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Colori, miracoli e ombre di un eroe ciabattino



Autore Walter Da Pozzo
Prezzo E 10,00
Pagine 192
Data di pubblicazione 2007
Editore Graus
Collana Gli specchi di Narciso


Cento anni di storia del nostro paese.


Prefazione di Andrea Camilleri

Carissimo Walter,
oltre che come bravissimo attore, ti conoscevo anche come autore drammatico.
Ricordo che un tuo lavoro, mi pare che si chiamasse “Boulevard des Italiens”, mi piacque assai perché, tra l’altro, mostrava già un profilo d’autore che si distingueva per una non certo usuale estrosità di scrittura e per una altrettanto inusuale ambientazione.
Se ti avessero allora degnamente messo in scena, credo che oggi avremmo potuto contare su di un ottimo commediografo in servizio permanente effettivo. Ma purtroppo da noi la genia di coloro che sono in grado di produrre organizzativamente spettacoli è composta al novanta per cento da dilettanti e analfabeti.
Ora, del tutto inaspettato, mi giunge questo tuo “Colori, miracoli ed ombre di un eroe ciabattino”.
Ti dico subito, e non per cortesia o affetto, che il racconto l’ho letto tutto di seguito, come in genere accade coi buoni romanzi gialli. Naturalmente il tuo libro non ha niente a che fare col genere.
Mi sono domandato il perché di questa sorta di affatamento.
La prima risposta è stata un’immagine. Tu, nel tuo libro, parli spesso del Sarno, il bagno in quel fiume diventa di volta in volta un gioco o una sfida o un rito (non è un rito purificatorio il bagno che i due reduci fanno non appena si ritrovano?).
Ebbene, a me, leggendoti, è parso di essere preso da quelle acque e trasportato in un viaggio, a un tempo allegro e malinconico, che non concedeva soste.
E tutto questo in virtù della felicità della tua scrittura.
Tu racconti la vita di tuo nonno ciabattino, una vita che, a ben considerarla, non ha niente di straordinario: il protagonista cresce, impara il mestiere, va una volta sola in un bordello, fa la guerra continuando a risuolare le scarpe dei commilitoni, uccide un nemico (un orrore che si porterà sempre dentro), torna a casa, si sposa, la sua bravura lo porta a poter lavorare per proprio conto, si adegua agli eventi politici, tradisce una volta la moglie (ma in condizioni eccezionali e infine tragiche), comunque vive e sopravvive…
Non ci sarebbe molto da raccontare, se tuo nonno e sua moglie Lucia, se il cognato ciclista Totonno e molti altri personaggi che popolano questo libro non avessero, come hai scritto tu stesso, “facce piene di storia”.
Ecco, io, alla storia, ci metterei tanto di S maiuscola.
Il ciabattino Alfonso traversa infatti tutta la Storia d’Italia a noi più vicina, dall’emigrazione alla prima guerra mondiale, dall’avvento del fascismo alla guerra del ’40, dal dopoguerra all’attentato a Togliatti, e oltre.
E la traversa con la sua immutabile faccia di onesto artigiano e con l’immancabile ombrello.
E le disgrazie e i lutti famigliari, così come le gioie, sempre sofferti o goduti con estrema dignità, insomma la sua piccola storia personale si intreccia indissolubilmente con la grande Storia del nostro paese.
Ora, come tu ben sai, una storia vale non tanto per quello che racconta, ma per come la si racconta.
La tua scrittura ha il dono di riuscire a trasportare la normalità in una dimensione diversa, addirittura a tratti quasi fiabesca. Ci sono pagine che ho trovato affascinanti, come ad esempio quelle che riguardano l'arte del fabbricare scarpe o, prima ancora, quelle che raccontano la nascita marsigliese di Alfonso.
Quell’estrosità che avevo già avuto modo di apprezzare nella commedia da te scritta tanti anni addietro, qui si fa ancora più libera e più ricca d’inventiva.
Adoperi spesso e volentieri un’aggettivazione che a prima vista può anche apparire a volte incongrua, ma che finisce sempre coll’essere la più propria, la più espressiva.
E così puoi abbandonarti ad una libertà di scrittura che altri forse non oserebbe.
Mi permetti di disporre diversamente qualche rigo della pagina nella quale narri la nascita di Alfonso?
Andrea di scatto si alzò
per andare di là.
Poi, fermo restò.
Il tacco e la scarpa
tra le mani bloccò.
……………………
Un respiro affannoso,
verace e carnale,
l’uomo sentì.
E di getto, quasi fuoco,
un ultimo urlo apparì.

Non sono versi, certo. Ma il ricorso alla rima, la forte scansione ritmica che il racconto in quel tratto assume, dimostrano egregiamente il tuo sapere e volere eludere i paletti che i soloni della critica assegnano alla prosa. In piena e totale libertà, lo ripeto, tu hai sentito il bisogno di raccontare l’evento in quel determinato modo e l’hai fatto. E per noi lettori la tua libertà si tramuta in una nostra necessità: infatti, dopo averla letta, quella pagina, non sapremmo pensarla scritta in altro modo.
Spero, sinceramente, che tu abbia voglia di continuare.
Ti abbraccio


Presentazione di Andrea Camilleri
Liceo Morgagni, Roma, 30 marzo 2007

Più che parlare del libro di Walter Da Pozzo vorrei dirvi le mie reazioni davanti ad esso. Non pigliatelo come un gesto di vanità. Già vi sento pensare: ecco, come tutti gli scrittori, coglie subito l’occasione per parlare di sé. Chiarisco allora subito che voglio parlare di questo libro in qualità di puro e semplice lettore. Il lettore non è come uno spettatore di teatro.
Lo spettatore di teatro è sostanzialmente un singolo anonimo che esiste solo in quanto accanto a lui ci sono altri singoli anonimi: la condizione essenziale della sua esistenza è che viva all’interno di una comunità molteplice, la quale ha solo tre modi per reagire a ciò che sta vedendo e ascoltando: l’applauso, il dissenso, il silenzio. Non adopera parole. O se le adopera, più che parole sono delle esclamazioni: Bravo! Basta! Che schifo! Meraviglioso! E poco altro.
Il lettore è invece completamente diverso. Fondamentale è che il rapporto con il libro sia un rapporto a due, alla gioia della lettura si possono talvolta invitare altri, ma solo dopo che si è consumato quel primo rapporto intimo.
Talmente intimo che, se l’autore è vivente, il desiderio immediato del lettore è quello di entrare in una comunicazione personale con lui. Vuole saperne di più, vuole conoscere ragioni e motivazioni di una scrittura, vuole sapere perché a un personaggio è stata fatta fare una certa cosa invece che un’altra e via di questo passo.
Tutto chiaro?
Avevo perso di vista Walter Da Pozzo da qualche tempo. Come attore avevo avuto modo di stimarlo, come dire, sul campo, prima in qualità d’allievo dell’Accademia nazionale d’arte drammatica e, anni dopo, come coprotagonista in un testo inglese che pareva facile e facile invece non era.
M’aveva anche dato a leggere una commedia che mi aveva intrigato per le qualità del dialogo oltre che per l’ambientazione alquanto inusuale. Poi, come ho detto, non ci eravamo più incontrati anche perché io, con un certo rammarico lo ammetto, mi ero allontanato dal far teatro.
E un giorno Walter è ricomparso con l’invio delle bozze del suo romanzo d’esordio. Questo del quale stiamo parlando. Devo dichiarare con sincerità che, da lettore, ho idiosincrasie da gatto. I gatti non amano cambiar casa, non amano viaggiare, temono le novità. I cambiamenti repentini li mettono a disagio.
Io, per esempio, davanti a un libretto di poesie di un narratore del quale ho letto, apprezzandoli, cinque o sei romanzi, mi trovo così interdetto da rimandarne il più possibile la lettura. Ma questi versi- mi chiedo- saranno all’altezza dei romanzi? E se non lo sono, non finiranno con l’influire sul giudizio che ho dell’autore, mettendo in una prospettiva diversa i romanzi che ho letto e quelli che leggerò?
In altre parole, che un attore come Walter Da Pozzo scrivesse una commedia, rientrava tutto sommato nell’ordine naturale della sua attività, ma che scrivesse un romanzo era, come si usa dire, un altro paio di maniche.
Finalmente, mi decisi a prendere in mano il romanzo e cominciai a leggerlo non senza una certa trepidazione. Ma dopo poche pagine, mi fermai nuovamente.
Avevo capito che la storia era incentrata sulla figura del nonno dell’autore.
Oddio, un nonno! Non che io abbia nulla contro i nonni in generale, figuratevi, sono quattro volte nonno io, ma ho una sorta di rigetto davanti ai nonni letterari. Forse è un trauma giovanile, mi riferisco alla profonda, irrimediabile antipatia che mi fece la carducciana nonna di “Davanti a San Guido”, quella che parlava non solo la favella toscana ma per di più col mesto accento della Versilia. E da allora appena m’imbatto in frasi come “il mì poero nonno in su l’uscio della ‘antina”…io chiudo il libro e mi rifiuto di andare avanti.
Comunque, per l’affetto e la stima che nutrivo per Walter, mi decisi dopo qualche giorno a riprendere in mano il suo romanzo.
Arrivato alla fine, mi sono dispiaciuto che fosse già finito. Poi tirai le somme e scrissi una lettera a Walter.
Perché una lettera e non una vera e propria prefazione? Perché una lettera è un fatto privato, e il destinatario può farne quello che vuole, mentre una prefazione è una dichiarazione pubblica.
Allora, potreste domandarmi, non vuoi impegnarti pubblicamente? No, le cose stanno in un altro modo.
Io, per esempio, per antica esperienza di lettore, le prefazioni le modifico in postfazioni, voglio dire che le leggo dopo che ho terminato di leggere il romanzo.
Cos’è una prefazione? Se è una buona prefazione, essa è come una sorta di guida in un ambiente, museo, chiesa, galleria, palazzo storico, dove metti piede per la prima volta. Essa ti obbliga a un percorso preferenziale che è quello del prefatore. E tu cominci la lettura già condizionato dalle parole della guida e capace che a metà strada ti rendi conto che il tuo percorso istintivo sarebbe stato un altro e diverso. E magari sei costretto, a quel punto, a far marcia indietro e a ricominciare da capo.
Le prefazioni sono sempre e comunque, in un modo o nell’altro, condizionanti per il lettore. E io invece ho voluto lasciare al lettore il piacere di esplorarselo da sé.
Ho solo detto, nella lettera, quelle che sono state le mie impressioni.
In primo luogo, sono rimasto molto favorevolmente colpito dalla leggerezza e la grazia della scrittura che nascono da una sorta di candore favolistico col quale viene vista e restituita la realtà.
La generazione di Walter, o meglio, gli scrittori che di Walter sono coetanei, si possono dividere, salvo rare eccezioni, grosso modo in due categorie: gli osservatori del proprio ombelico e gli osservatori della realtà quotidiana (che è però solo una parte della realtà). Per quanto possa apparire paradossale, in questi scrittori non c’è poi tanta differenza nell’osservazione pessimistica del proprio ombelico e nell’osservazione altrettanto pessimistica della realtà quotidiana. Il pessimismo, lo sfascio, il lordume, la violenza, la noia, la superficialità, il rifiuto di tutto, la negazione di sé, l’esibizione della negazione di sé, ne sono la nota dominante, comune e costante.
E non c’è poi tanto da stupirsi se uno dei maggiori scrittori di quella corrente che venne detta dei cannibali dai quali la realtà veniva dipinta come una sequela di autentici orrori, sia finito con lo scrivere poemetti in onore della Vergine Maria: gli estremi (e gli estremismi), come si sa, si toccano.
Leggendo Walter, ad ogni pagina mi pareva veramente di respirare aria di alta montagna.
Non perché all’interno di quelle pagine non ci fossero accadimenti anche dolorosi, ma per come quegli accadimenti venivano raccontati. Ancora una volta mi riconfermavo nell’opinione che a valere non è tanto quello che si racconta, ma come lo si racconta.
In secondo luogo in questo romanzo ho apprezzato la sua straordinaria visione sintetica della Storia con la S maiuscola.
Perché le vicende personali del ciabattino Alfonso si inscrivono nel contesto storico del nostro paese quasi fossero dei particolari di un affresco grandioso che però viene non dipinto perché non ce n’è più la necessità.
Nel senso che i dettagli, per come sono stati disposti e ordinati con abilità dall’autore, finiscono per suggerire l’insieme complesso e variato lungo il quale si dipana la vita di Alfonso.
La mia lettera a Walter terminava con l’augurio che continuasse a scrivere.
Per tutta risposta, mi ha inviato due raccolte di racconti e due commedie.
Ho cominciato lentissimamente, i miei occhi non ce la fanno più, a leggere una delle due raccolte che s’intitola “Uomini, circostanze e animali”. L’altra ha un titolo quasi uguale, “”Uomini, circostanze e città”.
Vi sto ritrovando la stessa felicità di scrittura del romanzo. Segno che Walter è un narratore nato e cresciuto.
Termino qui, invitandovi a godere (è il verbo giusto, credetemi) di questo piccolo ma ricchissimo libro.



Last modified Wednesday, July, 13, 2011