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Il gioco degli specchi



Autore Andrea Camilleri
Prezzo € 14,00
Pagine 255
Data di pubblicazione 1 giugno 2011
Editore Sellerio
Collana La memoria n.858
e-book € 9,99 (formato epub, protezione acs4)


'Na vota mi capitò di vidiri 'na pillicola di Orson Welles nella quali c'era 'na scena che si svolgiva dintra a 'na càmmara fatta tutti di specchi e uno non accapiva cchiù indove s'attrovava, pirdiva il senso dell'orientamento. Mi pari che con noi vonno fari lo stisso 'ntifico joco.

Cliccare qui o sulle immagini per vedere il brano de La signora di Shangai di Orson Welles citato nel libro

In un deposito qualcuno ha messo una bomba. Sembra una storia di pizzo non pagato ma il magazzino era vuoto da tempo; e dunque? L’interesse di Montalbano & C. si concentra sugli abitanti della casa a fianco, un condominio abitato anche da alcuni pregiudicati: Carlo Nicotra, che gestisce lo spaccio di droga per conto dei Sinagra, e Stefano Tallarita, attualmente in carcere, al servizio proprio di Nicotra. A duecento metri dalla casa di Marinella c’è un altro villino, quasi uguale a quello di Montalbano. Per anni vuoto, ora sono andati ad abitarci i Lombardo. Lui, Adriano, è rappresentante di computer e viaggia per tutta la Sicilia; la moglie, Liliana, una bella torinese di 35 anni, lavora in un negozio di Montelusa. Una mattina la signora Lombardo rimane in panne e niente di più naturale per il vicino di casa Salvo Montalbano darle un passaggio. Quello dell’auto sembra un semplice guasto, ma il meccanico nota che il motore è stato manomesso. Come sempre nei romanzi di Camilleri si incrociano due storie apparentemente distanti che però finiscono fatalmente per intersecarsi. E il legame tra le due vicende è il giovane Arturo Tallarita che fa il commesso proprio nello stesso negozio in cui lavora Liliana. La vicinanza delle due case a Marinella, l’avvenenza di Liliana, la vicenda un po' oscura dell’automobile manomessa, la presenza di una misteriosa Volvo nella trazzera: tutto concorre a far drizzare le antenne a Montalbano che per di più è molto attratto da Liliana che sembra fare proprio di tutto per imbastire una storia col commissario. In tutte queste vicende che vediamo scorrere apparentemente senza un delitto, senza un conflitto, c'è qualcosa che non funziona, una nota discordante. Come in un gioco di specchi qualcuno vuole confondere Montalbano: la bomba davanti al deposito, le lettere anonime che indirizzano verso piste improbabili, un proiettile nella carrozzeria dell’auto dello stesso commissario. Molto prima che si abbia sentore di un delitto, tutto sembra scorrere nel più normale dei modi: la vita al commissariato, il gioco del corteggiamento, le cene sulla verandina; è proprio in questa apparente normalità che sentiamo la tensione insinuarsi con una forza mai vista nei romanzi di Montalbano. Nel diciottesimo romanzo della serie troviamo un Pasquano messo a dura prova ma più disponibile che mai, un Ragonese infido armato di tutta la sua potenza mediatica, un Catarella emozionato ma pronto a gettarsi nel fuoco per il suo commissario. Livia fa capolino ma solo al telefono, è forse per questo che Adelina la fa da padrona.

Qualcuno vuole confondere il Commissario Montalbano. E lo fa con indizi sbagliati, donne avvenenti e un proiettile conficcato nella sua auto. “Il gioco degli specchi”, new entry nei nuovi intriganti capitoli del celebre investigatore siculo firmato Andrea Camilleri, è un vero e proprio labirinto di piste false e sbagliate in cui sarà facile perdersi persino per il protagonista. Con l’usuale ironia a cui l’autore ci ha ormai abituati, Montalbano si trova a dover risolvere una storia di mafia e “ammazzatine”. Qualcuno mette una bomba in un deposito ormai vuoto da molto tempo. Chi può essere il responsabile? Le tracce fanno pensare ai vicini di casa, dove vivono anche alcuni ex malviventi con la fedina penale decisamente sporca. Sempre lì vicino abita però una simpatica coppietta borghese: i Lombardo. Lui per lavoro è costretto a viaggiare per tutta l’isola, mentre lei lavora vicino a casa e casualmente finirà tra le braccia del nostro Commissario. Perché? E’ casuale che le si rompa la macchina e chieda aiuto a Montalbano? O qualcuno l’ha manomessa? Confuso dalla bellezza prorompente della ragazza, il commissario farà fatica a mantenere la sua lucidità e a far luce sul caso. Le due storie, quella della bomba e della ragazza, sembrano non c’entrare nulla, ma come nel più classico dei casi scritti di Montalbano, nulla accade per caso e i fili della storia si legano strettamente. Sullo sfondo la Sicilia magica di Vigata, quasi inabitata, distante e colorata in cui le battute e i pensieri che il lettore intercetta sono in siciliano, una lingua che Camilleri mischia con quella reale, rendendola ancora più divertente e più impregnata di realtà. Tra un arancino, una scollatura avvenente e un bagno nel suo mare, il Commissario riuscirà però a far fronte a questo intricato gioco di specchi in cui tutto si riflette e rimanda ad un’altra storia e poi ancora ad un’altra in un crescendo di tensione, di omicidi, lettere anonime e pathos. Poco c’entrano la mafia e il traffico di droga perché nei libri di Andrea Camilleri e in particolare in quest'ultimo noir sono il bene e il male, il lato oscuro e più impenetrabile di ognuno di noi, persino dei personaggi positivi, a far venire a galla il vero colpevole.


Il commissario Montalbano si tiene costantemente d’occhio. È frastornato dai trasognamenti. Ha paura di scivolare in un mondo che sempre più gli appare complice delle apparenze. Capisce che attorno a lui realtà e illusione si sfiorano e si confondono. Ha anche la sensazione di essere manovrato. Qualcuno, misterioso e inaccessibile, gioca ingegnosamente con lui. Cerca di confonderlo con il suo zelo epistolare e telefonico, con le sue anonime delazioni. Misura i passi del commissario. Li indirizza. Li spinge là dove è inutile che vadano, dove nulla sembra coincidere con nulla: lungo piste che, se sono giuste, si rendono irriconoscibili, si cancellano, o si labirintizzano. Montalbano ha una sua cultura cinematografica. E gli viene in mente il vecchio e glorioso film La signora di Shanghai di Orson Welles: il torbido noir, con tutti i suoi scombussolamenti, e tutti i suoi illusionismi barocchi. Montalbano entra nel film. E vede se stesso disorientato, dentro la scena finale, nella sala degli specchi di un padiglione del Luna Park. Il prodigio degli specchi altera lo spazio visibile. Crea nuove e precarie geometrie, dentro le quali i personaggi si moltiplicano, entrano ed escono, senza che se ne capisca la direzione; senza che possano essere sicuramente collocati, a destra, a sinistra, davanti, di dietro. Si spara, in questo labirinto di riflessi e rifrazioni. Ma non si capisce se i bersagli sono reali o esito di un gioco di specchi. Un villino, un giro di macchine, una storia d’amore un po’ scespiriana, due esplosioni apparentemente insensate, un proiettile senza tracciabile direzione, una coppia di cadaveri, bruciato uno, bestialmente violentato l’altro, entrano nella trama del romanzo. Vorticano tra i riflessi ingannevoli, le deformazioni e le mezze verità di metaforici specchi. La narrazione si concede focali corte, inquadrature insolite, avanzamenti lentissimi alternati a piani-sequenza vertiginosi. Scorre come un film. Turba e sconvolge, ma non si nega qualche respiro ludico, utile anch’esso alla soluzione del giallo. Persino Catarella ha il suo momento di gloria, alla fine. Viene nominato sul campo, con chisciottesca investitura, agente mandato in missione segreta.
Salvatore Silvano Nigro


Era da minimo du’ ure che sinni stava assittato, completamenti nudo come Dio l’aviva fatto, supra a’na speci di seggia che assimigliava perigliosamente a ’na seggia lettrica, ai polsi e alle cavigli gli avivano attaccato dei braccialetti di ferro dai quali si partivano ’na gran quantità di fili che annavano a finiri dintra a un armuàr di mitallo tutto dicorato all’esterno di quatranti, manometri, amperometri, barometri e di lucette virdi, russe, gialle e cilestri che s’addrumavano e s’astutavano ’n continuazioni. ’N testa aviva un casco priciso ’ntifico a quello che i parruccheri mettino alle signore per la permanenti, ma questo era collegato all’armuàr con un grosso cavo nìvuro dintra al quali c’erano arrutuliati cintinara di fili colorati.

Il profissori, cinquantino, capilli a caschetto con la riga ’n mezzo, varbetta caprigna, occhiali d’oro, cammisi bianco che più bianco non si può e ariata ’ntipatica e supponenti, gli aviva arrivolto a mitraglia un migliaro di dimanne tipo:
«Chi era Abramo Lincoln?».
«Chi scoprì l’America?».
«Se vede un bel sedere di donna a cosa pensa?».
«Nove per nove?».
«Tra un cono gelato e un pezzo di pane ammuffito che preferisce?».
«Quanti furono i sette re di Roma?».
«Tra un film comico e uno spettacolo pirotecnico quale sceglie?».
«Se un cane l’assale, lei scappa o gli ringhia contro?».
A un certo momento il profissori s’azzittì di colpo, fici ehm ehm con la gola, si livò un pilocco dalla manica del cammisi, taliò fisso a Montalbano, po’ sospirò, scotì amaramenti la testa, sospirò ancora, rifici ehm ehm, schiacciò un bottoni e automaticamenti i braccialetti si raprero, il casco si sollivò.
«La visita sarebbe terminata» dissi annanno ad assittarisi darrè alla scrivania che c’era in un angolo dello studio medico e accomenzanno a scriviri al computer.
Montalbano si susì addritta, pigliò ’n mano mutanne e pantaloni, ma ristò ’mparpagliato.
Che significava quel sarebbe? Era finuta o no, ’sta grannissima camurria di visita?
’Na simana avanti aviva arricivuto un avviso a firma del questori nel quali lo si ’nformava come e qualmenti, in base alle novi norme per il personali emanate di pirsona pirsonalmenti dal ministro, avrebbi dovuto sottoporsi a un controllo di sanità mintali presso la clinica Maria Vergine di Montelusa entro e non oltre deci jorni.
Com’è che un ministro po’ fari controllari la sanità mintali di un dipinnenti e un dipinnenti non pò fari controllari la sanità mentali del ministro?, si era spiato santianno. Aviva protistato col questori.
«Cosa vuole che le dica, Montalbano? Sono ordini dall’alto. I suoi colleghi si sono adeguati».
Adeguarsi era la parola d’ordini. Se non t’adeguavi, avrebbiro nisciuto ’na filama, che eri un pedofilo, un magnaccia, uno stupratore abituali di monache e ti avrebbiro costretto alle dimissioni.
«Perché non si riveste?» addimannò il profissori.
«Perché non...» farfugliò tintanno ’na spiegazioni e accomenzanno a rivistirsi. E ccà capitò l’incidenti. I pantaloni non gli trasivano cchiù. Erano sicuramenti quelli stissi che aviva quanno era arrivato, però si erano stringiuti. Per quanto tirasse narrè la panza, per quanto si ’nturciniasse tutto, non c’era verso, non gli trasivano. Come minimo, erano di tre taglie ’nfiriori alla sò. Nell’urtimo dispirato tintativo che fici, persi l’equilibrio, s’appuiò con una mano a un carrello con supra ’n apparecchio mistirioso e il carrello sinnì partì a razzo annanno a sbattiri contro la scrivania del profissori. Che satò all’aria scantato.
«Ma è impazzito?!».
«Non mi entrano i pa... i pantaloni» balbettò il commissario tintanno di giustificarisi.
Allura il profissori si susì arraggiato, pigliò i pantaloni per la cintura e glieli tirò su.
Trasero pirfettamenti.
Montalbano si sintì vrigognoso come un picciliddro dell’asilo che, annato al cesso, ha avuto bisogno della maestra per rivistirisi.
«Già nutrivo seri dubbi» fici il profissori riassittannosi e ripiglianno a scriviri «ma quest’ultimo episodio fuga ogni mia incertezza».
Che ’ntinniva diri?
«Si spieghi meglio».
«Cosa vuole che le spieghi? È tutto talmente chiaro! Io le domando a cosa pensa davanti a un bel sedere femminile e lei mi risponde che pensa ad Abramo Lincoln!».
Il commissario strammò.
«Io?! Io ho risposto così?».
«Vuole contestare la registrazione?».
A ’sto punto Montalbano ebbi un lampo e accapì. Era caduto in un trainello!
«È una congiura!» si misi a fari voci. «Voliti farimi passare per pazzo!». Non aviva finuto di gridari che la porta si spalancò e comparsero dù ’nfirmeri forzuti che l’aggramparo. Montalbano circò di libbirarisi santianno e mollanno càvuci a dritta e a manca e allura...

...e allura s’arrisbigliò. Tutto sudatizzo, il linzòlo tanto arravugliato torno torno al corpo che non potiva cataminarisi, pariva ’na mummia.
Quanno doppo contorsioni varie si libbirò, taliò il ralogio. Erano le sei.
Dalla finestra aperta trasiva aria càvuda di scirocco. Il pezzo di celo che vidiva dal letto era tutto cummigliato da ’na nuvolaglia lattiginosa. Addecidì di starisinni corcato ancora ’na decina di minuti.
No, il sogno che aviva appena finuto di fari era sbagliato. Lui non sarebbi mai nisciuto pazzo, ne era certo. Semmai si sarebbi a picca a picca rimbambito, scordannosi macari nomi e facci delle pirsone cchiù care, fino a sprufunnari in una speci di solitudini ’ncoscenti.
Ma che confortevoli pinseri che gli vinivano di primo matino! Reagì susennosi e precipitannosi ’n cucina a pripararisi il cafè.
Quanno fu pronto per nesciri, s’addunò ch’era troppo presto per annare in commissariato. Raprì la portafinestra della verandina, s’assittò fora, si fumò ’na sicaretta. Faciva veramente càvudo. Prifirì trasire dintra e mittirisi a tambasiare casa casa fino a quanno non si ficiro le otto.
Allura acchianò ’na machina, principiò a fari la brevi stratuzza che collegava Marinella alle provinciali. A ducento metri dal sò villino cinni stava ’n autro, squasi uguali, che doppo anni che era ristato sfitto, ora da cinco misi era bitato da ’na coppia senza figli, i signori Lombardo. Lui, Adriano, era un quarantacinchino àvuto, aliganti, che, a quanto gli aviva arrifirito Fazio, era il rapprisintanti unico per tutta l’isola di ’na grossa marca di computer epperciò viaggiava spisso. Possidiva ’na machina sportiva viloci. Sò mogliere Liliana, che aveva deci anni meno di lui, era ’na beddra bruna torinisa di tutto rispetto. Àvuta, gamme longhe e pirfette, doviva aviri praticato qualichi sport. E quanno uno la vidiva caminare taliannola di darrè certamenti, manco se era un pazzo furioso, pinsava ad Abramo Lincoln. Lei ’nveci aviva ’na machina giapponisa di cità.
Con Montalbano avivano sulo rapporti limitati al bongiorno e alla bonasira quanno che raramenti si ’ncontravano con le machine nella stratuzza e allura era ’na camurria di manopire pirchì dù auto ’n contemporanea non ci passavano.
Quella matina il commissario vitti, con la cuda dell’occhio, la machina della vicina col cofano isato e la signura calata a mità a taliarici dintra. Di certo c’era qualichi probrema. Dato che non aviva nisciuna prescia, squasi senza pinsarici sterzò a dritta, fici deci metri e s’attrovò davanti al cancello aperto del villino. Senza scinniri dalla machina spiò:
«Serve aiuto?».
La signora Liliana gli arrigalò un sorriso di gratitudini.
«Non parte!».
Montalbano scinnì, ma ristò fora dal cancello.
«Se deve venire in paese, le do un passaggio».
«Grazie, ho anche una certa urgenza. Ma non potrebbe dare un’occhiata al motore?».
«Signora, mi creda, non ci capisco assolutamente niente».
«Allora vengo con lei».
Chiuì il cofano, niscì dal cancello lassannolo aperto, acchianò ’na machina mentri che il commissario le tiniva lo sportello.
Partero. A malgrado dei finistrini calati, la machina si inchì del profumo di lei, dilicato e penetranti a un tempo.
«Il problema è che non conosco nessun meccanico. E mio marito tornerà solo tra quattro giorni».
«Potrebbe telefonargli». La signura parse non aviri sintuto il suggerimento.
«Non potrebbe indicarmene uno lei?».
«Certamente. Ma non ho con me il suo numero di telefono. Se vuole, l’accompagno da lui».
«Lei è veramente gentile».
Non parlaro cchiù per il rimanenti della strata. Montalbano non voliva passari per curioso, lei, da parti sò, era cortesi e affabili, ma si vidiva che non le piaciva dari confidenzia. La prisintò al meccanico, la signura tornò a ringraziarlo e accussì finì il brevi ’ncontro.

«Ci sono Augello e Fazio?».
«Dottori, in loco stanno».
«Mannali ’nni mia».
«E come fanno a viniri, dottori?» spiò ’mparpagliato Catarella.
«Che significa come fanno? Usanno le loro gamme!».
«Ma non stanno ccà, dottori, stanno in loco indov’è il loco!».
«E indov’è sto loco?».
«Aspittasse che talio».
Pigliò un pizzino, lo liggì.
«Ccà ci sta scrivuto via Pissaviacane vintotto».
«Sei certo che si chiama via Pissaviacane?».
«Come la morti, dottori».
Mai sintuta nominari.
«Chiamami a Fazio e passamelo in ufficio».
Squillò il tilefono.
«Fazio, che succedi?».
«Stamatina all’arba misiro ’na bumma davanti a un magazzino di via Pisacane. Nisciun firito, sulo un gran scanto e qualichi vitro rotto. Oltri alla saracinesca sfunnata, naturalmenti».
«Un magazzino di che?».
«Di nenti. Da squasi un anno è vacante».
«Ah. Il propietario?».
«L’ho ’nterrogato. Poi ci conto tutto, tra un’orata al massimo semo di ritorno».

(L'incipit qui riportato è stato pubblicato su Il Messaggero del 30.5.2011)



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