Il comico è un genere che ha disseminato i suoi frutti lungo tutto l'arco della storia della letteratura italiana. Alcuni tra i più autorevoli studiosi italiani danno vita tra le pagine di questo volume a un discorso polifonico sulla comicità. Da Boccaccio a Goldoni, da Porta a Verga, da Dossi a Belli, da Piradello a Palazzeschi, dal futurismo a Svevo. E poi ancora Petrolini, Zavattini, Gadda, Brancati, Scialoja, Celati e Camilleri. E il Novecento, ovviamente, il più ricco di magistrali esempi, poichè il comico in tutte le accezioni - dall'umorismo, al nonsense, al grottesco - ne ha segnato la svolta culturale e artistica, incarnando una delle tendenze più rappresentative della modernità.
Fra i saggi presenti:
Camilleri: il comico civico, ovvero la carnevalizzazione della storia in "piccole" storie, di Natale Tedesco;
Camilleri e il "rifocillo", ovvero cibo e risate nella narrativa di Andrea Camilleri, di Ornella Palumbo.
Pubblichiamo, per gentile concessione dell'Autrice, dei brani dal saggio di Ornella Palumbo.
Camilleri e il "rifocillo"
ovvero
Cibo e risate nella narrativa di Andrea Camilleri
Con rifocillo s’intende una piacevole e corroborante
pratica inaugurata da Walter Pedullà – e da lui stesso così denominata –
ai tempi in cui era Presidente del Teatro di Roma. La cosa aveva luogo
nell’ambito della Settimana da leggere, un’iniziativa in cui, una
volta l’anno e per sette giorni, Pedullà apriva il teatro Argentina a ogni
tipo di operazione letteraria, e artistica in genere: presentazione di libri,
proiezione di film, letture di testi fatte da attori o scrittori, dibattiti,
mostre, e via dicendo. In quella settimana la città, volendo, poteva fare il
pieno di letteratura e arte varia dall’alba alla notte: il teatro era a
disposizione, ininterrotta e gratuita dalle otto di mattina a mezzanotte. Per
premiare la costanza dei fedelissimi- tanti - intenzionati a onorare la maratona
culturale, Pedullà aveva escogitato il rifocillo:
verso le otto di sera faceva distribuire nel foyer robusti panini con
prosciutto, e bevande. Non una cena, non un aperitivo né tanto meno un happy
hour: ma, come la parola suggeriva, un sano ristoro che corroborasse il
fisico e il morale, permettendo all’ospite di arrivare in forze al termine
della serata. La carne e l’anima, insomma: un binomio sempre presente
all’attenzione critica di Walter Pedullà.
Ho ripensato
a questo termine rileggendo Camilleri e riflettendo sull’uso che egli fa –
letterariamente - del nutrimento, ossia del cibo
e non solo.
Prendiamo
Montalbano, per esempio. Il commissario ha un rapporto
carnale con le creature
della sua terra; esse sono, francescanamente, i suoi compagni di viaggio. Nello
stesso tempo però è uomo riflessivo, che necessita di pensatoi. Niente camere,
per carità, solo il respiro della natura. Per esempio dell’ulivo saraceno, su
cui medita inerpicato a cavacecio.
Oppure dello scoglio sotto il faro, di fronte all’adorato mare: per
concentrarsi, ha bisogno di una visuale all’infinito.
Il mare per lui è tutto: odori, colori,
sapori, la vita, insomma.
Da sempre
gli invidiamo quella sua tazza di caffè, di prima mattina, goduta sul terrazzo
della sua villetta a Marinella; da cui
poi scende per farsi – prima di cominciare la giornata di lavoro – una bella
nuotata liberatoria.
Lavoro? Vacanza? Ci coglie il
fatale dubbio che il piacere di vivere, masochisticamente relegato nelle
nostre schematizzazioni di massa a un mese l’anno su dodici,
sia un obbiettivo perseguibile, anzi facile. Un uovo di Colombo.
Il commissario ci testimonia che si può
fare della vita una vacanza -
una gioia - anche lavorando: purché si dia il giusto spazio ai piaceri
possibili.
Perciò
Montalbano giovane, nel suo primo posto
di lavoro che ha il torto di essere sperduto tra i monti e per di più di
chiamarsi Mascalippa, persegue il mare con ostinazione e
trepidazione da innamorato: accade in La prima indagine di Montalbano
(Milano, Mondadori 2004). Quando infine il commissario viene trasferito, il suo
ritrovarsi con le case e il porto di Vigàta possiede la fisicità di un
abbraccio.
[...]
Dandole i tempi e
i ritmi del racconto, Camilleri rimette insieme la realtà in modo
da renderla utile a un obbiettivo: la sdrammatizzazione
dell’irreversibile.
Si
è detto spesso di Camilleri che è un cantastorie. Anche Omero lo era. Anche
Ariosto. Grandi affabulatori, naturalmente inclini all’oralità del
raccontare, sono impegnati a muovere come
padreterni le fila di un loro cosmo, che è il loro ordine –letterario-
della realtà. Il gioco è lieve,
attento al pubblico, mai patetico, condotto con sapiente equilibrio
nell’orchestrazione teatrale della gesta e dei sentimenti, anche del dolore.
Nessuno di loro ignora il dolore di vivere. Solo che nella narrazione i
contrasti si compongono, acquistano un senso, e la narrazione si fa sacra perché è essa stessa vita, capace
di trasmettere ordine, valori e piaceri.
Così la
tragedia si trasforma, con l’intermediazione della pietà,
nella grande commedia umana, in
questo caso metaforicamente siciliana, rappresentata con un
occhio all’affresco e uno alle emozioni di chi legge. Forse che
Boccaccio ha fatto qualcosa di diverso?
Ritorniamo
al nostro rifocillo: un sano ristoro per arrivare fino alla fine. Cosa di
meglio per definire la narrativa di Camilleri?
Il cibo vi regna, realtà
saporosissima e insieme metafora, senso
stesso dell’operazione
narrativa: che è consolatoria, ma non nel
senso riduttivo del termine, perché è frutto
di un’intenzione che corrisponde
a una concezione del mondo. Il Camilleri che abita mentalmente e culturalmente
la stessa Sicilia drammatica, postunitaria, di Verga, Pirandello, Sciascia, è
partecipe di un comune impegno politico, civile, filosofico. Per il quale, forse
più vicino a Verga, ha scelto un modo espressivo mimetico, ha scelto di mettere
in scena, nella sua interezza, la Sicilia tout court, gioie e dolori,
passato e presente, tradizioni e tensioni, colori e odori: un amore, un corpo,
un modo di essere, una memoria,
una storia.
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