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Contro il fumo più ironia meno crociate

Ho cominciato a fumare «legalmente», lo stesso giorno che ho compiuto diciotto anni. I miei compagni di liceo già fumavano però io, malgrado ne avessi gran voglia, non li seguivo nel bagno perché non mi piaceva farlo di nascosto, volevo godermi la mia sigaretta non come un congiurato ma in pace e alla luce del sole. Da allora non ho mai smesso, continuo a fumare, ancor oggi che ho superato i 79 anni.
Riconosco senza difficoltà che quello del fumo è un vizio stupido (esistono vizi intelligenti?), del quale farei volentieri a meno. Premesso questo, devo dire con tutta franchezza che non mi piace per niente com’è stata condotta la campagna antifumo in Italia e ancor meno la relativa legge. Soprattutto per il tono da santa crociata, estremista, di un isterismo di stampo puritano statunitense che non ci appartiene, destinato ad aumentare di livello nei giorni che seguiranno alla promulgazione della legge. Il fatto stesso che i gestori dei ristoranti e dei bar siano obbligati alla denunzia del cliente che fuma rivela il segno persecutorio della legge, il suo sottaciuto (ma poi non tanto) intento di caccia alle streghe, di «dalli all’untore».
E le crociate, credetemi, sono contagiose come il morbillo. Un esempio? Proprio ieri un lettore scriveva a un diffuso quotidiano chiedendo la proibizione della vendita dei popcorn nei cinema. Mi sono domandato, sgomento, se si erano verificati casi di popcorn passivo. No, il lettore chiedeva perentoriamente che ne fosse vietata la vendita perché hanno «un nauseabondo odore» e producono, sgranocchiati, «un molesto rumore». Mi unisco alla crociata di quel lettore e ne bandisco un’altra: a quando il veto alla circolazione di motorini e automobili che, com’è noto, fanno un «molesto rumore» e un «nauseabondo odore»? Oltretutto inquinano l’aria: è stato calcolato che stare una giornata in mezzo al traffico di una grande città equivale a fumare quindici sigarette. Come la mettiamo? E non mi piace nemmeno l’ipocrisia di uno Stato che con una mano descrive su ogni pacchetto i mortali effetti del fumo e con l’altra intanto intasca la percentuale dai fabbricanti di sigarette (o meglio, dai fabbricanti di morte, se le cose stanno così), attraverso l’applicazione del bollino fiscale sullo stesso pacchetto. Se non ricordo male, tra le ragioni che promossero la legge Merlin sull’abolizione delle case chiuse c’era quella che lo Stato non poteva lucrare, con la pesante tassa che i gestori delle case annualmente pagavano, sullo sfruttamento della prostituzione. E allora? Può uno Stato lucrare sul rischio di morte dei suoi cittadini? Dovrebbe proibire la coltivazione del tabacco e la fabbricazione e l’importazione delle sigarette, abolire le tabaccherie. Mettere cioè fuori legge il fumo, non i fumatori.
Ad ogni modo, prevedo tempi sempre più bui per noi superstiti viziosi. Sull’ondata americana che non fa più vedere nei film attori che fumano, sarà vietata la «Carmen» perché la protagonista è una sigaraia? Saranno opportunamente cancellate le sigarette e i sigari e le pipe dai dipinti e dalle sculture come una volta pudicamente asportavano il sesso dalle statue o lo coprivano con una foglia di fico?
Una quindicina d’anni fa, a Rio de Janeiro, entrato in un bar e bevuto un caffè, stavo per accendermi una sigaretta quando vidi una scritta incorniciata che suppergiù diceva così: «A te piace fumare. Fumi e mi butti in faccia il fumo, cioè il residuo del tuo piacere. A me piace bere birra. Che ne diresti se ti versassi in faccia il residuo del mio piacere, cioè il mio piscio?». Andai a fumare fuori. Quell’ironica scritta aveva fatto più effetto di un «Vietato fumare» scritto a caratteri cubitali. Vogliamo rifletterci?

Andrea Camilleri

(Pubblicato su La Stampa, 7 gennaio 2005)


 
Last modified Wednesday, July, 13, 2011