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Il trenino


Quando per caso ci capita di confrontare una nuova fotografia con una vecchia di qualche decennio di uno stesso paesaggio, luogo o persona, inevitabilmente s’innesca un circuito di memoria che tende a ripercorrere il passo del tempo che a quel paesaggio, luogo o persona ha fatto subire mutamenti che vanno dall’impercettibile al radicale. Ma dalla fotografia resterà sempre escluso (a meno che non si tratti di una ripresa cinematografica) il movimento che pure c’era in un paesaggio nell’attimo nel quale la foto venne scattata: il piegarsi appenna accennato dell’erba a un esile soffio di vento, una nuvola che veleggiava pigramente, un cane che scodinzolava annusando un cespuglio.
Sicchè, avendo nei giorni scorsi visto una foto della stazione ferroviaria principale del mio paese che risaliva al 1938, la memoria mi ha giocato uno scherzo e sui binari deserti ha immediatamente collocato una minuscola locomotiva col suo tender e col suo borioso pennacchio di fumo nero. E di subito tutto ha ripreso vita. Alla locomotiva si sono agganciati due piccoli vagoni passeggeri, ognuno dotato di un grazioso belvedere in ferro battuto dal quale accedevano i passeggeri, riparato dal sole o dalla pioggia da svolazzanti tendine arancioni. Così ho riformato nel mio ricordo la ferrovia a scartamento ridotto che faceva servizio tra Porto Empedocle, il mio paese, e Castelvetrano. Ogni vagone era diviso in due: la prima classe, con i sedili di velluto rosso, e la terza con i sedili di legno. La seconda classe, che esisteva in tutte le linee ferrorivarie dell’allora Regno d’Italia e che era la più usata dai viaggiatori, lì non era contemplata. Nel tratto Porto Empedocle-Castelvetrano o si era ricchi o si era poveri. E naturalmente nessuno volendo proclamarsi ricco, vuoi per modestia vuoi perché non si sa mai vuoi per l’agente delle tasse perennemente in agguato, la prima classe restava sempre deserta. Persino don Caluzzeddro Nicotra o il dottore Sommatino, indubbiamente gli uomini più ricchi del paese, pigliavano un biglietto di terza.
Ho detto che quella foto rappresentava la stazione principale. Perché a quel tempo stazioni, oltre alla principale, ce n’erano altre due: la stazione portuale, dove arrivavano i vagoni merci carichi di zolfo e di salgemma e la stazione Cannelle, posta al lato estremo della principale. La stazione portuale non era una vera e propria stazione, si trattava di un casotto di pietra posto al termine del binario che dalla principale portava all’inizio della banchina. Qui era un tumulto continuo, un vociare d’uomini e un nitrire dei cavalli che tiravano i carretti sopra il quale veniva caricato lo zolfo o il salgemma tolto dai vagoni. Quindi i carretti, portato il loro carico nei grandi depositi all’aperto che formavano vaste macchie gialle di zolfo o bianche di salgemma, tornavano al punto di partenza.
La stazione Cannelle serviva soprattutto agli empedoclini che dovevano salire sul trenino a scartamento ridotto che, prima di arrivare alla sua destinazione terminale, faceva una gran quantità di fermate, non solo nei paesi che attraversava, ma anche in aperta campagna, nel nulla assoluto, per ragioni perlopiù inspiegabili. O facilmente spiegabili: non essendo i vagoni dotati di wc, ogni tanto qualche passeggero, arrivato al limite della resistenza, si sporgeva dal finestrino e a gran voce implorava il macchinista di fermarsi un momento. Appena il treno con gran stridore di freni s’arrestava, gli altri passeggeri, affacciati ai finestrini, incitavano il poveretto, che si allontanava di corsa tra i campi, a far presto, perché loro non avevano tempo da perdere.
Quando avevo dodici anni, nel 1937, ho preso quel treno tutte le domeniche mattina dal quindici giugno al quindici settembre. Con una dozzina di compagni della mia età avevamo costituito una squadretta di calcio che si batteva regolarmente con una squadra di coetanei di Realmonte, un paese che distava otto chilometri dal mio. Sotto i pantaloncini indossavamo il costume da bagno. Perché il trenino, appena attaccava la salita di una collinetta a metà strada, principiava ad andare non a passo d’uomo, ma di lumaca, tanto che noi avevamo tutto il tempo di spogliarci, lasciare le nostre cose sulla verandina, precipitarci verso la vicina spiaggia, farci una nuotata e ripigliare il trenino quando si fermava, esausto, dopo essere disceso dalla collina. Cinque minuti sulla verandina bastavano ad asciugare il costume.
Il ricordo tangibile del trenino durò a lungo nelle nostre case sotto forma di certi curiosi pezzi di carbone, argentati, evidentemente non combustibili, che il macchinista scartava strada facendo e che noi raccoglievamo lungo i binari. Si chiamavano, va’ a sapere perché, “cacazzi” e con essi i nostri genitori costruivano le montagne e le grotte del Presepe. A quell’epoca, nel mio paese, si allestiva un solo albero di Natale: era quello che il tedesco ingegnere minerario Hoefer faceva a casa sua. Suo figlio, nostro compagno di scuola, c’invitava ad andarlo a vedere e noi, guardandolo, restavamo affascinati e perplessi.
Poi, verso il 1941 o giù di li, decisero d’ammodernare la linea rendendola più veloce. Il trenino scmparve da un giorno all’altro, inghiottito dal progresso, e il suo posto venne preso da una nuova, fiammante, lunga vettura automotrice detta “littorina” perché sul cofano anteriore recava il simbolo del fascismo, un fascio littorio appunto. L’automotrice era stata opportunamente adattata allo scartamento ridotto.
Al viaggio inaugurale parteciparono tutte le Autorità civili (in divisa fascista), quelle militari e quelle religiose. Per l’occasione, il viaggio iniziò dalla stazione Cannelle, riccamente addobbata con bandiere e festoni. Appena il capostazione alzò la paletta e fischiò, la littorina partì a razzo, lasciando tutti a bocca aperta, e sparì all’orizzonte. Per deragliare cinque chilometri dopo, alla prima curva di una certa consistenza. Non ci fu nemmeno un ferito perché la littorina si adagiò su un fianco andando ad appoggiarsi mollemente contro il muro a secco di un campo. La littorina non riportò danni, l’unico ad avere avuto qualche danno fu il proprietario del muro a secco che qua e là si sbriciolò.
Era evidente che si era trattato di un errore del macchinista che aveva affrontato la curva a velocità elevata. E infatti, rimessa sui binari la littorina, nel viaggio seguente non ci fu nessun incidente. Ma dopo una settimana, la littorina deragliò nuovamente. In un posto diverso dal primo. Insomma, a non farvela lunga: almeno una volta alla settimana la littorina prese l’abitudine di deragliare. Sempre senza provocare nei viaggiatori nemmeno la più piccola ferita. Io presi la littorina almeno tre volte senza altro scopo che quello di provare il brivido di un possibile deragliamento.
Percorrere quella linea ferroviaria era un po’ come giocare a una casalinga roulette russa. Ma quel brivido non mi venne mai concesso.
Poi decisero di abolire quel tratto e di sostituire la littorina con un pullman.
Le rotaie furono ricoperte, sopra ci spuntò l’erba.

Andrea Camilleri

(Pubblicato su du, novembre 2006)


 
Last modified Wednesday, July, 13, 2011