Introduzione al catalogo della mostra Omaggio a Nino Cordio (Catania,
Centro Culturale Le Ciminiere, 16.4.2005) Non
posso mancare di dare un mio contributo, sia pure minimo, quando si tratta di
rendere omaggio in genere all’arte di Nino Cordio, ma nel caso specifico di
questa mostra, voluta da Angelo Scandurra, che presenta preziosi inediti di
Nino, anche nel campo della scultura, la mia intima esigenza si tramuta in
dovere. Perché penso che la straordinaria felicità d’invenzione
di Nino sia ancora da comprendere appieno, che la sua radice vitale sia ancora
da portare alla luce. Perché penso che il misterioso e sconvolgente rapporto
che lo legava alla natura, di respiro forse lucreziano, sia ancora tutto da
capire. Forse chiarisco meglio le mie sensazioni ricordando un episodio che mi
capitò a Todi, nell’autunno del 1998, visitando una mostra di Nino. Davanti
alla potenza di quattro grandi olii (tre dei quali sono presenti in questa
mostra), ho avuto come l’impressione che tutti noi corressimo il rischio di
esplodere, ho avuto la sensazione che la cornice non riuscisse a contenere
questa forza della natura, un’arte che riproduce e interpreta e inventa in
qualche modo la natura stessa, ma con una forza talmente potente che i colori
sembrano capaci di apparire all’improvviso e sfondare le pareti.
Voglio dire, è tale la carica di ricreazione della Natura che per un momento
hai una sensazione di sospensione, di vera paura come di fronte a un atto
assoluto.
Con la stessa forza mi è venuta in mente la storia che un marchese siciliano
mi raccontò: questo marchese aveva una vecchia zia che dall’età di sedici
anni aveva deciso di non coricarsi mai più nel letto perché “il letto fa
venire cattivi pensieri”. E quindi, dall’età di sedici anni, dormì
sempre su una poltrona. Di tanto in tanto la alzavano dalla poltrona,
cambiavano le federe, rapidissimamente pulivano tutto quello che c’era da
pulire e la rimettevano sulla poltrona. E piano piano arrivò alla convinzione
che le stanze della sua casa non le servivano più, possedeva un palazzo di
tre piani, enorme, e cominciò dal terzo piano a chiudere una porta dietro
l’altra gettandone via le chiavi fino a quando si ridusse, con tutte le
porte chiuse, a vivere nell’atrio, lei e la poltrona. Dopo di che uscì in
strada, chiuse il portone, gettò la chiave e disse: “non ho più case”.
Allora la portarono in casa di una sua sorella e lì visse fino a
novant’anni. Aveva espresso l’intenzione di lasciare tutti i suoi beni a
un convento di suore, ma un giovane nipote (quello che mi raccontò la storia)
che aveva un fratello sempre bisognoso di denaro perché dilapidava patrimoni
alle corse dei cavalli, fece una sorta di circonvenzione d’incapace:
evocandole immagini violente di mani estranee che sfondavano le porte delle
camere del palazzo, che ne stupravano l’intimità, che ne violentavano i
ricordi, la convinse a lasciare il palazzo al fratello giocatore. Quando
questi prese possesso dell’eredità, il fratello marchese andò con lui
munito di una polaroid. Voleva fotografare le stanze del palazzo restate
chiuse per oltre settanta anni. Io queste foto le ho viste. In una, un enorme
ficus aveva forzato le pareti, era entrato nel salone buono, quello damascato
e si era impossessato di tutta la stanza.
Ecco, io ebbi questa impressione visitando quella mostra di Nino a Todi.
“Mio Dio” – continuavo a ripetermi – “Speriamo che le cornici
reggano! Altrimenti rischiamo di venire travolti da questa forza
incredibile”. Credo che molti visitatori proveranno le mie stesse sensazioni
anche in questa occasione. Nino era un uomo dolce, di delicati pensieri e di
grande generosità, nei contatti con gli altri non innalzava schermi
protettivi, ma la sua arte, sotto l’apparenza della grazia, nascondeva la
stessa forza sismica che ha fatto fiorire il mondo. .Andrea Camilleri
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