rivoluzione della luna” e il donnesco governo» e «Il tema del doppio in
“Riccardino”») continuano ad offrire una messe di osservazioni preziose ed
originali, l’ultima appendice presenta un “apocrifo camilleriano”, cioè
un mio raccontino intitolato “La pensione di Montalbano” (pp. 457-466),
inizialmente ambientato nel borgo di Boccadasse, a Genova.
Lungi dal voler in alcun modo competere con l’ineguagliabile modello
camilleriano, il racconto riporta il volume al tono complessivo di “lusus” che
caratterizza l’intera opera; un “lusus”, però, non privo – mai – di sottintese
intenzioni, quale (in questo caso) quella di rendere omaggio ad Andrea Camilleri
e al suo Montalbano, divenuto ormai a tutti gli effetti “patrimonio
dell’umanità”.
Mario Pintacuda
(Nulla dies sine linea,
13 ottobre 2023) |