La casa di carta
Per decenni sono stato molto amico di Gigi, un avvocato romano. A dividerci, negli ultimi anni, è stata l´età che rende difficoltosi e complicati gli spostamenti in città.
Gigi aveva un bello studio in una via centrale, la stanza dove riceveva i clienti era tappezzata da libri di legge, da codici, da annate della Gazzetta ufficiale e di una rivista forense che mi pare si chiamasse L´Eloquenza o qualcosa di simile. Era un buon avvocato, soprattutto quando si trovava a fare una causa "per tigna", come dicono a Roma, allora era capace di trovare cavilli incredibili, paradossi vincenti per assurdo.
Ma lo studio, oltre alla sala d´aspetto, aveva altre due camere. Ebbene, in una di esse i libri alle pareti erano tutti di teatro, raccolte di riviste come "Dramma" e "Sipario", le opere drammatiche complete di Molière, Shakespeare, Calderon, Pirandello.... Perché la vera passione del mio amico era il teatro. Da giovane, si era addirittura diplomato attore all´Accademia nazionale d´arte drammatica e per qualche anno aveva anche praticato il mestiere, facendo parte di importanti compagnie. E anche quando aveva aperto lo studio d´avvocato aveva continuato a recitare di tanto in tanto sotto falso nome, a scrivere commedie per il teatro e la radio, a organizzare compagnie, a gestire locali di spettacolo. La nostra conoscenza infatti avvenne quando, come organizzatore, mi chiamò per fare una regia. Dell´altra camera dello studio, sempre chiusa a chiave, dirò appresso.
Un pomeriggio mi chiese d'accompagnarlo perché doveva fare qualcosa che aveva attinenza con la sua
professione d'avvocato. Mi mostrai riluttante, nutro una viscerale antipatia per i rituali della legge, non per la legge
in sé. Mi disse che si trattava di una faccenda di pochi minuti che forse avrebbe potuto anche interessarmi. Mi spiegò,
ma non credo d'avere capito bene, che ogni tanto riceveva l'incarico dal Tribunale di occuparsi delle eredità di
persone che erano morte senza eredi o qualcosa di simile. Lui avrebbe dovuto vendere le cose che erano state di
proprietà del defunto e il ricavato versarlo a non so quale istituzione. Mi lasciai convincere.
Ci recammo in uno di
quei palazzoni umbertini nei pressi di piazza Cavour. Sul portone ci aspettava un ufficiale giudiziario, o qualcosa di
simile, che avrebbe dovuto aiutare Gigi nell' inventario dei beni. C'era la portinaia la quale ci raccontò che il povero
Nando era stato trovato morto verso le sette di quella stessa mattina da un suo amico, Filippo, che era andato a trovarlo
sapendolo ammalato. A occhio e croce, disse la portinaia, Nando doveva avere passata l'ottantina. Io mi ero intanto
un poco preoccupato: se Nando era morto quella mattina, capace che il cadavere si trovava ancora a casa. Non
sarebbe stato un bello spettacolo da vedere. La portinaia invece mi tranquillizzò, informandoci che se l'erano portato
all'obitorio poche ore prima. Ci spiegò come arrivare all'abitazione di Nando. Gigi, io e l'ufficiale giudiziario pigliammo
l'ascensore, arrivammo all'ultimo piano, facemmo ancora una rampa di scale, aprimmo una porta a vetri e ci trovammo
su un ampio terrazzo. Nando aveva abitato nell'ex lavatoio condominiale. Era un autentico barbone al quale era stata
data da anni ospitalità gratis e che era molto benvoluto dagli inquilini del palazzo che lo rifornivano di cibo e di vestiti
vecchi. La prima sorpresa che avemmo fu che non c'era un mobile. Tutto era di carta. Il letto fatto da centinaia di
copie di giornali legati con lo spago, il cuscino invece era formato da riviste. Un comodino, un tavolino e un puff erano
pure di carta. Sopra a un ripiano sempre di carta, due o tre piatti e alcune posate di plastica. Un pezzo di spago teso
da un angolo all'altro faceva da appendiabiti. Vi pendevano un paio di pantaloni, una giacca, due camicie. Stracci. Per
terra c'erano anche due piatti di plastica, uno era pieno a metà d'acqua.
"Qui non c'è niente da inventariare" - disse, tra
l'irritato e il deluso, l'ufficiale giudiziario.
Proprio in quel momento, e del tutto casualmente, Gigi spostò il cuscino e da
sotto comparve qualcosa di verde scuro. Era un libretto di risparmio al portatore, vi erano depositati cinque milioni che
allora erano una discreta fortuna. Tra le pagine del libretto, un mezzo foglio di carta a quadretti, ripiegato, sul quale c'era
scritto a stampatello: Lascio questi cinque milioni a chi si prenderà cura del mio gatto Felice. Seguivano la data, che
risaliva a tre anni prima, e la firma perfettamente leggibile, Ferdinando Belsito.
Ci guardammo perplessi. Poi, come un
sol uomo, uscimmo sul terrazzo e ci mettemmo a cercare il gatto. Lo chiamammo per nome, "Felice! Felice!" e anche
facendo con la bocca quel suono quasi di bacio che si usa per farlo arrivare di corsa. La ricerca durò un tre quarti d'ora,
poi il primo a lasciare fu l'ufficiale giudiziario. Restati soli, Gigi e io ragionammo a lungo sulle abitudini che poteva avere
il gatto Felice. Da quella terrazza un gatto poteva agevolmente accedere ad altre terrazze, in cerca di avventure amorose
o di passeri sbadati. Non so perché, Gigi a un certo punto si convinse che il gatto sarebbe tornato a casa verso sera,
quindi era inutile restare lì per ore ad aspettarlo. La cosa migliore era di rifarsi vivi dopo il tramonto. Quando
scendemmo, la portinaia non c'era e non c'era nemmeno quando tornammo che già faceva scuro. Gigi si era munito di
un metro circa di salsiccia arrosto, odorosissima, che spezzettò e distribuì nei punti strategici del terrazzo. Dopo una
mezz'oretta, capitò un primo problema. Due gatti, uno nero e uno bianco, emersero dal nulla e si avvicinarono
circospetti a un pezzetto di salsiccia. Che fare? Cacciarli via? E se uno dei due era Felice del quale ignoravamo il
colore del pelo? Il problema venne risolto dal gatto bianco il quale, agguantata la salsiccia, scomparve nuovamente
nel nulla inseguito dal gatto nero, Gigi si mise il cuore in pace: Felice, mi spiegò, non poteva assolutamente essere uno
dei due gatti perché, una volta in possesso della salsiccia, non sarebbe scappato su altri tetti, ma sarebbe corso d'istinto
verso il suo rifugio, cioè il lavatoio-abitazione di Nando. Io non ebbi cuore di fargli osservare che se Felice era il gatto
senza salsiccia, sicuramente si sarebbe precipitato appresso al suo compagno per depredarlo. Passò un quarto d'ora e
i due gatti riemersero cauti dall'ombra in cerca di un altro pezzo di salsiccia, ma stavolta vennero decisamente cacciati
a urlacci e improperi. Passò un' ora senza che accadesse nulla e allora, perse le speranze, decidemmo d'andare via.
C' era la portinaia che apparve sorpresa di vederci.
"Siete stati su tutto il giorno?" domandò sospettosa.
Le spiegammo
la faccenda del gatto e dei cinque milioni. Si mise a ridere.
"Ma Felice stamattina se l'è portato via Filippo, quando ha
visto che Nando era morto".
Fulmineamente, Gigi decise che i cinque milioni appartenevano di diritto all' amico di Nando
che generosamente s'era preso cura del gatto senza sapere niente dell'eredità connessa.
"Lei sa dove abita Filippo?".
La portinaia rise di nuovo.
"Da qualche parte sulle banchine del Tevere".
Gigi decretò che quella era l'ora migliore per
andare a cercare Filippo. Da un negoziante che stava abbassando la saracinesca ci facemmo vendere due potenti torce
a pile e scendemmo per una scaletta proprio davanti a Castel Sant'Angelo. Ombre scure stavano distese fianco a fianco,
ed erano tante. Ci andò subito male. Il primo barbone al quale chiedemmo come si chiamava puntandogli la luce in
faccia, ci mandò a quel paese (ma non furono queste le sue precise parole). Il secondo, per tutta risposta, cavò fuori
una specie di machete minacciandoci l'immediato taglio della testa. Ci rendemmo conto che non era cosa e di corsa
risalimmo sul Lungotevere. La mattina dopo Gigi fece ciclostilare un centinaio di copie di un manifesto che aveva
compilato nottetempo.
"Attenzione!!! Eredità milionaria!!! Si avverte il signor Filippo di presentarsi al più presto presso
lo studio dell'avvocato Luigi XXX, in via Cola di Rienzo n. XX per riscuotere un'eredità lasciatagli dal suo amico
Nando. Attenzione!!! è indispensabile presentarsi con un documento d'identità e con il gatto Felice.
Distribuimmo le
copie lungo le due sponde del Tevere.
L'ignaro, sfortunato Filippo non si presentò mai allo studio.
La seconda volta Gigi si fece accompagnare senza grandi resistenze da parte mia, lo confesso, nell'abitazione
trasteverina di un cinese che da cinquant'anni viveva a Roma e che era morto tre giorni avanti. L'appartamento del
cinese era completamente cinese, tutto era rigorosamente made in China, stonava infatti l'unico oggetto occidentale
nel salotto, un enorme, primitivo apparecchio televisivo.
Pareva una mediocre scenografia per una convenzionale
messinscena di "Madama Butterfly". Nella stanza da letto, un armadietto laccato era colmo di vestiti cinesi.
L'ufficiale
giudiziario e io andammo in sala da pranzo. E lì ci raggiunse Gigi vestito da Fumanchu, le mani congiunte a preghiera,
tutto inchini e sorrisi. Il suo istinto d'attore aveva avuto la meglio. L'ufficiale giudiziario ci mise tre giorni interi a
inventariare centinaia e centinaia di oggettini d'avorio, pagodine, tempietti, campanellini, minuscoli bruciatori d'incenso,
pettinini, specchietti, gabbiette, gonghetti, casette, paraventini... Quando finì, era chiaramente sulla via dell'esaurimento
nervoso. Ma i cinesi, come si sa, sono misteriosi. E anche il nostro conservava un mistero. Lo scoprimmo in un lungo
soppalco sopra il corridoio. Consisteva in file interminabili e sovrapposte di scatole da scarpe, ognuna con una data
scritta sopra. Il nostro cinese, con regolarità assoluta, allo scadere di tre mesi comprava sempre lo stesso paio di
scarpe di un violento colore giallo canarino e, senza mai indossarle, le riponeva nel soppalco ancora avvolte nella
carta. Erano scarpe così orrende che Gigi non riuscì a venderne nemmeno un paio, persino le istituzioni benefiche
si rifiutarono d'accettarle in regalo.
Il terzo e ultimo appartamento nel quale entrai si trovava dalle parti di Monteverde ed era appartenuto a un
ingegnere morto settantacinquenne. I mobili erano massicci, neri, soffocanti. Trovammo tutto in perfetto ordine, solo
in camera da letto c'erano un po' di cose fuori posto. Alle pareti, molti quadri dei pittori della campagna romana,
alcuni abbastanza belli e c' erano anche parecchi soprammobili di valore. L'ufficiale giudiziario cominciò a inventariare
aiutato da Gigi. Io andai nello studio aprii un mobiletto basso, a due ripiani. Dentro vi erano impilate centinaia di lettere,
su ogni busta sempre la stessa scritta con la stessa grafia: a mia moglie Pina. Cominciai a leggerle. Quelle lettere
l'ingegnere non l'aveva mai spedite a sua moglie, finito di scriverne una, l'infilava nella busta e la riponeva nel mobiletto.
Era la storia di un amore straziante. L'ingegnere, quarantenne, si era sposato con una ragazza ventenne. La prima lettera
risaliva al giorno dopo la scoperta del primo tradimento di lei, avvenuto dopo circa due anni di matrimonio. L'ingegnere,
distrutto dal dolore, la perdonava e le dichiarava di amarla più di prima. A poco a poco lei aveva evidentemente
cominciato a confidarsi col marito e lui l'aveva persino consolata per le sue pene d'amore. Era arrivato a darle del
denaro perché potesse trascorrere qualche breve vacanza con l'amante di turno. Una lettera infine conteneva un ritaglio
di giornale con la notizia di un incidente automobilistico dove avevano perso la vita Pina e un suo giovanissimo amico.
La lettera d'addio del marito mi fece venire le lacrime. E con le lacrime, sentii che stavo compiendo un sacrilegio.
Chiesi scusa al defunto ingegnere e uscii. Non volli più accompagnare il mio amico nelle sue visite.
Ah, dimenticavo. La terza stanza dello studio di Gigi, quella sempre chiusa a chiave, conteneva alcuni oggetti
trovati in quegli appartamenti che però non era riuscito a vendere: telefoni con la manovella, rulli per pianola, bambole
infortunate, un registratore di cassa che pareva un mausoleo... Mi commossi a vedere un cardellino di latta con la
chiavetta per la carica infilzata in un fianco.
Funzionava ancora, muoveva le ali, saltabeccava, faceva uno stridulo
ciiip ciiip...
Ne avevo avuto uno identico da bambino. Commisi l'errore di dire a Gigi che volevo comprarlo perché mi
ricordava la mia infanzia. Se lo fece pagare a peso d'oro e versò coscienziosamente il ricavato a chi di dovere.
Andrea Camilleri
(Pubblicato
su La Repubblica (ed. di Roma), 3 dicembre 2006)
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