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In terra di Sicilia
L'italiano perenne e Andrea Camilleri
Storia di un affabulatore che intreccia situazioni e personaggi da commedia con una "lingua nonna"

di Nunzio La Fauci

 

“Pare chiaro che il De Vulgari Eloquio di Dante sia da considerare essenzialmente come un atto di politica culturale-nazionale (nel senso che nazionale aveva in quel tempo e in Dante)...”, Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Quaderno 29 (XXI), 1935. Note per una introduzione allo studio della grammatica.
"Era una notte che faceva spavento, veramente scantusa. Il non ancor decino Gerd Hoffer, ad una truniata più scatasciante delle altre, che fece trimoliare i vetri delle finestre, si arrisbigliò con un salto, accorgendosi, nello stesso momento, che irresistibilmente gli scappava".
È l'incipit del Birraio di Preston di Andrea Camilleri (Sellerio, Palermo 1995) ed è un manifesto dell'italiano d'oggi e un problema per chiunque se ne occupi, soprattutto ma non solo dal punto di vista della lingua letteraria. Cosi decreta lo straordinario successo che accompagna in questi anni ogni opera dello scrittore siciliano. La sua capacità affabulatrice è certo una ragione del successo. Come per ogni altro fare linguistico tale affabulazione esiste tuttavia solo perché in funzione d'una forma. Questa forma è una forma d'italiano.
Che lingua è allora l'italiano d'oggi, se consente a Camilleri di apparecchiare il suo teatrino idiomatico con la complice cooperazione di frotte di lettori? La risposta è semplice: ancora nel Duemila, l'italiano è una lingua lieve. Del resto, da sempre lieve è l'aggettivo più appropriato per qualificare la vicenda storica e culturale dell'italiano.
L'italiano sta anzitutto dove è cresciuto il compaginamento unitario di una variegata fenomenicità italoromanza, alle cui ragioni presto si accennerà. A partire da lì, esso sta dove l'hanno portato enti simbolici, impalpabili e volatili, ambiguamente angelici e mercuriali (come le arti, la scienza, il denaro) e sta dove l'ha portato un'inerme diaspora umana. Così, unica tra le maggiori lingue europee di cultura, l'italiano si distribuisce nel mondo in modi che devono poco al peso di un potere tradizionale e delle sue inevitabili, macroscopiche violenze. Esso non ha viaggiato sui galeoni degli schiavisti e ha viaggiato poco o nulla sulle cannoniere dell'imperialismo economico, come sulla punta delle baionette e sui cingoli dei carri armati. Una circostanza che porrebbe essere motivo di gloria per la cultura e per la nazione italiana.
Questa rivendicazione urta però con la necessaria consapevolezza delle vicende cruente, pur se lontane, che si accompagnarono all'unificazione linguistica e politica della penisola per opera di Roma antica. Si tratta in tal caso di abbracciare una prospettiva che trascende storicamente la vicenda dell'italiano, ma che (come accade di frequente con le lingue) non la trascende diacronicamente. Quell'antica unificazione individua, come condizione nascosta, il correlato fattuale della designazione non soltanto di italoromanzo (che è nozione secondaria), ma a ben guardare di uno dei due concetti categoriali su cui è costruito l'italoromanzo.
L'universo italoromanzo, l'"ytala silva" del De Vulgari Eloquentia non si presenta così ricca di varietà e così multiforme per un difetto d'unificazione politica. La storiografia linguistica moderna è stata influenzata in Italia da un prolungato, enfatico clima risorgimentale e dall'idealismo storicista su cui si è formata l'ideologia nazionale a cui si allude con l'epigrafe: per certi versi, un'ideologia egemone ancora oggi. Per questa ragione, tale storiografia si è soprattutto interessata più alla fenomenicità politico-sociale che alla realtà della diacronia linguistica. Le ragioni di questo interesse sono certo state civili, ma nel senso in cui questa qualificazione ha sempre avuto corso in Italia: quello per cui il prevalere d'una parte, con qualsiasi mezzo, è ipso facto un bene per l'intera comunità, che va guidata e indirizzata verso l'unità. Questa storiografia ha così reso molto popolare l'idea del difetto d'unificazione politica. Questa idea era ed è funzionale a un progetto di nazione che si è realizzato nei suoi effetti pratici proprio mentre, in un lento processo, dal Risorgimento a oggi, una dopo l'altra le sue premesse concettuali e ideologiche naufragavano in maniera lampante. È facilissimo ammettere che tale difetto di unificazione sia esistito, ma sarebbe stato e sarebbe ancora il caso di chiedersi, con Cattaneo, se non si trattasse d'una qualità più che d'una mancanza, da cui si sarebbe potuto, e da sempre, trarre partito. Il difetto di unificazione era in ogni caso soltanto una circostanza e certo non la circostanza più importante. Logicamente, più che il frutto d'un difetto d'unificazione politica (dir questo significa, a ben vedere, porre il carro davanti ai buoi), la molteplicità italoromanza è l'esito d'un processo di diversificazione linguistica che ha avuto modo di dispiegarsi molto largamente perché è partito da un'unità molto antica, un'unità precoce e profonda, certo la più antica, la più precoce e la più profonda dell'intera Romania.
In altre parole, la molteplicità italoromanza fu ed è ancora oggi consentita da questo retaggio diacronico di profonda unitarietà. che essa custodisce e cela al suo interno. Per lenta deriva, una forma diacronica si è realizzata, si è atteggiata, si è manifestata in innumerevoli fogge diverse.
Nella concretezza della loro vita comunicativa, ai parlanti d'Italia si è offerta così facoltà di verificare giorno per giorno e per secoli e secoli l'esistenza di articolazioni diverse d'una forma unitaria. Dal punto di vista linguistico, ciascuna di tali articolazioni è stata, è ancora a pieno titolo realizzazione e interprete di quella forma celata, che appunto in ciascuna continua a esistere. Insomma, quest'unità diacronica è quanto soggiace alla diversità italoromanza e, in larga misura, la spiega. In assenza o in presenza solo molto debole di fattori extra-linguistici determinanti, la vicenda culturale, civile e politica del prevalere di una varietà su tutte le altre come varietà di riferimento ha potuto poi verificarsi storicamente proprio perché si è innestata su quest'unità diacronica. In condizioni politiche e sociali di frammentazione come quelle a cui si rivolgono i ben noti biasimi degli storici (e dei linguisti che non sanno immaginare la loro disciplina se non in un ruolo ancillare), a nessuno sarebbe mai potuto venire in mente non dico di fare l'italiano, ma anche solo di parlarne (pur se non necessariamente con tale nome), se l'italiano non ci fosse già stato, almeno sotto la forma di una realtà diacronica.

La vicenda storica e materiale ha un senso linguistico, per dirla filosoficamente, solo in riferimento a tale forma unitaria, pronta a modellare in uno spazio concettuale gli schemi indispensabili al fissarsi dell'egemonia di una varietà specifica. Una varietà egemone però non ha mai esaurito né ancora oggi esaurisce l'italiano, nei processi comunicativi giornalieri come nella produzione letteraria. L'unità intrinseca dell'italiano è un dato metastorico, ma la sua eventuale effettiva uniformazione fenomenica, se mai avverrà, dovrà attendere ancora molto tempo. In effetti, la toscanità dell'italiano è in realtà un puro accidente: un accidente necessitato da ragioni storiche e culturali, e linguistiche solo nella misura in cui l'aspetto assunto da quell'accidente per via diacronica (non certo storica) in un'epoca cruciale si è prestato facilmente a dare albergo a quell'essenza unitaria profonda.
Non è facile accostarsi all'Italia linguistica scevri da pregiudizi e senza provare un qualche sconcerto. Del resto, molti di quei pregiudizi sono stati e vengono ancora propalati proprio dalla cultura italiana. Questa cultura si è impelagata per secoli in una celeberrima, nominalistica questione della lingua, di natura talvolta più politica o personale che autenticamente linguistica: una questione divenuta presto un luogo comune. Lo sconcerto (e penso soprattutto agli studiosi stranieri) discende invece dalla percezione di un permanente disordine linguistico di superficie, persistente ancora oggi pur se sotto forme diverse da quelle passare.
Ora, il carattere dell'italiano consiste proprio in questa molteplice unità. Essa dà semplicemente ragione di un fatto importante, forse il più importante in questa discussione: l'Italia non c'era ancora e, al di là delle ipotetiche stime quantitative sul numero dei suoi parlanti, l'italiano c'era già qualitativamente, plurale come è sempre stato nelle sue realizzazioni. Essa consente di comprendere perché è lecito fare una predizione di solo apparente assurdità: l'Italia potrebbe anche smettere di esserci, ma l'italiano le sopravviverebbe a lungo, ancora in futuro come oggi, plurale nelle sue realizzazioni, anche se forse oggi d'una mutata pluralità.
Di scorcio, con crude semplificazioni, si è così collocato concettualmente ciò che il Congresso della Società di Linguistica Italiana (Firenze, 2000) avrebbe forse avuto il principale compito di definire, in modo certo più completo e articolato di quanto non si sia potuto fare qui. E il succo è questo. Il linguista coglie il valore autenticamente unitario della nazione italiana. Tale valore ha infatti natura squisitamente linguistica. Diversamente da quel che accade ad altre nazioni europee, esso non è però una norma (cioè un istituto storico e sociale), che si è imposta ed è divenuta politicamente lingua madre. Esso è al contrario lo spirito lieve, l'eterea larva diacronica, il fantasma ora benigno ora maligno d'una forma linguistica nata già prima, incomparabilmente prima dell'inizio di una qualsivoglia storia nazionale: in breve, una lingua nonna.
Orbene, tra la fine del Ventesimo e l'inizio del Ventunesimo secolo, nel dominio della lingua scritta e letteraria, non solo l'opera, ma anche la fortuna di Andrea Camilleri sono un esempio di questa circostanza linguistica nazionale e si spiegano in funzione di tale carattere dell'italiano, come molte altre vicende del Paese. Per rendersene conto è tuttavia necessario comporre un veloce quadro d'insieme di quel che ha finora fatto lo scrittore siciliano. Ne manca ancora, e con ragione, un inquadramento critico che consenta una valutazione linguistica. Se ne apporrà uno nelle poche pagine che seguono.
Dal punto di vista tematico, Camilleri ha costruito e costruisce un autentico catalogo di luoghi comuni. Tale catalogo non conta siciliano che non sia comunicativamente ambiguo ed allusivo; vedova che non sia piacente e vogliosetta; piccolo aristocratico che non sia eccentrico fino alla stramberia; giovane amante che non sia ardimentoso e superdotato; svedese (e l'esplicitazione del genere grammaticale sarebbe ridondante) che non sia di liberi costumi, ma d'animo candido; contadino che non sia diffidente e furbastro, ma in modo ingenuo e senza costrutto; prete che non ami la buona tavola, gli agi della vita e che non sia donnaiolo; operaio che non sia vittima di vessazioni e, al fondo, un buon uomo e un gran lavoratore. In tale catalogo soprattutto non c'è vicenda che non sia un affare di sesso e di corna. Insomma, una lista di figurine e situazioni tratte da un immaginario collettivo di natura privata e di registro basso che attraversa le classi e la geografia italiana, fisica, politica o ideologica.
Il catalogo contiene però idee ricevute più fresche e piccanti, di natura pubblica e di registro presuntamente più alto. Sono i luoghi comuni su cui Cinecittà costruiva alcuni decenni fa parte delle sue fortune più impegnate e su cui costruiscono oggi, murati i tempi, la stampa e la televisione, insomma i mezzi dell'intrattenimento di massa mascherato da informazione. Così, nell'universo di Camilleri non c'è vicenda della vita pubblica che non abbia contorno di gravi illeciti, di compromessi con poteri occulti e spesso criminali. Non c'è altro rappresentante del potere che non sia corrotto o intellettualmente ripugnante e in ogni caso reazionario. Non c'è però istituzione pubblica in cui non si annidi qualche uomo di retto sentire, dal cuore segretamente incline al progresso e che saprebbe mettere facilmente le cose a posto, sempre che potesse e non fosse rimosso, allontanato, eliminato al momento giusto. Non c'è poi investigatore che non sia autoironicamente burbero e insieme tollerante (anche con le proprie debolezze), devoto però alla giustizia sostanziale (talvolta ben oltre la forma imposta della legge) e in eterno contrasto col potere (corrotto) che tuttavia rappresenta.
Insomma, dal punto di vista tematico, si tratta di una mistura strapaesana (vigatese, opportunamente) di presunto basso (e privato) e di sedicente alto (e pubblico): commedia all'italiana e cinematografica engagée. Temi tipici del quotidiano la Repubblica (la sedicente prospettiva alta, culturalmente attuale e post-moderna) combinati con quelli del settimanale "Cronaca vera" (la prospettiva bassa, culturalmente dislocata, perché appena trascorsa e pre-moderna).
La combinazione viene inscenata in Sicilia. Si tratta della localizzazione-luogo comune per eccellenza e del prototipo, non soltanto geografico, dell'Italia. La Sicilia è sì un'isola e, sin dall'antichirà latina, mai più d'una provincia, ma proprio per questo e non paradossalmente essa è la regione-prototipo d'uno dei tratti caratterizzanti dell'italianità. Vi si pratica al massimo grado infatti il gioco a essere italiani, ma non a riconoscersi superficialmente e soprattutto a non voler essere riconosciuti come tali. Anche, direi soprattutto su base linguistica questo gioco è praticato sotto fogge e in quantità diverse in ogni regione, provincia, città, contrada italiana. Ciascuna di queste si rappresenta sempre come particolare e inassimilabile al resto che pure la circonda. A sostegno, la rivendicazione d'immaginarie alterità storico-culturali. Nella maggioranza dei casi si tratta di sfoglie sottili, se non di pure apparenze. Un analista spassionato, se non si lascia irretire nel gioco, ha così un modo sicuro di riconoscere un italiano autentico: è colui che anzitutto proclama d'essere altro (milanese, toscano, pugliese, napoletano e così via), esprimendo il proclama in una qualsiasi delle molteplici varianti, miscugli o eredi, standard o sub-standard, delle varierà che il De Vulgari Eloquentia assegna "Ytalis, qui sì dicunt".
Per definizione, un luogo comune non è in grado di caratterizzare univocamente chi lo porta: di sesso e di corna, di combutte tra poteri leciti e illeciti e di Sicilia sono in grado di parlare in tanti. Il catalogo dei luoghi comuni tematici di Camilleri non è quindi appropriato a caratterizzare l'opera dello scrittore. Infatti, la sua caratterizzazione non è tematica, ma funzionale. Per dirla con semplicità, ciò che caratterizza Camilleri è appunto il fatto che non c'è opera di Camilleri in cui Camilleri non ci sia, non ci sia in altre parole una riconoscibilissima voce narrante, tanto più riconoscibile quanto più, in certe occasioni, camuffata buffamente e in modo caricaturale. Per usare appropriatamente una parola-chiave dello stesso Camilleri: "tragediatore" (se ne veda la definizione in Il gioco della mosca. Sellerio, Palermo 1997, pp. 82-3).
La funzione unificante dell'opera dello scrittore empedoclino è la funzione tragediatore. Leggere Camilleri dal punto di vista linguistico come da quello letterario significa porsi in tale prospettiva funzionale: non in quella dell'enunciato, ma in quella dell'enunciazione.
Ogni storia dell'universo narrativo di Camilleri, ogni voce che vi ricorre è proiettata a partire dalla voce narrante e passa attraverso il tragediatore. Costui è sempre identico a se stesso. Semmai, nella serie di Montalbano, per comprensibili ragioni commerciali, tende verso la semplificazione e la standardizzazione, ma non è detto che fuori da quella serie e nel futuro il vettore non possa rovesciarsi.
L'invenzione o (come Camilleri ama sostenere) il ritrovamento dentro sé medesimo di tale voce narrante è la sua massima trovata e una delle maggiori nel panorama linguistico-letterario italiano degli ultimi anni, da questo punto di vista particolarmente depresso. Niente di più lontano da Sciascia o da Pirandello e dalle loro attitudini, per altro molto diverse, ma tendenti verso il sopire, nei confronti della funzione voce narrante.
Camilleri ha onestamente indicato a più riprese questo carattere della sua opera. Con un tocco di snobismo, si è mostrato quasi meravigliato del fatto che una funzione del genere determini oggi e d'improvviso il successo di pubblico che essa ha determinato. Del resto, una simile funzione ha proprio il pregio di pervadere per intero lo scritto, più di quanto potrebbe fare anche il più convincente e penetrante personaggio. In sostanza, si può stare certi che ogni volta che Andrea Camilleri prenderà la penna per raccontare una storia, il tragediatore sarà l'autentico, soggiacente protagonista di quella storia, presente dalla prima all'ultima pagina.
Una funzione manifesta si manifesta in una forma. La funzione tragediatore si manifesta nella forma di una lingua. Ecco la testimonianza diretta dello scrittore: "Dopo tanti anni passati come regista di teatro, televisione, radio, a contare storie d'altri con parole d'altri, mi venne irresistibile gana di contare una storia mia con parole mie... La storia la congegnai abbastanza rapidamente, ma il problema nacque quando misi mano alla penna. Mi feci presto persuaso, dopo qualche tentativo di scrittura, che le parole che adoperavo non mi appartenevano interamente. Me ne servivo, questo sì, ma erano le stesse che trovavo pronte per redigere una domanda in carta bollata o un biglietto d’auguri. Quando cercavo una frase o una parola che più s’avvicinava a quello che avevo in mente di scrivere immediatamente invece la trovavo nel mio dialetto o meglio nel 'parlato' quotidiano di casa mia. Che fare? A parte che tra il parlare e lo scrivere ci corre una gran bella differenza, fu con forte riluttanza che scrissi qualche pagina in un misto di dialetto e lingua. Riluttanza perché non mi pareva cosa che un linguaggio d'uso privato, familiare, potesse avere valenza extra moenia. Prima di stracciarle, lessi ad alta voce quelle pagine ed ebbi una sorta d'illuminazione: funzionavano, le parole scorrevano senza grossi intoppi in un loro alveo naturale. Allora rimisi mano a quelle pagine e le riscrissi in italiano, cercando di riguadagnare quel livello di espressività prima raggiunto. Non solo non funzionò, ma feci una sconcertante scoperta e cioè che le frasi e le parole da me scelte in sostituzione di quelle dialettali appartenevano a un vocabolario più che desueto, obsoleto, oramai rifiutato non solo dalla lingua di tutti i giorni ma anche da quella colta, alta" ("Mani avanti", in Il corso delle cose, Sellerio, Palermo 1998, pp. 141-42).
C'è una prima avvertenza. Il passaggio sembra referenziale, cronachistico, ma è finzione. La funzione tragediatore vi è pienamente all'opera. E scrittore all'apparenza di specchiata lealtà con il suo lettore. Camilleri lo mette subito in guardia: "...mi venne irresistibile gana... non mi pareva cosa...".
L'autore non fa di professione il linguista, ma a differenza di molti suoi colleghi è un parlante-scrivente adeguatamente auto (cosciente). La lingua che dà forma alla funzione cruciale della sua scrittura, dice bene, non è il "dialetto", ma il "parlato quotidiano di casa sua" un "linguaggio d'uso privato, familiare" e quel che ne viene fuori è "un misto di dialetto e lingua". A ridosso dei primi successi di Camilleri, qualcuno ha tirato in ballo Gadda: opinione di non stupefacente grossolanità. La "funzione Gadda" e la sua forma e la forma linguistica della funzione tragediatore di Camilleri sono in realtà agli antipodi: da quale lessico familiare potrebbero mai originare non dico la Cognizione, ma anche il Pasticciaccio? La ricerca di due complicità opposte con il lettore, e soprattutto con lettori diversi. Individui lontani, da tenere, se possibile, ancora più a distanza, per il solitario ingegnere lombardo. Un gruppo di famiglia, figli e nipoti attorno al tavolo del tinello, amici accomodati sulle poltrone d'un circolo paesano di notabili per il regista e patriarca siciliamo. Eppure: "Ero a questo punto, quando tornai ad imbattermi nel gaddiano Passticcialccio: credo, malgrado qualche critico abbia scritto il contrario, di non dover nulla a Gadda, la sua scrittura muove da assai più lontano, ha sottili motivazioni e persegue fini assai più ampi dei miei. Molto devo invece al suo esempio: mi rese libero da dubbi ed esitazioni. E così, a 42 anni, il primo aprile... 1967 cominciai a scrivere il mio primo romanzo" (idem).
Ma passando attraverso la funzione tragediatore, la parola di Camilleri, parlante auto (cosciente), si colora naturalmente di un certo grado di finzione, di "un fare come se". Questa colori tura dà gusto alla scrittura e alla lettura, il gusto della letteratura. Ma il lettore avvertito ha da leggervi dietro una verità, se dispone di strumenti nemmeno poi troppo sottili.

E allora, è vero che l'italiano d' "una domanda in carta bollata o (d')un biglietto d'auguri" sarebbe stato inadeguato come forma della funzione tragediatore di cui Camilleri era a caccia in quei suoi lontani esordi privati. Ma non è certamente vero che (tutte) le espressioni italiane che sostituirono per prova quelle dialettali abbiano potuto allora apparire allo scrittore obsolete e rifiutate dai registri quotidiani e colti dell'italiano. Sarebbe questo forse il caso di "mi venne. .. voglia" per il camilleriano "mi venne... gana"?, di "non mi pareva possibile" per il camilleriano "non mi pareva cosa"? Si noti che l'unica spia di una lingua connotata come forma della funzione tragediatore nella prima pagina del Corso delle cose si trova in "mentre da levante carriche nuvole d'acqua arrancavano verso il paese appena visibile ai piedi della collina". Della forma di quell'aggettivo si potrà dir tutto, ma non che l'aggettivo standard non possa sostituirlo perché obsoleto. Sostituzione che si farebbe inoltre al modico prezzo d'una riduzione dell'espressionismo di un parallelismo fonico (carriche... arrancavano), in un brano dal lirismo forse già troppo acceso. E la seconda spia, al primo rigo, della seconda pagina, sta in "Il terzo uomo, un contadino, non aveva isato gli occhi", dove ancora una volta sarebbe arduo sostenere che "alzare gli occhi" sia una forma abbandonata dell'italiano comune. Per chiudere definitivamente la questione: nella scrittura camilleriana taliare e spiare corrispondono a e sostituiscono sistematicamente guardare e domandare. Si tratta di verbi italiani appartenenti a un vocabolario desueto, obsoleto, rifiutato? In realtà, il tragediatore sta già lavorando, e quel che Camilleri scrive è da leggersi come drammatizzazione del suo processo creativo. Lo si è già visto, non c'è drammatizzazione per Camilleri che non attinga al  luogo comune. Il luogo comune in questione, il massimo dei luoghi comuni camilleriani sta inscritto nella forma che prende la funzione tragediatore. Si tratta d'un argomento che nell'Italia strapaesana ricorre a condire invariabilmente discussioni d'ogni natura e genere: la presuntra maggiore espressività d'un lessico e d'una espressione dialettale qualsivoglia rispetto al lessico e all'espressione dell'italiano.
In realtà la lingua di Camilleri è un costrutto letterario, un artificio formale (e come porrebbe essere diversamente?). Essa prende ispirazione lessicale e, qua e là, sintattica dall'italiano regionale della borghesia siciliana, quale esso si atteggi nel parlato in area agrigentina, secondo l'esplicita testimonianza dello scrittore. Ma fissa tale italiano regionale in una forma dello scritto e lo miscela con stilemi tipici di una lingua alta e sintattica attributiva all'interno del sintagma nominale, con collocazioni e usi particolari. Già nella prima pagina del Birraio di Preston si osservano, per esempio: "non si trattava di cure ma di kantiana educazione della volontà", "infilata la mano inquisitoria”, "al subito immancabile vagnaticcio", "per evitare la mutatina punizione paterna”, "quel notturno viaggio" e poco più avanti "rare parole", "debole luce", "teutonica precisione e dovizia scientifica", "patita esperienza”, "devastante russare".
Altro esempio è l’anteposizione al predicato dell'avverbio temporale negativo mai con conseguente ellissi della negazione (due casi nelle prime due pagine della stessa opera): "da quell'orecchio mai aveva voluto sentirci", "un fenomeno che avanti mai aveva visto".
Importantissima in questo senso, poi, è l'assenza di determinanti, che produce un'aura di accurata indefinitezza: si tratta di un carattere tipico della lingua della poesia, più ancora che di quella della prosa: "fu nottata stramma", "con adeguato miracolo", etc.
Dei famigerati elementi dialettali, non è in realtà necessario fare qui un'analisi dettagliata e se ne lascerà il piacere agli eruditi. Basterà una caratterizzazione d'insieme.
L'aspetto complessivo più rilevante è che gli elementi lessicali siciliani sono trattati nel rigoroso rispetto della morfologia italiana, così da avere morfemi lessicali siciliani e morfemi funzionali italiani: scantusa e truniata, scappatina, arrisbigliò non pongono problemi. Ma l'effetto emerge immediatamente con scatasciante, che dovrebbe essere scatascianti, con trimoliare, che dovrebbe essere trimuliari, picciliddro era lento d'incascio (si osservi che lento di incascio ha in senso secondo, gergale: si dice di chi rivela con leggerezza cose e vicende di cui è a conoscenza e che non andrebbero propalate), stascione, muffoletto, scrafaglio, sparluccicavano. rnvuro, ecc. Regolare l'uso di magari per anche (nel Camilleri prima del successo, era macari).
Sfuggono a questa tipologia, ma non la modificano, anzi, per contrasto ne fanno la sottolineatura, le espressioni fisse, trasferire pari pari dal dialetto alla lingua: per esempio in un vìdiri e svìdiri, tutto quel virivirì.
L'effetto comico e di straniamenro, come appunto in quella comunicazione intrafamiliare ed extra-familiare tra pari, risiede proprio in questo contrasto tra elementi lessicalmente siciliani e morfologicamente italiani (almeno per forma, se non proprio per funzione). Tale effetto non sarebbe attingibile se non si presupponesse una competenza italiana di sfondo, quella che sa maneggiare con cura la morfologia. Gli effetti tradizionali sono l'abbassamento comico di ciò che è socialmente connotato come elevato, appunto la forma della lingua letteraria italiana perenne, e al tempo stesso l'ammiccamento. La forma dell'opera di Camilleri sembra voler dire: "e chi è siciliano, mi capisce". Essa pare tendere verso un'esclusione, ma tra glosse e trasparenze lancia un inclusivo messaggio di ambigua complicità a ogni lettore: "anche tu sei (o diventerai) siciliano e mi capisci".
L'uso abbastanza largo del passato remoto combina ottimamente i due tratti di una prosa di impianto alto e letterario (il passato remoto tende ad uscire dall'uso odierno, tranne in aree linguistiche tra cui si conta principalmente la siciliana) e d'una patina dialettale, che deborda in questo caso dal lessico alla sintassi.
Un elemento macroscopico, infine, salda infrangibilmente la forma della prosa camilleriana e la funzione tragediatore. In non poche opere dello scrittore infatti compaiono personaggi non siciliani: stranieri o italiani di altre regioni. Potrebbe parere un tratto di realismo il fatto che tali personaggi non si esprimono, come la maggioranza di quelli siciliani, nell'italiano mescolato con il siciliano che è tipico della voce narrante. Per questi personaggi extra-siciliani si ricorre a forme di scrittura che riproducono le loro varierà.. Ora è stato osservato (talvolta non proprio con appropriatezza) che queste rappresentazioni non sono buone rappresentazioni delle diverse varietà. adoperate. Lo sarebbero tanto meno, se confrontate con quelle del siciliano, per definizione ottime. E se ne è fatto un rilievo allo scrittore.
Chi ha fatto questo rilievo semplicemente non capisce che con Camilleri non si tratta in ogni caso d'una rappresentazione realistica. Ciò che viene reso è infatti sempre il modo in cui la voce narrante o, come si è detto, il tragediatore riflette narrativamente il diverso atteggiarsi linguistico dei personaggi. In Camilleri, si porrebbe dire non troppo paradossalmente, i personaggi non parlano mai. Chi parla è il tragediatore ed egli parla come sa che parlano e come vuole che parlino i personaggi. Quando costo-  sono siciliani e per qualche ragione narrativa devono esprimersi in una varietà più prossima al dialetto siciliano, la voce narrante, dichiarata siciliana in quanto funzione narrativa, è atta a riprodurre appropriatamente tale prossimità. Dove questa condizione fa difetto, e per esigenze narrative parla per esempio un dialettofono non siciliano o uno straniero, ciò che sortisce è il modo con cui il tragediatore raffigura tale espressione.
In apertura del Birraio di Preston, il dialogo tra il giovane Gerd Hoffer e suo padre e poi i modi in cui viene rappresentata la parlata di quest'ultimo sono in proposito esemplari: si tratta dell'approssimata mimesi di un accento tedesco come un italiano lo riprodurrebbe per iscritto quando volesse raffigurare un tedesco che parlasse italiano: "Sissignore, vater, fa alba di mattino a Vigàta". "Fai subito in kamera tua! ordinò l'ingegnere..." (p. 11). Un altro autentico luogo comune, anche grafico, come si può notare: un luogo comune perfettamente appropriato, trovandosi sotto la penna del tragediatore.
Insomma, la voce narrante-tragediatore è la voce che ci parla attraverso i libri di Camilleri. Essa ha un impianto letterario tradizionale, l'impianto della lingua italiana letteraria perenne, l'unica che il lettore italiano ancora percepisce come tale. Variata con un lessico dialettale di facile accesso, reso contestualmente sempre o molto spesso trasparente e trattato morfologicamente come se fosse italiano (non solo per ottenere un effetto comico e di straniamento), proprio come tipica realizzazione d'una lingua nonna, questa lingua fornisce al lettore il piacere della diversità nell'identità e quindi un viaggio a ritroso verso le proprie radici linguistiche. Tale viaggio a ritroso è spesso non solo virtuale: tutti gli italiani hanno alle spalle una varietà locale, moltissimi una varietà locale meridionale: quella in cui si esprimevano i genitori e i genitori dei genitori. Questo è del resto il tratto caratterizzante degli italiani dal punto di vista linguistico: abituati da sempre a vedere atteggiarsi la loro lingua secondo diverse articolazioni. Donde, il piacere di sentirsi diversi e al tempo stesso eguali. In breve: di sentirsi in grado di comprendere l'altro e di decidere se esser tolleranti o intolleranti, scegliendo però nella maggioranza dei casi la prima soluzione.
L'Italia linguistica del Duemila custodisce ancora gelosamente questo piacere e, metamorfosate, le ragioni che lo rendono possibile. L'opera di Camilleri, semplicemente, ne trae profitto e le rivela. Si tratta, è vero, ancora del piacere di un luogo comune linguistico, ma nobile stavolta (o almeno così ci vien fatto di giudicarlo, in quanto linguisti): certo il più nobile e il più civile dei luoghi comuni (siano essi tematici o formali) con cui, come un nonno affabulatore, Camilleri costruisce le sue favole in una lingua nonna.

 

(pubblicato in Prometeo - Rivista trimestrale di scienze e storia, Arnoldo Mondadori Editore, Settembre 2001)



Last modified Wednesday, July, 13, 2011