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Gli indesiderabili



Autore Gian Carlo Fusco
Prezzo € 9,00
Pagine 155
Data di pubblicazione 2003
Editore Sellerio
Collana La memoria n.579

Con una Nota di Andrea Camilleri

Erano i mafiosi italo-americani, rimpatriati nel secondo dopoguerra: «Un racconto tanto magistrale da trasformare in personaggi che paiono inventati con estro inesauribile, persone realmente esistite» (Andrea Camilleri).

Pochissimi ebbero una sorte analoga a Lucky Luciano, graziato per meriti di guerra e rimpatriato nel 1946 a Napoli, dove visse «tra donne, cavalli e alberghi di lusso». Quasi tutti gli anonimi piccoli boss, rigettati in Italia a centinaia in quegli anni, dagli Usa che li dichiararono indesiderabili, erano diversamente destinati a vite grame e solitarie. «A Giancarlo Fusco, giornalista sì, ma soprattutto grande narratore - scrive Andrea Camilleri, nella Nota che commenta la sua lettura degli Indesiderabili -, non interessano quei due o tre che poterono usufruire di un trattamento particolare. La sorridente pietà di Fusco, non saprei come altrimenti definirla, lo porta a scegliere tra le tigri con meno denti e più spelacchiate. Come Frank Frigenti, appunto, che vive estorcendo qualche migliaio di lire a giornalisti creduloni o rassegnati (quest'ultimo è il caso di Fusco) con la promessa della cessione di una valigia piena di carte esplosive e documenti compromettenti o come Lu (Napoleone) Grisafi, rimpatriato nel 1952, che viene salvato dall'indigenza totale da un maresciallo dei carabinieri che gli procura un posto di guardiano in una masseria. Ma il maresciallo non riuscirà a salvarlo dalla morte: Lu Grisafi verrà ucciso nel 1955, ultimo anello di una catena di vendette iniziate trent'anni prima. A questi "indesiderabili" Fusco dedica i migliori capitoli del suo libro, essi hanno i toni e modi di un racconto tanto magistrale da trasformare in personaggi, che paiono inventati con estro inesauribile, persone realmente esistite».


Nota di Andrea Camilleri

Le strade di Roma di cortei ne hanno visti migliaia, ma un corteo come quello del marzo 1955, composto da un centinaio di persone appena, sicuramente ancora non l'avevano visto, né l'avrebbero visto in seguito. I componenti erano tutti ultrasessantenni, e costituivano una fauna umana che avrebbe fatto la felicità di un disegnatore come George Groz o di uno studioso come Lombroso: fronti basse, orecchie a foglia di cavolfiore, teste piene di bitorzoli, mani enormi e pelose. Una fauna della quale è possibile farsi un'idea osservando certe comparse del film Il padrino che, almeno da questo punto di vista, è attendibile. Marciando, non agitavano bandiere e non cantavano inni o canzoni. Una canzone rappresentativa della loro condizione avrebbe potuto essere quella che s'intitolava Spaghetti, pollo e insalatina e che paragonava una splendida e dispendiosa vita giovanile a Detroit alle ristrettezze e ai disagi dalla vecchiaia in patria. Ma Fred Bongusto non l'aveva ancora scritta. Perciò i manifestanti, guidati da un tale che si chiamava Frank Frigenti, si limitavano a distribuire in silenzio ai passanti foglietti ciclostilati, scritti in un italiano improbabile, nei quali erano esposte le loro richieste indirizzate alla "calorosa e generosa anima dell'Eccellentissimo Onorevole Mario Scelba, figlio prediletto di Cristo, onore e vanto della nobilissima terra di Trinacria" e all'ambasciatrice americana Claire Booth Luce, "angelo biondo che porta nel cognome suo stesso il simbolo di quel raggio di speranza che i derelitti aspettano con fiducia di figli pronti a ripagare col sangue il beneficio ricevuto". Ma chi erano questi "derelitti"?
Erano tutti ex gangster di origine italiana, perlopiù uomini-pistola, soldati semplici delle organizzazioni mafiose, bassa manovalanza, come si direbbe oggi. Nella loro vita non avevano fatto altro e altro non avrebbero saputo fare. Nel 1945 il governo degli Stati Uniti, assieme alle derrate alimentari del piano Marshall, aveva deciso di liberarsene rispedendoli in Italia con la qualifica di "indesiderabili". Ne arrivarono, con navi diverse, quasi seicento. Avevano obbligo di residenza, vale a dire che ognuno di loro doveva andare ad abitare nel paese dov'era nato e dove oramai non aveva più parenti o amici dopo un'assenza ultraquarantennale (nella maggior parte, erano entrati clandestini negli Stati Uniti): non avevano risparmi o se l' avevano quel poco che erano riusciti a mettere da parte sarebbe svanito in poco tempo per sopravvivere, dato che nessuno era disposto a concedere loro un qualsiasi lavoro. Chiedevano perciò un sussidio, un ricovero, un aiuto qualsiasi. Un rotocalco dell'epoca chiamò il corteo "la marcia delle tigri stanche". Ma poteva essere concesso loro un sussidio per un lavoro (non entro in merito sulla particolarità di quel lavoro, se così si può chiamare) svolto all'estero? Forse qualche burocrate venne sollecitato a porre l'elegante questione, ma la cosa non ebbe seguito. Un frate francescano propose allora la creazione di un ospizio, come dire, esclusivo, dove gli ex gangster avrebbero trovato ospitalità e avrebbero trascorso le giornate meditando e pregando. Non se ne fece niente. Si trattava di una specie non solo non protetta, ma destinata a deliberata estinzione. "E chista è la raccanuscenza di l'amiricani pi avilli aiutati a sbarcari in Sicilia?" mi domandò un giorno uno di questi indesiderabili che avevo conosciuto. E concluse amaramente: "poviru e pazzu partii, poviru e pazzu turnai". Il fatto è che la "raccunuscenza" ossia la riconoscenza per essere stati aiutati direttamente o indirettamente nello sbarco gli americani la dimostrarono a pochissimi mafiosi, i più potenti e i più furbi, che furono anche loro rispediti in Italia come indesiderabili, ma dotati di personali fortune (meglio non indagare come fatte) e in grado di passarsela meglio che negli Stati Uniti. Un caso esemplare è quello del famoso Lucky Luciano del quale si disse che nel giugno del 1943, un mese prima dello sbarco, fosse clandestinamente arrivato in Sicilia per preparare il terreno alle forze alleate. Di questa missione non esistono prove, all'epoca Luciano era ufficialmente nel carcere di Dannemora, condannato a trent'anni di reclusione. Ma a lui, nel 1942, si era rivolto il Naval Intelligence: "si trattava - scrive Fusco - di mettere al servizio della nazione in guerra la perfetta, capillare organizzazione portuale dell'onorata società". Luciano, potentissimo anche tra le sbarre, accettò. L'operazione d'appoggio della mafia riuscì perfettamente, in soli due mesi i casi di sabotaggio e di passività antibellica si ridussero del settanta per cento. In "raccanuscenza" a Luciano vennero abbuonati i vent'anni di carcere che aveva ancora da scontare e a metà del febbraio 1946 venne imbarcato per l'Italia. Visse tra donne, cavalli e alberghi di lusso a Napoli, nel cui aeroporto morì nel 1962 colpito da collasso cardiaco.
In definitiva però a Gian Carlo Fusco - giornalista sì, ma soprattutto grande narratore - non interessano quei due o tre che, come Luciano, poterono usufruire di un trattamento particolare. La sorridente pietà di Fusco, non saprei come altrimenti definirla, lo porta a scegliere tra le tigri con meno denti e più spelacchiate. Come Frank Frigenti, appunto, che vive estorcendo qualche migliaio di lire a giornalisti creduloni o rassegnati (quest'ultimo è il caso di Fusco) con la promessa della cessione di una valigia piena di carte esplosive e documenti compromettenti o come Lu (Napoleone) Grisafi, rimpatriato nel 1952, che viene salvato dall'indigenza totale da un maresciallo dei carabinieri che gli procura un posto di guardiano in una masseria. Ma il maresciallo non riuscirà a salvarlo dalla morte: Lu Grisafi verrà ucciso nel 1955, ultimo anello di una catena di vendette iniziate trent'anni prima. A questi "indesiderabili" Fusco dedica i migliori capitoli del suo libro, essi hanno i toni e i modi di un racconto tanto magistrale da trasformare in personaggi, che paiono inventati con estro inesauribile, persone realmente esistite. Le ultime pagine sono dedicate a un "indesiderabile" che negli Stati Uniti combatté una certa mafia venendone sconfitto, il livornese Ezio Taddei. Nel 1921 era stato condannato a otto anni per partecipazione, non dimostrata, ad attentati dinamitardi. Stava per uscire dal carcere quando gli commutarono, per istigazione alla rivolta, altri cinque anni. Liberato, tentò di scappare in Svizzera. Lo sorpresero e si fece due anni di carcere, quindi fu inviato per quattro anni al confino. Nel 1938 riuscì ad arrivare in Svizzera, da qui passò in Francia e l'anno dopo s'imbarcò clandestinamente per gli Stati Uniti. Nel '44 pubblicò a New York un libro, tradotto da Samuel Putnam, che alcuni critici definirono un romanzo straordinario. Si intitolava The Pine and the Mole, in italiano Il pino e la rufola. In quegli anni era diventato amico di Carlo Tresca, che pubblicava il giornale "Il Martello" e aspramente polemizzava con Generoso Pope, filofascista e proprietario del giornale "Il Progresso Italo-Americano". Nel 1943 Tresca venne ammazzato a revolverate. Taddei fece una sua personale inchiesta portando alla luce un nido di vipere, un vischioso intreccio tra politica, giornalismo e mafia. Gli costò l'espulsione. Oltretutto era un anarchico e con gli anarchici (ricordate Sacco e Vanzetti) gli Stati Uniti non hanno mai avuto molti riguardi.
 




Last modified Friday, August, 19, 2016