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La targa



Autore Andrea Camilleri
Prezzo € 1,00 (in allegato al Corriere della Sera - Sette)
Pagine 60
Data di pubblicazione 30 giugno 2011
Collana Inediti d'autore


Alla toponomastica compete il vezzo di battezzare strade e piazze, affibbiando nomi d'illustri e meritevoli ai luoghi del nostro vivere comune. E appunto l’intitolazione di una via a un fascistissimo don, vittima di un diffamatore e sovversivo, parrebbe ordinaria amministrazione per una comunità in camicia nera. Senonché nulla della faccenda è come appare: il decesso che sa un po' d'assassinio e un poco no, la vedova inconsolabile che al tempo stesso è femmina insaziabile, e pure il patriota e martire che chissà se la marcia su Roma l'avrà poi fatta veramente... Ecco allora che da ordinaria la delibera si profila assai impervia.,dopo che una fatale rivelazione s'innescava nel locale circolo littorio la sera dell'undici giugno millenovecentoequaranta, freschi freschi dell’entrata in guerra. No, dacché la toponomastica fu inventata, non s'era mai visto scompiglio pari a quello che per una targa stradale si generò, assurgendo a grottesco nazionale, nella placida cittadina di Vigàta.


Garibaldini e fascisti
Giallo a Vigata prima di Montalbano. Tutto comincia l’11 giugno 1940

Vigata, anno 1940. La sera dell'11 luglio, il giorno dopo l'entrata in guerra dell'Italia salutata dall'intero paese come se fosse «la vincita di una quaterna al lotto», al circolo Fascio & Famiglia ricompare, dopo cinque anni di confino a Lipari in quanto «diffamatore sistematico del glorioso regime fascista», Michele Ragusano. Siamo molti anni prima del commissario Montalbano, ma Andrea Camilleri è già lì, nella Vigata che in molti identificano con la sua Agrigento, in tempo per vedere Ragusano, allontanato dal circolo per indegnità, fare letteralmente pigliare un colpo a don Manuele Persico, «scheletro camminante» di novantasette anni, lunga barba bianca, squadrista «arraggiato» (arrabbiato) ai tempi della marcia su Roma. Il tutto semplicemente pronunciando una frase: «Il nomi di Antonio Cannizzaro vi dice nenti?»: otto parole come otto colpi di revolver che, nel corso del racconto, andranno tutte a bersaglio.
Comincia da qui, da questo colpo di scena, con il medico che si inginocchia, mette l'orecchio sul cuore del paziente e sentenza: «Morto è», La targa di Andrea Camilleri, racconto esemplare (in uscita domani con il «Corriere») con cui lo scrittore di Agrigento torna a un'epoca, il ventennio fascista, che già ha nutrito parte della sua narrativa, dalla Presa di Macallè ai racconti di Gran Circo Taddei e Il nipote del Negus.
Il «colpevole», per quanto di omicidio preterintenzionale (nel far venire un infarto a una persone non può certo esserci premeditazione) è a furor di popolo lo stesso Ragusano che subito viene preso a pugni e calci al grido di «assassino», finché i carabinieri lo arrestano più vivo che morto per tradurlo, condannato a quindici anni, nel carcere di Ventotene. Per lo squadrista quasi centenario, invece, ci sono funerali solenni, picchetto d'onore a lato del catafalco dove le spoglie giacciono con la camicia nera indossata per la marcia su Roma, peccato che la lunga barba bianca copra completamente la camicia e che il federale, venuto apposta da Montelusa per rendere omaggio al camerata sia costretto a ordinare che due fascisti a turno tengano sollevata la barba del cadavere in modo che si veda la camicia indossata. Segue la proposta di proclamazione di «vittima dell'antifascismo», da inscrivere nel Pantheon dei martiri, preludio all'intitolazione di una strada con la dicitura «Via Emanuele Persico, caduto per la causa fascista» e all'elargizione di una «pensione privilegiata» alla moglie venticinquenne.
Nel racconto c'è tutto il Camilleri che i lettori amano, la lingua, prima di tutto, quel misto di italiano e siciliano che ormai è il suo marchio di fabbrica e che viene compreso anche oltre i confini dell'isola, l'ironia sottile, i personaggi a volte macchiettistici ma credibili, i dialoghi surreali, le metafore ardite per descrivere i rapporti d'amore e convenienza, le femmine di una bellezza da far spavento, gli «omini» in attesa che il frutto cada dal ramo, senza il coraggio, però, di dare una scrollata.
Lo scrittore apparecchia la scena da par suo, con pochi, sapienti tocchi, alternando ammiccamenti e affermazioni esplicite, battute e digressioni. Pagina dopo pagina tesse la sua tela procedendo a ritroso, fino al 1862, quando Manuele Persico viene liberato dai garibaldini dal carcere di Palermo dove, sedicenne, è stato rinchiuso, per aver preso a sassate un cannoniere dell'esercito borbonico. Il suo mistero parte da lì e arriva fino a Marsiglia in una danza di trasformismi e revisionismi sepolti nella memoria di pochi, che fanno di lui un vero e proprio carattere italiano.
La scena del consiglio comunale che dovrà decidere se revocare o meno la targa a Manuele Persico è un capolavoro del compromesso dagli esiti esilaranti.
Cristina Taglietti (Corriere della Sera, 29.6.2011)





Prezzo € 10,00
Pagine 90
Data di pubblicazione 28 agosto 2015
Editore Rizzoli
Collana La Scala
e-book € 5,99 (formato epub/Kindle)


Con lo scritto Caro Maestro di Giuseppina Torregrossa

Vigata, 1940. La sera dell’11 giugno, il giorno dopo l’entrata in guerra dell’Italia salutata dal paese intero come «la vincita di una quaterna al lotto», al circolo Fascio & Famiglia ricompare d’improvviso, dopo cinque anni di confino in quanto «diffamatore sistematico del glorioso regime fascista», Michele Ragusano. Nessuno, com’è inevitabile, lo saluta, ma gli animi in un attimo si riscaldano e volano male parole: fin quando a don Emanuele Persico, novantaseienne tutto pelle e ossa, squadrista della primissima ora, prende letteralmente un colpo. Tutto perché Ragusano gli ha chiesto con tono di sfida: «Il nomi di Antonio Cannizzaro vi dice nenti?». Qualcuno si inginocchia, avvicina l’orecchio al cuore del vecchio e sentenzia: «Morto è». Comincia così un esilarante circo di celebrazioni postume, di opportunismi e di verità sepolte, in cui ognuno eserciterà quell’arte sottile che è propria degli italiani d’ogni epoca: l’arte del revisionismo e del compromesso.


La sira dell'unnici di jugno del milli e novicento e quaranta, vali a diri il jorno appresso alla trasuta 'n guerra dell'Italia allato all'alliata Germania, nel circolo Fascio & Famiglia di Vigata comparse 'mproviso Micheli Ragusano.
Naturalmenti squasi nisciuno jocava, tutti stavano a parlari 'nfervorati di quello che era capitato il jorno avanti, quanno il paisi 'ntero, vecchi, picciotti, fimmini e picciliddri e pirsino malati che per la granni occasioni avivano lassato il letto, era scasato per scinniri 'n piazza ad ascutari il discurso di Mussolini trasmesso dall'altoparlanti.
E appena che aviva finuto di parlari Mussolini era successo il virivirì, il quarantotto, il tirribilio, tutti a fari voci di «A morti la Francia!», «A morti l'Inghilterra!», «Viva il duce!», «Viva il fascismo!», e le pirsone parivano 'mbriache d'alligrizza e ballavano e satavano e cantavano 'ntusiasti «Giovinezza, giovinezza», come se la guerra fusse la vincita di 'na quaterna al lotto.
Erano cinco anni e passa che Micheli Ragusano ammancava da Vigata, eppuro manco uno che fusse uno della vintina di soci che sinni stavan a jocare o a chiacchiariare ricambiò il sò saluto o gli spiò come se l'era passata in tutto quel tempo.
Il fatto era che quei cinco anni Ragusano sinni era stato confinato a Lipari, 'n seguito a una connanna avuta come "diffamatore sistematico del glorioso regime fascista" epperciò non era prudenti ammostrarisi in confidenzia con lui, tanto cchiù che quella sira era prisenti macari Cocò Giacalone, un omo granni, grosso e manisco che era cognito essiri 'na spia del Fidirali e dal quali macari i fascisti cchiù fidati si quartiavano dato che era capace della qualunque. Micheli Ragusano, che quell'accoglienza se l'aspittava, senza diri né ai né bai annò alla rastrillera dei giornali, sinni pigliò uno e s'assittò a un tavolino mittennosi a leggiri. Fu a questo punto che Cocò Giacalone si susì, la facci 'nfuscata, s'avvicinò a don Filippo Caruana, il presidenti del circolo, che si stava facenno la solita partita di trissetti e briscola, e gli parlò concitato all'oricchio.
«Ma è propio nicissario?» spiò dubitativo don Filippo.
«Nicissarissimo!» replicò duro Giacalone.
«Ora?»
«Ora!»
Don Filippo posò a lento le carti, si susì di malavoglia, anno al tavolino indove stava Ragusano e dissi, mentri che nel saloni tutti 'ntirrompivano il joco o la finivano di chiacchiariari e stavano a taliare quello che stava capitanno: «Miche', tu ccà non ci puoi stari».
«Pirchì? Moroso sugno?»
«No.»
«E 'nfatti mè mogliere mi dissi che ha sempri pagato le quoti annuali d'iscrizioni.»
«Vero è. Ma non si tratta delle quoti, ma del fatto che sei stato radiato da socio.»
«Radiato? E da quanno?» «Tri jorni doppo che sei stato mannato al confino, l'assemblea dei soci, appositamenti arreunita su proposta di Cocò Giacalone, all'unanimità, ha addeciso che tu non eri cchiù digno di farne parti.»
«Accussì sta la cosa?»
«Accussì.»
«E vabbeni» fici frisco frisco Ragusano, «levo il distrubbo. Bona sira a tutti.»
«Un momento!» 'ntirvinni don Manueli Persico.
Ragusano risto susuto a mezzo. Tutti s'apparalizzaro. Omo arrivirito e arrispittato, don Manueli Persico, 'ntiso 'u nonno, aviva novantasetti anni e assimigliava cchiù a uno schelitro caminante, sia puro uno schelitro con una gran varba bianca, che a un omo. Era talmenti peddri e ossa e pisava tanto picca ma tanto picca che quanno tirava tramontana usava mittirisi 'n sacchetta a dù petre grosse per non farisi strascinari 'n celo dal vento. Ma aviva 'na voci ancora potenti.
Nel milli e novicento e vintidù, a sittant'anni passati, era stato squatrista arraggiato, col manganello e l'oglio di ricino, e si era fatto la marcia su Roma. Binito Mussolini, che l'aviva notato, l'aviva acchiamato "nonno" e aviva voluto che sfilassi 'n prima fila, subito appresso ai quatrumviri della rivoluzioni, a braccetto di un giovane fascista manco diciottino. Da allura era stato un fascista firventi, sempri 'n prima linia nelle manifestazioni e sempri pronto a mittirisi la cammisa nivura a ogni occasioni. Aviva fatto dimanna di volontario nella guerra contro i bissini e in quella contro i comunisti spagnoli, ma le dimanne erano state arrefutate a scascione dell'età avanzata. Era a lui che attoccava l'onuri di diri nell'adunate: «Camerati, saluto al duce!». E la folla arrisponniva: «A noi!».
«Gravi scorrittizza vinni fatta!» proclamò don Manueli.
«Verso chi?» spiò don Filippo.
«Verso il qui prisenti Micheli Ragusano.»
«Si spiegasse meglio.»
«Prima di tutto vi voglio arricordari che il vero fascista è leali con l'avvirsario e giniroso con l'avvirsario vinto!»
«E questo lo sapemo» disse don Filippo.
«Lo sapiti, ma non lo mittiti 'n pratica. Aviti avvirtuto a Ragusano che era stato radiato?»
«Mi pari di no» fici don Filippo.
«E pirchì?»
«Ci passò di menti.»
«E questa è stata la prima scorittizza. Passamo alla secunna. Non essenno stato avvertuto, Ragusano, tramiti sò mogliere, ha continuato a pagari le quoti d'iscrizioni. È accussì?»
«È accussì» ammisi don Filippo.
«E allura v'addimanno: aviti rimannato narrè le quoti annuali o ve le siete 'ncamerate a taci e maci?» Don Filippo aggiarniò.
«Io non mi occupo della contabilità del circolo. Per questo c'è il raggiuneri Cosentino.»
Gnazio Cosentino, a sintirisi tirato 'n mezzo, si susì di scatto russo 'n facci.
«Non jocamo a futticompagno! Ognuno si pigli le sò risponsabilità! Io non ho arricivuto nisciun ordini di restituiri le quoti alla mogliere di Ragusano e vi fazzo macari prisenti che io sugno socio da quattro anni e che perciò non c'ero quanno addecidistivo la radiazioni! Io di 'sta facenna non ne sapivo nenti di nenti!»

[...]

(L'incipit qui riportato è stato pubblicato su Il Messaggero del 27.8.2015)



Last modified Saturday, November, 21, 2015