Scrivere, sceneggiare. Testimonianza per Fabbri
Tutta
la storia cominciò nel '42. Io avevo partecipato ai ludi juveniles della
cultura, e avevo vinto la selezione regionale per il teatro, e poi andammo a
fare una sorta di finale a Firenze dove io presentai un repertorio ideale per
il teatro italiano, dove in realtà c'erano quattro o cinque nomi, il primo
nome era all'epoca Ugo Betti. C'era stata la famosa Frana
allo scalo nord. Il secondo nome era Siro Angeli, che aveva fatto
rappresentare Assurdo. E poi c'era
Diego Fabbri che aveva appena pubblicato, ed io l'avevo letto, Paludi; e poi c'era Turi Vasile. Devo dire che in quella occasione
Turi Vasile presiedeva il convegno, ma Diego Fabbri non c'era, e così non lo
conobbi. Poi ci furono diverse vicende della mia vita privata per cui andai a
finire nel '49 a Roma, vinsi il concorso all'Accademia Nazionale d'Arte
Drammatica come allievo regista e il mio maestro di regia diventò Orazio
Costa.
Orazio Costa aveva rapporti molto stretti, culturalmente, con Diego Fabbri.
Tutti e due erano dei cattolici, ma dei cattolici, diciamo, a modo loro. E
questo va precisato subito. Però nel '51, o nel '50, io venni cacciato via
dall'Accademia e allora mi trovai nella necessità di cercare lavoro. Un amico
siciliano scrisse all'onorevole Andreotti, dicendo: «C'ho quest'amico così e
così, in questa condizione di non lavoro...». Andreotti mi rispose subito -
è una lettera che tuttora conservo - facendomi i suoi auguri e presentandomi
a una società di produzione che si chiamava «Costellazione», ed era fatta
da Diego Fabbri e da Turi Vasile. Mi diedero del lavoro immediatamente, cioè,
a dire, mi fecero fare, credo, il terzo aiuto regista, quello che andava a
comprare le sigarette a Luigi Zampa, che in quell'epoca stava facendo un
bellissimo film, che era Processo alla
città.
Fu una conoscenza del tutto marginale: ancora nessuna amicizia con Diego
Fabbri... Ci sfioravamo, ma non c'eravamo mai parlati, diciamo, a lungo. E mi
capitò di dare il concorso alla Rai, e quello fu uno degli ultimi concorsi,
dove entrarono tutti quelli che poi divennero i dirigenti della Rai. Mario
Apollonio, che presiedeva la Commissione, alla fine del mio esame si congratulò
con me e mi disse: «Ci rivediamo a Milano per continuare questa discussione».
Neanche a farlo apposta, dopo circa una settimana, mi telefonò Orazio Costa
da Milano, dicendomi: «Guarda, Andrea, io non vado d'accordo con l'aiuto
regista che Paolo Grassi mi ha dato». Stava facendo a Milano Processo a Gesù di Diego Fabbri, l'edizione del Piccolo di Milano.
«Puoi venire a darmi una mano per gli ultimi giorni?». Io gli dissi: «Guardi,
dottore, che io non so se posso assumere un impegno…» e gli raccontai
questa storia dell'esame, che lui ignorava, della frase di Mario Apollonio.
Solo che passarono i giorni e io non venni chiamato... Chiamarono tutti ,
salvo me. Allora io telefonai a Costa e dissi: «Guardi, non mi hanno preso,
posso venire». E così ho fatto per gli ultimi dieci giorni da aiuto a Costa
per la messa in scena, splendida, di Processo
a Gesù.
Quella fu l'occasione per cui cominciammo a frequentarci. Il terzo giorno
Orazio raccontò a Diego, mentre eravamo a cena assieme, questa storia della
Rai, e lui disse: «Ma non c'è problema, chiediamo a Pier Emilio Gennarini -
che era il capo corso - che cosa è avvenuto» e lo invitò a cena per la sera
seguente. Gennarini venne e, con molta sincerità, mi disse che le note
politiche che c'erano nei miei riguardi erano state così negative che proprio
non se l'erano sentita di prendermi. Aggiunse che però io non facessi uso di
questa censura politica nei miei riguardi. Io ricordo lo stupore di Orazio
Costa che, voltatosi verso di me, mi disse: «Ma tu sei comunista?». «Sì».
Erano tre anni che vivevamo assieme, praticamente, e non c'era stato motivo di
discussione politica. Da quel momento nacque una simpatia di Diego nei miei
riguardi, notevolissima. E quindi cominciammo a frequentarci, a vederci, anche
dopo che lo spettacolo andò in scena. Lui aveva dei progetti teatrali e
voleva in qualche modo coinvolgermi. Cosa che io avrei fatto volentieri: avere
questo coinvolgimento di Diego che era, umanamente, un uomo straordinario, di
una generosità grandissima… Perché uno si immaginava un cattolico di un
certo tipo. Ma lui era un uomo apertissimo, un uomo di una libertà mentale
assoluta. E quando Processo a Gesù
andò in tournée, ci divertimmo.
Lui allora dirigeva La Fiera Letteraria.
Fingemmo un giornale, ci inventammo un giornale che stampammo nella tipografia
dove si stampava La Fiera Letteraria
e che scrivemmo assieme. Erano i commenti che venivano fatti a Processo
a Gesù. Questa fu la prima collaborazione che avemmo. Poi mi capitò di
mettere in scena il suo Processo di
famiglia, che lui venne a vedere. E siccome io avevo cambiato qualche
cosa, mi preoccupai di giustificare questo cambiamento di cui lui non aveva
fatto cenno con me dopo lo spettacolo. E lui disse: «Ma scusa, ti vuoi
giustificare?». Io dissi: «Beh, sì, volevo spiegarti che...». «Ma non c'è
niente da spiegare, lo spettacolo funzionava. Tu pensi che un autore
drammatico non debba prevedere che la sua opera possa subire dei cambi di
battuta?». E questo fu un grosso insegnamento per me. Avevo avuto a che fare
con altri autori che se gli spostavi una virgola succedeva la fine del mondo.
Qui gli avevo spostato delle scene... E non solo non era caduto il mondo, ma
addirittura la cosa era apparsa a lui naturalissima, una cosa da fare se alla
base c'era un'idea critica, un confronto critico.
Sempre parlando di teatro devo dire che quando lui tenne per due o tre anni
una compagnia al Teatro della Cometa mi chiamò a fare la regia di una novità.
Feci anche almeno due regie di traduzioni e adattamenti suoi. Una, per
esempio, bellissima, che facemmo sul suo adattamento del Re Cervo di Carlo Gozzi lo facemmo all'Olimpico a Vicenza, e
un'altra è stata la sua traduzione e adattamento de La Guerra di Troia non si farà di Giraudoux che facemmo all'Isola
Verde, all'Isola di San Giorgio a Venezia, che poi rifacemmo anche in
televisione. Poi, sempre come fatto teatrale, un anno prima che morisse ho
messo in scena Paludi che era stato
il primo lavoro che avevo letto di Diego Fabbri. Lo feci al Teatro delle Arti
a Roma e poi in tournée con una sorta di grossa emozione anche perché Diego
aveva riscritto quel testo e quindi il confronto tra quel testo scritto molto
da giovane e quello che aveva modificato, era il percorso umano di una
persona. Era impressionante, non è che cambiassero le idee di fondo, la
sostanza, ma c'era come una maggiore pietà nei personaggi. Non so se qualcuno
l'ha rilevato, se ha collazionato questi due testi, forse meriterebbe che
questo lavoretto venisse fatto.
Poi è stato anche lungo il lavoro in televisione come delegato alla
produzione del Maigret che lui sceneggiava. Certo il lavoro su Maigret è
stato importante, ma devo dire che per me personalmente è stato anche
importante fare il produttore per la Rai di uno sceneggiato originale di Diego
Fabbri che non ebbe molta fortuna, forse perché le tematiche che erano in
quel momento tirate in ballo da Diego non erano tanto accettabili.
S'intitolava Questi nostri figli e lo girammo a Bologna, lo realizzammo in parte
in studio e in parte a Bologna e lì lavorammo molto vicini. Ma questa
collaborazione televisiva era cominciata con Maigret, col Simenon.
Devo dire che l'idea nacque all'interno di un discorso fra noi due a proposito
di Simenon. «Che ne diresti se proponessimo alla televisione una serie?». E
naturalmente a me la cosa interessò enormemente e devo dire che interessò
immediatamente tutti i dirigenti della televisione. Fabbri lavorava con
Romildo Craveri, però in realtà era lui che principalmente sceneggiava e
aveva questo sistema straordinario, comprava la cosa numero uno che dovevamo,
che lui doveva sceneggiare. Comprava il volume economico, tre o quattro copie,
e le staccava, le faceva pagina a pagina e poi faceva dei mucchietti, seguiva
logicamente l'episodio all'interno e l'assemblava e ne faceva tanti
mucchietti, questo episodio A, episodio B, C e D ... poi come in un gioco di
carte, e non sto scherzando, cominciava a spostarle ragionandoci sopra e poi
scriveva dei foglietti che erano connettivi fra l'uno e l'altro di questi e io
vedevo destrutturare letteralmente un racconto poliziesco e rimontarlo. Io
accanto a lui ero come nella bottega dell'orologiaio e vedevo un orologiaio
bravissimo smontare un orologio e ricostruirlo con gli stessi elementi ma
dandogli un'altra forma, da rotondo facendolo diventare quadrato.
Ecco: questa è stata la lezione più grossa per me, una lezione di
sceneggiatura. Le sceneggiature che io ho fatto in seguito obbediscono a certe
logiche di sceneggiatura insegnatemi non volontariamente, perché non c'era
scuola, - dirò meglio: rubate da me a Diego Fabbri - e l'altra lezione è il
meccanismo del giallo. Perché veramente lì ho imparato l'arte e l'ho messa
da parte, e l'ho tirata fuori nel momento nel quale è venuto Montalbano, lì
ho imparato proprio praticamente che cos'è un giallo «all'europea», come lo
si può strutturare, destrutturare, rifare, riscrivere. Questo è il grande
debito, oltre che di momentanea sopravvivenza quando ero senza lavoro, ma è
il mio debito culturale, che può anche essere una responsabilità, diciamo,
che Diego ha…. Ma, insomma, io gliela devo tutta e lo riconosco con assoluta
tranquillità.
Andrea Camilleri
(Testo dell'intervento filmato al convegno Diego Fabbri e il teatro delle idee. Uno sguardo sul
Novecento e una domanda per il futuro, Forlì 29/10/2003; pubblicato su La Stampa,
29 ottobre
2003) |