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La pista di sabbia



Autore Andrea Camilleri
Prezzo € 12,00
Pagine 263
Data di pubblicazione 7 giugno 2007
Editore Sellerio
Collana La memoria n.707
e-book € 8,49 (formato epub, protezione acs4)



«Quest’estate ammazzarono un cavallo sulla spiaggia di Catania. Il fatto ebbe vasta eco sulla stampa, ai telegiornali. Pare che ci fosse di mezzo la storia, l’ambiente delle corse clandestine. Un fatto di faide, di contese tra di loro. E da questo fatto di cronaca è partita la mia fantasia. Perchè poi è successo che mentre questa cosa cominciava a marciarmi in testa, mi vengo a trovare in Toscana in vacanza. In quel periodo ero immobilizzato, avevo la gamba sinistra che non potevo usare bene e una delle mie figlie mi portava in giro per la Toscana, in macchina. Si fermò davanti a un’edicola. E l’edicola esponeva una locandina con i titoli dei giornali. Io lessi un titolo de “Il Tirreno”: “Rubati sei purosangue da una scuderia del Grossetano. Servizi a pagg. 3, 4, 5, 6”: quattro pagine. Dissi subito a mia figlia: “Comprami questo giornale, che imparo tutto sui cavalli!”. E così è stato, da lì sono partito per questa nuova storia del Commissario.».
(da un'intervista a Stilos, 20.2.2007)


“Raprì l’occhi, si susì, annò alla finestra, spalancò le persiane. E la prima cosa che vitti fu un cavaddro, stinnicchiato di fianco supra la rina, immobile. La vestia era tutta ‘nsanguliata, gli avivano spaccato la testa con qualichi spranga di ferro, ma tutto il corpo portava i segni di una vastoniatura longa e feroci…”
Il commissario ha appena il tempo di convocare i suoi uomini ed il cavallo è sparito, rimane solo il segno del corpo sulla sabbia. Quello stesso giorno una donna "forestiera", Rachele Estermann, denunzia al commissario di Vigata il furto del suo cavallo mentre nelle scuderie di Saverio Lo Duca, uno degli uomini più ricchi della Sicilia, un altro purosangue è svanito nel nulla. Lo scenario della vicenda è il mondo delle corse clandestine, passatempo preferito di una certa aristicrazia terriera che scommette forte. E' in questo ambiente dorato che Montalbano deve indagare, perchè, dopo il cavallo, viene trovato cadavere anche un custode delle scuderie. Fra maggiordomi in livrea, baroni e contesse Montalbano è un po' a disagio, mentre "ignoti" entrano una, due, tre volte nella casa di Marinella: non rubano niente ma mettono tutto sottosopra, sembrano cercare qualcosa: ma cosa?
Ne "La pista di sabbia" spira un vento di novità, ritroviamo Ingrid e conosciamo la sua amica Rachele, che nella storia ha un ruolo importante. Nuovo è soprattutto l'ambiente e il personaggio sullo sfondo; i comprimari invece sono sempre loro: Fazio, questa volta un po' distratto e di cattivo umore, Mimì Augello costretto agli occhiali da presbite (ai quali Montalbano non intende rassegnarsi), Adelina che, questa volta, giocherà la sua parte nella risoluzione del "giallo". Livia è sempre più lontana e per questa volta rimane a Genova.


L'incubo è la Cavalla della Notte: la fantasima sganasciante, con froge e zoccoli. Abita la coscienza disfatta dal sonno, il buio accidioso degli istinti, la cecità delle tentazioni, il rodìo dei rimpianti e delle nostalgie nella costernazione per il tempo che si vor­rebbe fermo e invece sopravanza e soverchia. L'incubo è la qualità equina, 1'astrazione che governa questo romanzo di amazzoni e di allevatori di cavalli purosangue, ambientato tra scuderie e maneggi, ippodromi e piste: tra corse clandestine e corse di beneficenza. Un mondo nuovo sorprende e spiazza il commissario Montalbano. Una società che strepita a vuoto, su quella linea logora che a stento separa un vestibolo di ignavi, di smidollati e di viziosi (aristocratici alcuni, ma per lo più imprenditori e uomini d'affari), dall' «inferno» della vecchia e della nuova mafia. Un «suon di man» echeg­gia, in questo vestibolo, come in quel­lo dell'Inferno dantesco. Ma se i «cat­tivi» di Dante erano «stimolati molto» da «mosconi» e «vespe», questi luna­tici circensi spiaccicano sulle loro go­te nugoli di moscerini. Tutto ruota attorno alla carcassa rapita di un cavallo da corsa. E a un cadavere trova­to seminudo, con un proiettile in cor­po, buttato al sole e ai cani. Due ro­manzi si chiudono l'un dentro l'altro. Le piste si intrecciano e si confondono. Ciò che sembra chiaro al dritto, si ri­vela oscuro al rovescio. Montalbano ca­valca un doppio incubo. Monta dap­prima sulla «cavaddra-fìmmina». E poi, maldestro, inforca un cavallo di bronzo: un ordigno metamorfico, che lo trabalza «con la faccia verso il culo della vestia», e lo porta su piste di sab­bia, là dove le orme si sperdono e can­cellano. Montalbano è un aruspice an­nebbiato dai gabbamenti della memo­ria e dagli «incubi» dell'incipiente vecchiaia. Avrebbe bisogno di un paio d'«occhiali». Sente la bestia sotto di sé. Ma forse è lui stesso un «cavallo» condotto da eventi che non sa decifrare. Come la madonna Oretta di una novella del Decameron, il com­missario scenderà infine dai «cavalli» di «duro trotto» e di andatura sbagliata (a barzelloni e traballoni). Si ritro­verà. Tornerà ai consueti avvedimen­ti: trucchi, «sfunnapiedi», o «sal­tafossi». E ancora una volta, senza ausilio d'occhiali, saprà ricomporre, leggere, e raccontarsi, una «bellissima» storia.
Salvatore Silvano Nigro


Raprì l’occhi e di subito li richiuì.
Da tempo gli accapitava ’sta specie di rifiuto dell’arrisbiglio, che non era per prolungare qualichi sogno piacevole che oramà gli capitava di fari sempri cchiù raramenti.
No, era pura e semprici gana di restare ancora tanticchia dintra al pozzo scuro, profunno e càvudo del sonno, ammucciato propio in funno in funno, indove sarebbi stato impossibile che qualichiduno l’attrovasse.
Ma sapiva d’essiri irrimediabilmente vigliante. Allura, sempre con l’occhi ’nserrati, si misi ad ascutari il rumore del mare. Quella matina era una rumorata leggia leggia, squasi un fruscio di foglie, che s’arripitiva sempri uguali, signo che la risacca nel sò avanti e narrè mantiniva un respiro tranquillo. Epperciò la jornata doviva essiri bona, senza vento.
Raprì l’occhi, taliò il ralogio. Le sette. Fici per susirisi e in quel momento gli tornò a mente che aviva fatto un sogno del quale arricordava sulo come delle immagini confuse e staccate tra loro. Una magnifica scusa per ritardare tanticchia la susuta. Si stinnicchiò novamenti e richiuì l’occhi, tentando di mettiri in sequenza quei fotogrammi sparpagliati.

La pirsona che gli stava allato in una speci di grannissima spianata erbosa era ’na fìmmina, ora capiva che era Livia ma non era Livia, in quanto aviva la facci di Livia, ma il corpo era troppo grosso, sformato da un paro di natiche tanto enormi che la fìmmina faticava a caminare.
Del resto macari lui si sintiva stanco come doppo ’na longa passiata, per quanto non s’arricordava da quanto tempo erano ’n camino.
Allura le spiò: «Ci vuole molto?».
«Ti sei già stancato? Nemmeno un bambino si stancherebbe così presto! Siamo quasi arrivati».
La voci non era quella di Livia, era sgraziata e troppo acuta. Ficiro ancora un centinaro di passi e s’attrovaro davanti a un cancello di ferro battuto, aperto. Oltre il cancello continuava lo spiazzo erboso.
Che ci stava a fari quel cancello se a perdita d’occhio non si vidiva né una strata né ’na casa? Lo voliva spiare alla fìmmina, ma non lo fici per non risintiri la sò voci.
L’assurdità di passari attraverso a un cancello che non sirviva a nenti e non portava a nisciun posto gli parse talmente riddicola che fici un passo di lato per aggirarlo.
«No!» gridò la fìmmina. «Che fai? Non è permesso! I signori si possono irritare!»
La voci fu accussì acuta che a momenti gli spirtusava i timpani. Ma di quali signori parlava? Comunque obbedì.
Appena passato il cancello, il paesaggio cangiò, addivintanno un campo di corse, un ippodromo con la pista. Ma non c’era manco uno spettatore, le tribune erano vacanti.
Allura s’addunò che aviva gli stivali con gli speroni al posto delle scarpe e che era vistuto priciso ’ntifico come un fantino. Sutta il vrazzo aviva macari un frustino. Matre santa, che volivano da lui? Mai, in vita sò, era acchianato supra a un cavaddro! O forse sì, quanno aviva deci anni e sò zio l’aviva portato in una campagna indove…
«Montami» disse la voci sgraziata. Si voltò a taliare la fìmmina. Non era cchiù fìmmina, ma squasi un cavaddro. Si era mittuta a quattro zampe, ma gli zoccoli alle mano e ai pedi erano chiaramente finti, fatti d’osso, tant’è vero che li tiniva ’nfilati ai pedi come se erano pantofole.
Aviva sella e briglie.
«Montami, dai» arripitì.
Lui montò e quella partì al galoppo che parse un furgarone. Putupum, putupum putupum…
«Ferma! Ferma!».
Ma quella si misi a curriri cchiù forte. A un certo momento s’attrovò caduto ’n terra, col pedi mancino ’mpigliato nella staffa e la cavaddra che nitriva, no, arridiva arridiva arridiva… Po’ la cavaddra-fìmmina di colpo sgonocchiò supra le zampe anteriori con un nitrito e lui ’mprovisamente libero, sinni scappò.

Non arriniscì ad arricordarisi altro, manco sforzannosi. Raprì l’occhi, si susì, annò alla finestra, spalancò le persiane. E la prima cosa che vitti fu un cavaddro, stinnicchiato di fianco supra la rina, immobile.
Per un momento strammò. Pinsò di stari continuanno a sognare. Po’ accapì che la vestia supra la rina era reale. Ma come mai quel cavaddro era vinuto a moriri davanti alla sò casa? Sicuramente, quanno era caduto, doviva aviri fatto un debole nitrito, bastevole a fargli inventare, nel sonno, il sogno della fìmmina-cavaddro.
[...]
Quanno fu vicino all’armàlo e lo taliò, vinni assugliato da una botta di raggia incontenibile.
«Bastardi!».
La vestia era tutta ’nsanguliata, gli avivano spaccato la testa con qualichi spranga di ferro, ma tutto il corpo portava i segni di una vastoniatura longa e feroci, qua e là c’erano profunne ferite aperte, pezzi di carne che pinnuliavano. Era chiaro che a un certo momento il cavaddro, martoriato come s’attrovava, era arrinisciuto lo stisso a scappari e si era mittuto a curriri alla disperata fino a quanno non ce l’aviva fatta cchiù.
Era accussì arraggiato e sdignato che se avesse avuto tra le mano uno di quelli che avivano ammazzato il cavaddro, gli avrebbe fatto fari la stissa fine. Si misi a seguire le orme.
Ogni tanto s’interrompivano e al loro posto supra la rina c’erano i segni che la povira vestia era sgonocchiata, inginocchiandosi con le zampe di davanti.
Caminò per squasi tri quarti d’ora e finalmenti arrivò nel loco indove avivano massacrato il cavaddro.
La superficie della rina qui, per il violento trippistio che c’era stato, aviva formato come ’na speci di pista da circo ed era segnata da orme di scarpe che si sovrapponevano e dai segni degli zoccoli. Sparsi torno torno c’erano macari ’na corda longa e spezzata, quella con la quale avivano tinuto la vestia, e tri spranghe di ferro macchiate di sangue asciucato. Accomenzò a contare le impronte delle scarpe e non fu ’na cosa facile. Arrivò alla conclusione che ad ammazzare il cavaddro erano state massimo quattro pirsone. Ma altre dù avivano presenziato allo spettacolo stannosene ferme ai bordi della pista e ogni tanto fumannosi qualichi sicaretta.

(L'incipit qui riportato è stato pubblicato su La Stampa, 4.6.2007)



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