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Carnezzeria

Trilogia della famiglia siciliana



Autore Emma Dante
Prezzo E 14,50
Pagine p. 175
Data di pubblicazione 2007
Editore Fazi
Collana Le vele


La famiglia Carollo – Mimmo, nonna Citta, Giammarco, zia Lucia, Rosalia – tenta di varcare la soglia della sua casa-bunker e di uscire per la passeggiata, per il rito domenicale. Gesti che si formano perfettamente dentro la testa, ma non riescono a passare nei muscoli, nel sangue.
Gaspare, Uccio e Chicco. Tra loro c’è un morto che deve occupare un letto al centro della stanza, ma la madre non vuole saperne, vacilla, si mette a sedere, piega la testa di lato e se li guarda a uno a uno, i suoi maschi di casa: il grande, il mezzano, il piccolo… Come fa a sentirlo suo, quel figlio morto? Con quale coraggio lo porterà fra le braccia sul letto «Conzato di lutto», dopo averlo vestito e avergli bisbigliato nell’orecchio parole d’amore?
Nina è una scimunita. Non sa niente, è una reclusa. Per tutta la vita ha abitato in una casa con porte e finestre sbarrate, in una famiglia incestuosa, che tramanda, di padre in figlio, lo stupro e la violenza. Nina è un’idiota e come tutti gli idioti è più vicina a Dio di chiunque altro. Accetta infatti la sua sofferenza e ama incondizionatamente i suoi carnefici, che dopo averla messa incinta cercano di disfarsene come una cosa inutile.
Storie di famiglie di carne da macello, con i loro legami morbosi, le loro fughe isteriche e paralizzanti, i loro tentativi folli e disperati di ritardare fino allo stremo delle forze l’ultimo giro prima della morte. Storie di famiglie dal ventre fertile e deformato dove troppi figli si accalcano e succhiano linfa da un groviglio di cordoni ombelicali. Scalciano, spingono, ma non riescono a uscire.
Dalla più significativa autrice di teatro emersa in Italia negli ultimi anni, la trilogia sulla famiglia siciliana – mPalermu, Carnezzeria, Vita mia – definita dalla critica italiana e francese un capolavoro della drammaturgia contemporanea.


Prefazione
di Andrea Camilleri

Di primo acchito
ciò che più colpisce nel teatro di Emma Dante è il dialogo in pretta parlata palermitana. Attenzione, non sto dicendo che le sue opere sono in dialetto siciliano, dico che del variegato dialetto siciliano la Dante se ne ritaglia quel pezzo, geograficamente contornato, che ritiene più redditizio per i suoi personaggi. (E sarebbe a questo proposito interessante un confronto con la conterranea lingua teatrale di Franco Scaldati che spesso e volentieri tende a verticalizzarla in accensioni lirico-oniriche, mentre quella della Dante volutamente mantiene il suo senso di marcia orizzontale, semmai con cadute, altrettanto volontarie, verso il basso. Mi affretto a chiudere la parentesi).
Ma perché nell’anno 2000 una giovane colta, a conoscenza delle esperienze sceniche mondiali, che ha studiato da attrice e lo è stata, sceglie, per cimentarsi con grande successo come autrice drammatica, proprio una parlata locale?
Sul finire dell’800 Pirandello, nel corso di un articolo sul teatro in dialetto (siciliano, naturalmente), dopo averne dichiarato a priori la riduttività dal punto di vista del valore letterario, affermava inoltre che un autore che scriveva nel proprio dialetto era destinato per forza di cose a un numero ristretto di spettatori, a coloro cioè che quel dialetto perfettamente capivano, e spiegava il contemporaneo successo (anche internazionale) di attori come Giovanni Grasso col fatto che la loro sapiente mimica rendeva, come dire, facoltativa la comprensione letterale delle parole.
Poi si autosmentì col suo stesso teatro dialettale interpretato soprattutto da Musco e a dargli man forte arrivarono di corsa i De Filippo, i Govi, i Baseggio.
Quindi l’ostacolo della ristretta area di comprensibilità si rivelò un falso ostacolo. Perché allora in Italia, malgrado il tentativo di eliminazione fattone dal fascismo, i dialetti erano ancora vivi e vegeti e fra i parlanti i diversi dialetti la comprensione, non mediata dalla lingua italiana, era forse intuitivamente più immediata.
Insomma, l’Unità d’Italia era stata, almeno fino agli anni quaranta, solo parzialmente linguistica.
L’unificazione linguistica avvenne, e non solo a parer mio, con l’avvento della televisione. Ma l’italiano televisivo unificò appiattendo la lingua verso un registro omologatorio, smussandone le provenienze dialettali che ancora potevano costituire una sorta di linfa vitale e soprattutto arrestando quel movimento centripeto, dalle diverse periferie verso il centro, che è il movimento essenziale di ogni lingua che voglia mantenersi autonoma.
Per farmi capire meglio: la lingua operaia (e quella sottoperaia), la lingua contadina, la lingua delle periferie urbane, da noi sono rimaste emarginate, non hanno portato vigore alla lingua nazionale, sono del tutto restate escluse dal processo osmotico, semmai hanno fatto la ricchezza e la vitalità di certa letteratura (penso soprattutto a Pasolini) e di certo cinema neorealistico.
Sicchè è stata facile, in questa lingua omologata e sostanzialmente anonima, l’irruzione della colonizzazione straniera: si consideri quante parole e modi di dire anglosassoni sono oggi presenti nel nostro parlato quotidiano. Perfino i governi che da noi si sono succeduti negli ultimi anni si sono facilmente arresi, vedi welfare, devolution, question time, ecc. Muoiono proprio così le lingue nazionali.
Allora è stato necessario, ineluttabile, per molti tra scrittori, poeti, autori drammatici che volessero con le loro opere confrontarsi col reale (non sto parlando né di realismo né di neorealismo) rivolgersi al dialetto come unica possibilità espressiva. E tentare l’operazione di promozione del dialetto a lingua personale, ad una voce che risuonasse d’autenticità.
La Dante fa un’operazione ulteriore utilizzando con intelligenza e rigore la specificità della parlata da lei prescelta.
Un esempio? Il verbo “scripintare”, nella forma attiva, significa esattamente prendere tra l’indice e il pollice un foruncolo e stringerlo fino a quando non si apra e il pus non fuoriesca. Usarlo come una minaccia verso una persona (“ti scripento”) non solo contiene esplicitamente un chiaro avviso di violenza, ma, implicitamente, un disprezzo totale verso quella persona che viene considerata né più né meno che un foruncolo.
Voglio dire insomma che i dialoghi della Dante sono “a cavare” e non “a mettere”, nel senso che si limitano a quanto deve essere detto con secchezza e immediatezza: solo però che il peso specifico di ogni parola è incredibilmente molto alto, perché la sua massa è costituita dalla fusione di più sottosignificati.
Juan Ramon Jimenez si augurava che, nella sua poesia, “la palabra” fosse “la cosa misma”. E’ quanto riesce perfettamente a fare la Dante: una parola che si identifica con la cosa è la parola teatrale per antonomasia.

Questa parlata però
non solo nasce coi personaggi stessi, ma senza di essa i personaggi non esisterebbero, essa è la necessità assoluta, identificante del loro vivere scenico. E i personaggi lo sanno: la loro parlata è talmente connaturata e talmente comune a tutti che è come l’aria che respirano, ognuno di loro continuamente ne aspira una certa quantità, se ne serve e quindi la restituisce all’uso comune. Quest’unicum oggi assai raro a trovarsi nei palcoscenici non solo italiani fa sì che la dimensione di ogni singolo personaggio, proprio per questo inestricabile rapporto essere-dire, anzi dire per essere, si carichi di un’ulteriore valenza: che è quella di una sorta di straniamento, di alterazione della propria funzione.
In altre parole, sarebbe possibile che, in un qualsiasi momento, un personaggio s’impadronisse della parte dell’altro senza con ciò sostanzialmente alterare lo svolgimento della vicenda.
Per esempio, in “mPalermu” la perdita della collocazione di ogni personaggio sarebbe irreversibile se essi non ricorressero, per riappropriarsi del loro ruolo, all’identificazione del pasticcino che ognuno di loro ha in mano e che è diverso per ognuno.
E’ attraverso un oggetto esterno che il gioco di ruolo può continuare.
In questo paradosso dell’uso e della distribuzione della parlata penso consista uno dei punti di forza più originali e persuasivi della drammaturgia di Emma Dante.

Ma subito appresso
balza agli occhi un altro elemento non è meno importante del primo. Anzi. E’ l’uso del tempo.
In tutti e tre i lavori che costituiscono questa “trilogia della famiglia siciliana”, non è riscontrabile una vera e propria trama secondo il canone tradizionale, non c' è’un racconto, c'è tutt'al più una situazione di partenza.
Quella che vede lo spettatore all’inizio dello spettacolo. Ora questa situazione può evolversi oppure no. Ma in Emma Dante l’evoluzione di una situazione, se avviene, non necessariamente comporta la messa in moto di una sequenza temporale. La stessa compressione esercitata sulla parola viene dall’autrice adoperata sul suo tempo teatrale che è, basilarmente, un presente continuo nella cui massa però il passato e il futuro sono così completamente amalgamati e fusi da risultare anch’essi presenti nel presente stesso.
Mentre ne “L’Urlo e il furore” di Faulkner la contemporanea coesistenza di passato, presente e futuro è, per il protagonista, un elemento di alienazione, nella trilogia della Dante essa è l’essenza stessa della sua drammaturgia.
La compressione temporale è la fonte di energia dinamica che tiene in vita il suo universo teatrale.

Un universo che sa
benissimo di poter esistere solo su un palcoscenico spoglio. Sa di non poter avere un altrove, gli viene negato persino il verosimile di cartapesta o il cielo di carta. E così allora capita che un personaggio non esiti a svelare questa sua conoscenza di sè allo spettatore, spesso rivolgendosi a lui direttamente, rimbrottandolo, minacciandolo o tentando di distrarlo col raccontargli storie.
Certe volte i personaggi sono impacciati dagli sguardi del pubblico, sentono la loro intimità troppo esposta alla vista altrui, vorrebbero agire di nascosto da loro, ma non riescono a farlo.
Sono condannati in eterno alla rappresentazione cosciente di loro stessi.
Che è, in fondo, la condanna dell’uomo d’oggi.



Last modified Wednesday, July, 13, 2011