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Don Vito

Le relazioni segrete tra Stato e mafia nel racconto di un testimone d’eccezione



Autore Massimo Ciancimino, Francesco La Licata
Contributi Giovanni Ciancimino
Prezzo € 18,00
Pagine 320
Data di pubblicazione 2010
Editore Feltrinelli
Collana Serie Bianca


IN BREVE
Dal sacco di Palermo agli investimenti su Milano 2, dal peso decisivo dello Ior alle tangenti, dall’amicizia con Provenzano alla trattativa con Riina per fermare le stragi del ’92, dal ruolo dei carabinieri alla misteriosa identità del signor Franco, la vera storia di Vito Ciancimino, il “sindaco dei corleonesi”: quarant’anni di abbracci mortali tra mafia, politica, affari e servizi segreti.

IL LIBRO
Questo libro è un viaggio senza ritorno nei gironi infernali della storia italiana più recente. Racconta infatti quarant’anni di relazioni segrete, occulte e inconfessabili, tra politica e criminalità mafiosa, tra Stato e Cosa nostra. Perno della narrazione è la vicenda di Vito Ciancimino, “don Vito da Corleone”, uno dei protagonisti assoluti della vita pubblica siciliana e nazionale del secondo dopoguerra, personaggio discutibile e discusso, amico personale di Bernardo Provenzano, già potentissimo assessore ai Lavori pubblici di Palermo, per una breve stagione sindaco della città, per decenni snodo cruciale di tutte le trame nascoste a cavallo tra mafia, istituzioni, affari e servizi segreti.
A squarciare il velo sui misteri di “don Vito” è oggi un testimone d’eccezione: Massimo, il penultimo dei suoi cinque figli, quello che per anni gli è stato più vicino e lo ha accompagnato attraverso innumerevoli traversie e situazioni pericolose. Il suo racconto – che il libro riporta per la prima volta in presa diretta, senza mediazioni, arricchito dalla riproduzione di documenti originali e fotografie – riscrive pagine fondamentali della nostra storia: il “sacco di Palermo”, la nascita di Milano 2, Calvi e lo Ior, Salvo Lima e la corrente andreottiana in Sicilia, le stragi del ’92, la “Trattativa” tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, la cattura di Totò Riina, le protezioni godute da Provenzano, la fondazione di Forza Italia e il ruolo di Marcello Dell’Utri, la perenne e inquietante presenza dei servizi segreti in ogni passaggio importante della storia del nostro paese. Attualmente la testimonianza di Massimo Ciancimino è vagliata con la massima attenzione da cinque Procure italiane e non è possibile anticipare sentenze. Non c’è dubbio però che i fatti e i misfatti qui raccontati arrivino dritti al “cuore marcio” del nostro Stato, accompagnandoci in una vera e propria epopea politico-criminale che per troppo tempo le ipocrisie e le compromissioni hanno mantenuto nascosta.





Il video della presentazione di Andrea Camilleri (Roma, La Feltrinelli - Libri e musica, Galleria Colonna 31/35, 26 maggio 2010)



Camilleri: Provenzano, Dell’Utri e la vera trattativa

La trattativa Stato-mafia ci fu, ma non risale all’epoca del “papello” con cui Totò Riina dettò a Vito Ciancimino le condizioni di Cosa Nostra, nell’intervallo tra le due stragi del ’92 costate la vita a Falcone e Borsellino. Al contrario, il “papello” servì a mettere fuori gioco lo stragista Riina per poter poi avviare, solo dopo il suo arresto, la trattativa vera: fra Provenzano e la politica, una volta uscita finalmente dal terremoto di Tangentopoli che rendeva instabili i governi e irrealizzabili le leggi a favore della mafia. Lo sostiene il giallista Andrea Camilleri, presentando “Don Vito”, il libro-inchiesta su Vito Ciancimino scritto dal figlio, Massimo Ciancimino, col giornalista Francesco La Licata.
«“Don Vito” è un libro prezioso, che raccoglie le testimonianze di prima mano di Massimo Ciancimino su suo padre Vito, che fu uomo politico della Dc siciliana, sindaco di Palermo ed ebbe rapporti con la mafia corleonese, venne arrestato, processato e condannato», esordisce Camilleri, nella video-presentazione del volume sul sito dell’editore, Feltrinelli. «Si è scritto in tanti modi degli stretti legami che c’erano tra “don Vito” e Bernardo Provenzano», continua Camilleri, rivelando che «il clou del libro è la famosa “trattativa”, quella di cui si parla tanto, che ha origine nel ’92, a cavallo delle due stragi di Capaci e via D’Amelio, quindi in un momento di una precisione millimetrica per aprire una possibile trattativa tra Stato e mafia».
Camilleri esprime un «dubbio lessicale» sul termine “trattativa”, preferendo “approccio” o “contatto”. Il colonnello Mario Mori, del Reparto Operativo Speciale dei carabinieri, secondo Camilleri potè cercare un contatto con Cosa Nostra attraverso Ciancimino, ma non aprire una vera trattativa. Il problema? Mancanza di credenziali: mentre Provenzano e Ciancimino erano perfettamente rappresentativi, il colonnello Mori (della cui azione erano al corrente i servizi segreti) non poteva rappresentare che se stesso – né l’Arma dei carabinieri, né la Procura di Palermo. «Ciancimino ha bisogno della benevolenza dell’Arma per uscir fuori in qualche modo dai suoi guai giudiziari e il colonnello ha l’interesse di conoscere le intenzioni della parte avversa», ragiona Camilleri. «Ma Provenzano che interesse ha?».
Lo scrittore si dice convinto che Provenzano nel ’92 stesse «giocando una carta estremamente abile: quella di far uscire allo scoperto Totò Riina. Cioè a dire: portare Riina al famoso “papello”», nel quale il boss corleonese mise per iscritto richieste esplicite come lo stop al carcere duro, l’abolizione della legge sui pentiti e la fine della confisca dei beni mafiosi. «Il “papello” che Riina scrive – aggiunge Camilleri – è assolutamente delirante e impresentabile, anche dopo le correzioni che vi apporta Vito Ciancimino. Quella carta sancisce l’impossibilità di mantenere libero Riina, perché la sua presenza impedisce ogni ragionevole inizio di trattativa», sostiene lo scrittore: «Credo che sia questo lo scopo di Bernardo Provenzano».
Nel libro “Il codice Provenzano” (Laterza) il magistrato Michele Prestipino ricorda «un episodio perlomeno singolare», annota Camilleri. «Bernardo Provenzano, prima delle stragi, viene messo al corrente delle intenzioni stragistiche di Riina. In qualche modo, se ne spaventa. E allora – cosa inaudita – fa un sondaggio». Sempre secondo Prestipino, Provenzano cercò di capire come sarebbe stato accolto l’assassinio di Falcone e Borsellino: il boss «incaricò Vito Ciancimino» di sondare «la politica», mentre ad altri complici chiese di sondare preventivamente le reazioni degli industriali e della massoneria.
«Sono dichiarazioni del pentito Giuffrè in aula», precisa Camilleri, che aggiunge: «Giuffrè dice di non conoscere il risultato di questo sondaggio, ma afferma di essere più che certo che gruppi industriali del nord si mostrarono favorevoli all’eliminazione di Falcone e Borsellino perché, essendo magistrati particolarmente mirati al rapporto mafia-appalti, danneggiavano gravemente gli interessi di questi industriali. Va da sé – annota Camilleri – che sarebbe perlomeno delizioso conoscere i nomi di questi industriali del nord: credo che ci leverebbero qualche curiosità».
Totalmente dissociato Provenzano dallo stragismo di Riina, secondo Camilleri «la vera trattativa comincia con l’eliminazione di due personaggi: il primo è Vito Ciancimino, ormai considerato da rottamare, e l’altro è Totò Riina». Ciancimino viene rimandato in galera nel dicembre, Riina nel gennaio dell’anno seguente. «In due mesi sono eliminati, diciamo così, gli ostacoli. E inizia la vera trattativa». Solo che l’attuale testimone principe, Massimo Ciancimino, da quel momento è fuori: perché si deve dedicare a suo padre, che è in carcere. E suo padre stesso è tagliato fuori dalla trattativa. «Gli arriveranno degli echi attraverso Bernardo Provenzano, ma sono echi ormai rarefatti: cioè, non c’è più la presenza di Vito Ciancimino al tavolo delle trattative. Ed è lì che, secondo me, comincia la vera trattativa», insiste Camilleri: da una parte siede «l’immarcescibile Provenzano», dietro la tenda c’è sempre il “signor Franco” (i servizi segreti) e dall’altra parte «ci sono volti nuovi della politica».
Sembrerebbe un regresso, invece è «un enorme salto di qualità», dice Camilleri. «Perché se è vero che Mori non rappresentava nulla, i politici che ora sono al tavolo della trattativa rappresentano molto: attraverso di loro si possono avere delle garanzie che alcune richieste possano essere accolte». Le prime richieste, quelle avanzate da Riina, ammesso che potessero essere accolte, come avrebbero potuto essere attuate? I governi si succedevano uno appresso all’altro: chi poteva garantire la continuità di quelle richieste? Bisognava fare delle leggi eccezionali che avrebbero suscitato un pandemonio, e quindi erano di per sé irrealizzabili. «Mentre con i politici, una legge – opportunamente camuffata – può essere una legge parlamentare e arrivare quasi subito».
Le ultime tracce che si hanno della trattativa, continua Camilleri, risalgono al momento nel quale Vito Ciancimino, che tanto insiste perché sopravvenga «un’amnistia o qualcosa di simile» desiderando finire i suoi giorni da uomo libero, riceve un “pizzino” da Bernardo Provenzano: «Carissimo Ingegnere – gli scrive il boss – ho letto quello che mi ha dato “M.” ma, a scanso di equivoci, ho riferito che ne parlerò quando ci sarà possibile vederci. Mi è stato detto dal nostro “Sen.” e dal nuovo “Pres.” che spingeranno la nuova soluzione per la sua sofferenza. Appena ho notizie ve le farò avere». Questo, nell’estate del 2001.
Piccola decrittazione fornita dai due autori del libro: l’“Ingegnere” è Vito Ciancimino perché così lo chiamava sempre Provenzano; “M.” è Massimo Ciancimino; il “Sen.”, continua Camilleri, sarebbe, come testimoniato dallo stesso Massimo Ciancimino, nientemeno che il senatore Marcello Dell’Utri, e la “soluzione per la sua sofferenza” sarebbe la promulgazione di un’amnistia o di qualcosa di simile. «E gli autori si fermano qui: non decrittano chi sarebbe il “nuovo Pres.”, che Provenzano rispettosamente – come del resto fa con il “Sen.” – scrive con le lettere maiuscole. Quel “Pres.” nuovo, con il “Sen.”, si sta adoperando a favore di Ciancimino. E se non l’hanno fatto gli autori, quel nome – conclude Camilleri, con una battuta – perché lo devo fare io?».
«Il pensiero di Camilleri coincide perfettamente con quello di mio padre», conferma Massimo Ciancimino, rivelando che, secondo suo padre, la trattativa iniziò «esattamente 19 giorni dopo l’arresto di Riina», ovvero dopo quei 19 giorni decisivi «che danno il tempo ai familiari di Riina di svuotare il covo e levare tutta la documentazione». La si fosse trovata, quella documentazione, la trattativa sarebbe saltata. Ciancimino, teste-chiave per la scoperta del “papello” vergato da Riina, si sente vittima di quello che definisce «un non-padre», che lo designò per la gestione del patrimonio di famiglia, incarico costatogli una condanna in primo grado per riciclaggio di denaro. La decisione di collaborare con la giustizia? «Per mia moglie e i miei figli, perché abbiano un padre degno di questo nome».
Ma perché, è la domanda che tutti gli rivolgono, Massimo Ciancimino si è deciso a parlare soltanto nel 2008? Risposta: l’erede di “Don Vito” era assediato da «anomalie, mancanze e pressione continua dei servizi segreti», unico condannato su 5 figli indagati – gli altri 4 ritenuti all’oscuro dell’attività del padre. «Perché sono stato chiamato in causa soltanto nel 2008? Grazie a un’intervista a “Panorama” e all’intervento di La Licata», dice Ciancimino: fu il giornalista a raccogliere le sue confidenze e le sue inquietudini, promettendogli di aiutarlo a far emergere la sua verità una volta terminati gli impegni processuali.
«Il dibattito politico oggi è: capire perché Ciancimino parla. Il silenzio totale avvolge chi non parla», commenta amaro il figlio di “Don Vito”. «C’è una rassegnazione totale verso quello che è ormai il sentimento e il comportamento tipico dell’omertà. Purtroppo – continua Massimo Ciancimino – il segnale che esce dal mio percorso è che quella della legalità è una strada tutta in salita, mentre quella dell’illegalità è una strada in discesa. Sono stato condannato in primo grado a 5 anni e 8 mesi per riciclaggio, ho pianto, però mi sono accorto che nonostante la condanna non succedeva niente, a Palermo: anzi venivo accolto come prima, tutte le porte si riaprivano. Da lì ho capito perché si festeggiano le condanne a 5 anni. Niente cambia. Cambia qualcosa soltanto quando rispondi ai magistrati».

(Libre, 12 luglio 2010)



Last modified Tuesday, December, 08, 2015