da ‘richieri’ a ‘vigata’: una questione di lingua.

 

 

Una storia – o un profilo storico – della lingua italiana negli ultimi centocinquanta anni circa può essere immaginata, disegnata, ricostruita da angoli prospettici diversi, a seconda delle diverse tipologie di obiettivi che ci si propone di raggiungere nel farlo. Tuttavia, una qualunque ipotesi di scrivere una sorta di riepilogo diacronico dei fatti linguistici dell’Italia unita non potrebbe non tener conto di quel particolare apporto che alla lingua italiana è derivato dallo specifico dei dialetti regionali d’Italia e, ancor più, dallo specifico di quelle produzioni letterarie che di lingue regionali hanno nutrito il loro codice genetico. In altre parole, ricostruire la storia linguistica dell’Italia del Novecento, nel preciso ambito della lingua letteraria, non sarebbe possibile senza passare per quell’apporto essenziale che le hanno dato opere e autori di quella regione d’Italia che, per numero e qualità di contributi letterari, si è distinta ieri come oggi: la Sicilia. Ciò significa che l’obiettivo esplicito di questo convegno consiste nel cercare di tracciare un essenziale profilo storico dello specifico linguistico della letteratura italiana còlto attraverso l’analisi della produzione di autori siciliani che da Verga arrivano alle più recenti produzioni di Camilleri, passando obbligatoriamente per quelle essenziali esperienze di scrittura costituite dalla produzione di Pirandello, di Borgese, di Brancati, di Sciascia, di Bufalino, Consolo e di tanti altri nomi che verranno  qui segnalati da ognuno di voi, senza dimenticare apporti specifici attraverso esperienze più isolate come quelle poetiche di Buttitta o di Piccolo.

Dunque la rassegna linguistica di una letteratura, in qualche modo, circoscritta ad una geografia - reale o immaginaria – il cui reticolato include nomi come Aci Trezza e Aci Castello non meno che Mineo o Richieri, passando per Racalmuto e per la Vigàta o Montelusa del commissario Montalbano: luoghi in cui i personaggi che li popolano parlano una lingua non sempre e non solo identificabile come “italiano”, specie poi se a questo sostantivo si attribuiscono le caratteristiche “standard” di una lingua ufficiale e nazionale, anche riconoscendovi le varietà dovute alle diverse declinazioni regionali. E tuttavia, che si parli di Richieri o di Vigata il fatto è che si sta parlando comunque di una questione di lingua, principalmente per la semplice ragione che nessun fatto letterario esiste se non in funzione della propria essenza, consistenza ed identità esclusivamente linguistiche. Basterebbe, per dare un saggio di ciò che si intende qui sostenere, cogliere Pirandello intento al proprio tavolo di lavoro: intento, dico, a redigere minuziosamente quelli che lui stesso ebbe occasione di definire “cartolari”, ovvero quadernetti di appunti sparsi, taccuini. E allora si scoprirebbe, in più di una circostanza, Pirandello che annota con cura quasi maniacale una serie di termini che insospettiscono l’improvvisato lettore per il loro ordine quasi perfettamente alfabetico: “Giuggiolino, Giùggiolo, Giulebbare, Giunta, Gromma, Gotto, Governare”, oppure “Sagrato, Rinchioccito, Ripesco, Scappuccio, Santussa” [1]. E infatti, sono tutti termini rigorosamente verificati sul dizionario Tommaseo-Bellini (principe strumento di lavoro non solo nell’officina pirandelliana ma anche in quella assai più fastosa del suo collega di Pescara, intendo d’Annunzio), e poi puntualmente riutilizzati in contesti narrativi successivi. E spesso, nella pagina pirandelliana, accade proprio che una frase giri intorno ad una parola del dizionario e che, di frequente, le varianti redazionali dell’opera inseguano più il ritmo dettato da un termine che non – come spesso si è supposto in passato – l’esigenza di una più profonda adesione mimetica alla realtà del parlato. Fa un certo effetto scoprire che, ad esempio, Pirandello annota, tra il 1898 ed il 1902, in quel che è detto ora il “Taccuino di Harvard”, ancora una volta in ordine alfabetico, come da spunta nel vocabolario, termini come “Bada”, ed esattamente nella locuzione di “Stare alla bada”, o “Balla” nella locuzione di “Balla a balla”, per poi riutilizzarli a distanza di molti anni, il primo nel Fu Mattia Pascal e il secondo nelle Novelle per un anno, esattamente nel testo della Maestrina Boccarmé, a testimoniare, se ce ne fosse ormai bisogno, un uso del vocabolario italiano tutt’altro che episodico ed occasionale, piuttosto invece strategico e sistematico [2].

Questo per indicare, solo rapidamente e senza soffermarsi su quella che, pure, potrebbe e dovrebbe essere occasione di analisi filologica maggiormente profonda, quanto la consistenza della scrittura che per decenni abbiamo tutti considerato per antonomasia “antiletteraria” sia invece “letterarissima” nel senso più fabrile e officinale del termine, di una letteratura che, prima d’ogni altra cosa, è misura e senso e lavorìo linguistico, al limite terminologico, lessicale e, dove occorra, strategica tessitura sintattica: in questo senso, producendo un interessantissimo interscambio – che sarà vostro compito individuare ed esaminare – tra lingua standard e varianti regionali, in una progressiva storia di arricchimento che ha giovato non solo alla letteratura ma anche ai suoi lettori.

Al polo opposto di quella che si è detto essere la parabola linguistica che qui si intende analizzare, dal 1861 al 2006, vi è uno scrittore assai controverso come Andrea Camilleri al quale va riconosciuto almeno il merito o il coraggio di aver posto ogni parlante italiano (nel senso della lingua standard, se una ne esiste) nelle condizioni di incrementare le proprie conoscenze lessicali con un serbatoio di parole provenienti dalla lingua regionale. La qual cosa è stata fatta, ad avviso di chi scrive ora, non senza una strategia inferenziale tesa a mettere ogni potenziale lettore nella condizione, se non di comprendere immediatamente il significato di ogni termine dialettale inserito nel tessuto linguistico nazionale, almeno di dedurne l’area semantica di riferimento. E questo, è avvenuto soprattutto attraverso alcuni ‘sistemi’ o ‘strategie’ di scrittura abbastanza ben identificabili. Ne indico solo tre per evidente necessità di sintesi: 1) inferenza diretta per “opposizione”; 2) inferenza indiretta situazionale; 3) inferenza indiretta funzionale. Mi limiterò, in questo caso, a proporre un solo esempio per ognuna delle strategie inferenziali ipotizzate.

La prima consiste nel mettere il lettore in condizioni di dedurre direttamente il senso di un termine dialettale attraverso una semplice operazione di opposizione semantica: all’interno di una sequenza linguistica “italiana”, il termine dialettale posto accanto al suo opposto semantico italiano, consente facilmente al lettore di comprendere immediatamente il significato della parola. Nell’Odore della notte, ad esempio, si legge: «…oggi come oggi nisciuna pausa può essere concessa in questa sempre più delirante corsa che si nutre di verbi all’infinito: nascere, mangiare, studiare, scopare, produrre, zappingare, accattare, vendere, cacare e morire». Tutti verbi italiani all’infinito, tranne quell’isolato “accattare” che non sta per, l’italiano, appunto, “raccattare elemosinando” ma per il siciliano “comprare”: desumibile, ciò, dalla contiguità con l’altro verbo, suo opposto sul piano del significato, “vendere”.

La seconda strategia di scrittura, cui sembra frequentemente ricorrere Camilleri per assicurare al lettore non siciliano la comprensione di quel misto di italiano nazionale e regionale che è presente in quasi tutti i suoi romanzi, è quella della inferenza indiretta situazionale ovvero quella in base alla quale il lettore comprende il significato di una parola siciliana dall’interpretazione, per via indiretta, della situazione generale descritta. Si legge, ad esempio, in apertura del Ladro di merendine: «Mentre beveva, taliò fora dalla finestra spalancata». A chi non sappia che il verbo “taliare” in siciliano significa “guardare”, non sarà difficile inferirne il significato a partire dall’analisi della situazione: Montalbano si trova, infatti, davanti ad una finestra spalancata e “talìa” fuori da essa, scorgendo la luce dell’alba. L’inferenza, per quanto indiretta, non ammette equivoci: “taliare  significa “guardare” (e qui si potrebbe annotare, a margine, che la voce verbale “taliare”, al passato remoto nel siciliano parlato autentico, risulta “taliò” solo in alcune zone della Sicilia, mentre in altre è sostituito da “taliau”. Ma questo è un capitolo che necessiterebbe di un’analisi linguistica a parte e, per il momento, esula dall’assunto principale di questa breve premessa).

L’ultimo dei tre sistemi inferenziali qui suggeriti, ancora indiretto, è relativo alle funzioni linguistiche svolte da una precisa espressione. Nel Birraio di Preston, si legge:«’Mi permette una parola?’ – spiò da una poltrona dove stava a leggersi il giornale il preside Antonio Cozzo». Il punto di domanda, che inequivocabilmente assegna all’espressione “Mi permette una parola” una funzione interrogativa, guida velocemente il lettore ad interpretare il verbo “spiare” (ancora una volta declinato secondo tradizioni dialettali di specifiche zone della Sicilia, al passato remoto “spiò” in alternativa all’altra forma attestata di “spiau”) non nella direzione semantica dell’italiano standard (secondo cui significherebbe “guardare di soppiatto senza essere visti”) ma in quella indirettamente recuperata del dialetto siciliano secondo cui il significato del verbo è “domandare”.

Sono, quelli sopra indicati, solo alcuni spunti di riflessione còlti volutamente solo all’inizio ed alla fine della parabola immaginaria della lingua italiana contagiata dai codici dialettali nella letteratura siciliana, che si è ipotizzata in apertura: spunti di un dilettante che spera, così, di indicare una direzione di ricerca che solo il contributo professionale e scientifico dei relatori di questo convegno saprà, tra oggi e domani, modificare in un approdo analitico alla storia della lingua letteraria italiana così come si è venuta costituendo grazie all’apporto dei grandi scrittori del secolo appena passato.

Angelo Piero Cappello



[1] L’elenco è tratto dal Taccuino di Harvard, a c. di  O. Frau e C. Gragnani, Milano, Mondadori, 2002, pp. 40-41 e 71-73.

[2] Ibid., pp. 14-15.