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La volata di Calò



Autore Gaetano Savatteri
Prezzo € 12,00
Pagine 124
Data di pubblicazione 8 maggio 2008
Editore Sellerio
Collana fuori collana n.21
e-book € 8,49 (formato epub, protezione acs4)


Con uno scritto di Andrea Camilleri

Artista della meccanica, protagonista dell'industria, dal suo paese di zolfatari siciliani Calò Montante lanciò i suoi «Cicli Montante» in tutt'Italia: la biografia col piglio narrativo di un'avventura.

«A un quarto circa del percorso, Alfredo forò per la terza volta. E io decisi di abbandonarlo al suo destino, visto che la mia bicicletta procedeva imperterrita, salda, forte, non subiva forature, la catena rimaneva sempre ben ferma al suo posto, i raggi nelle cadute non si rompevano, il manubrio non si piegava di un millimetro, una vera meraviglia. Ripresi, da solo, il mio viaggio. E ogni tanto le parlavo, alla bicicletta, carezzandole la canna come se fosse la criniera di un cavallo».
Andrea Camilleri

Prima e più dell’automobile, la bicicletta è stato il mezzo di trasporto per eccellenza della società di massa. Meccanica sofisticata e leggera, disponibile a tutti, il suo essere simbolo molto umano di modernità e di futuro affascinò subito gli spiriti liberi e industriosi. E storia di uno spirito libero e industrioso è questo libro: di un uomo che voleva soprattutto andare in bicicletta e cominciò a costruirne raggiungendo l’apice della perfezione. Consegnando un nome ardimentoso, la marca «Montante», alla storia delle due ruote e al loro mito. Calò Montante, classe 1908, scomparso ultranovantenne nel 2000, una vita fantasiosa e in movimento dedicata alla meccanica. Dietro la cui avventura trascorrono le prime gesta dello sport popolare, il Giro d’Italia, la rosa «Gazzetta dello Sport», il brivido del vento e della velocità, la prima mitologia dell’on the road. La biografia di un protagonista audace e innovatore dell’industria moderna. La cui parabola esemplare si svolge, per il carattere fantastico e ossimorico che spesso e volentieri la storia rinserra, nel luogo più antimoderno forse dell’Italia novecentesca: in Sicilia, a Serradifalco, arida terra di zolfare.



Una corsa verso la libertà

Da più di quindici giorni non sapevamo nulla di mio padre, rimasto a Porto Empedocle. Mia madre stava quasi impazzendo. Dopo lo sbarco alleato avevo visto passare dei marinai in ritirata e a qualcuno di loro avevo domandato notizie. Mi avevano concordemente risposto che Porto Empedocle era stata del tutto distrutta dai violenti bombardamenti e che i morti erano tantissimi.
Non resistetti oltre. Chiesi in prestito a mia zia Concettina la bicicletta che teneva in casa e partii con un mio cugino, Alfredo, di qualche anno più piccolo di me, e anche lui mancante di notizie dei suoi famigliari. Alfredo aveva una sua bicicletta, se l´era portata appresso quando era venuto a trovarci prima dello sbarco. Era una bicicletta di gran marca, costosa, della quale andava fiero. La mia, invece, era una Montante.
Che il viaggio, una cinquantina di chilometri, sarebbe stato perlomeno assai difficile, lo capimmo da subito, direi quasi dal primo centinaio di metri. Il fondo stradale non esisteva più. Non solo buche e avvallamenti, ma si camminava su uno strato composto da pezzetti di lamiera, da viti, da ruote schiacciate dai carri armati, da vetri rotti, da pezzi di fucili, da schegge di vario tipo, i resti insomma dei camion e dei mezzi italiani e tedeschi colpiti durante la ritirata e le cui carcasse bruciate giacevano ai lati della strada.
Ad Alfredo la prima foratura capitò fatti sì e no due chilometri. Ci colse un leggero scoramento.
«Se la strada è tutta così, non arriveremo mai».
Fatta la riparazione, ripartimmo. Ma il peggio venne da lì a poco. All´improvviso ci trovammo davanti un muro, fatto da jeep e carri armati che procedevano affiancati in senso opposto al nostro e non lasciavano varco nemmeno per uno spillo. Io, che marciavo in testa, pensavo che in qualche modo mi avrebbero lasciato passare, ma quelli non si spostarono e io, per non finire stritolato da un carro armato, mi gettai fuori strada, persi l´equilibrio e rotolai per qualche metro con tutta la bicicletta. Alfredo ebbe la stessa sorte. Solo che, al contrario di me, aveva di nuovo bucato. Perdemmo altro tempo. Poi, essendo la colonna militare diventata un pochino meno fitta, rimontammo in sella. Senonché, di tratto in tratto, la colonna tornava a infittirsi e noi venivamo regolarmente gettati fuori strada.
A un quarto circa del percorso, Alfredo forò per la terza volta. E io decisi di abbandonarlo al suo destino, visto che la mia bicicletta procedeva imperterrita, salda, forte, non subiva forature, la catena rimaneva sempre ben ferma al suo posto, i raggi nelle cadute non si rompevano, il manubrio non si piegava di un millimetro, una vera meraviglia. Ripresi, da solo, il mio viaggio. E ogni tanto le parlavo, alla bicicletta, carezzandole la canna come se fosse la criniera di un cavallo:
«Dai, brava, continua così».
Ogni tanto mi fermavo, un po´ per la stanchezza e un po´ per guardare meglio qualcosa che mi colpiva. Per esempio, a un tratto mi venne di traversare un paesaggio che mi sembrò un´immagine dell´inferno dantesco. Decine e decine di alberi troncati, arsi, anneriti dal fuoco, le stoppie diventate macchie scure sulla terra uniformemente bruciata, non un filo d´erba, niente più che fosse vivo. Era il teatro di uno scontro tra carri armati, cinque o sei dei nostri erano ancora lì, sventrati, combusti e dalla torretta aperta di uno di essi pendeva il corpo di un carrista che non aveva fatto in tempo a saltar giù. La giubba, rovesciata, gli nascondeva la faccia. Dalla tasca gli era caduto un pacchetto di lettere. Lo raccolsi, ripromettendomi di farlo avere, in un modo o nell´altro, ai suoi. Vicino agli altri carri armati, altri cadaveri. C´era un odore insopportabile, si era quasi alla fine di luglio e il sole arrostiva uomini, animali, piante.
Ripresi a correre, e via via che procedevo, mi andavo spogliando e gettavo via tutto, pantaloni, camicia, canottiera. Rimasi letteralmente in mutande e coi sandali ai piedi.
Lo facevo per il caldo, certo, ma sentivo di farlo anche per un´altra ragione che sul momento mi sfuggiva. Era dentro di me, quella ragione, e non riuscivo a tirarla fuori. E sentivo che, più che l´ansia per la sorte di mio padre, era quell´oscuro motivo che mi dava la forza di continuare a pedalare, malgrado la stanchezza più psicologica che fisica, malgrado la sete. Già, perché la borraccia era vuota da un pezzo e aveva seguito la sorte dei miei indumenti. Mi ero fermato solo una volta a domandare da bere a un contadino e poi non avevo voluto più perdere tempo. Fu quasi alle porte di Agrigento che vidi scritto sul muro di una casupola, a caratteri cubitali, con della vernice verde: «W la libertà». E allora di colpo capii la vera ragione per la quale mi ero spogliato strada facendo. Oggi può sembrare retorica ma allora non lo era per niente. Sentivo di dovermi presentare nudo davanti a una realtà nuova, e tanto attesa, come per una seconda nascita. Se avessi potuto, avrei gettato via anche la vecchia pelle.
Appena dentro Agrigento, scorsi un mio parente, lo chiamai. Non credo che ci fossimo reciprocamente simpatici, ma un attimo dopo ci abbracciavamo come fratelli superstiti di un naufragio.
«Hai notizie di mio padre?» domandai, mentre il cuore mi si fermava in attesa della risposta.
«Sì, ieri pomeriggio sono andato a Porto e l´ho visto».
Mi sentii diventare di ricotta. Le gambe non mi reggevano, tutti i fasci muscolari mi si erano allentati, non avevo più forze. Rimontai e dopo pochi metri, senza una ragione plausibile, caddi sul selciato. Fu la prima caduta che mi fece male, tra le tante di quel viaggio. Proseguii a piedi fino alla Passeggiata, dalla quale si vedeva il mare.
Solo che il mare non c´era più. Era stato sostituito da un ammasso di acciaio e ferro, da centinaia di navi affiancate fino a perdersi all´orizzonte, erano in attesa del loro turno per scaricare i rifornimenti bellici per l´esercito alleato. Restai esterrefatto. Un tale, che mi stava in silenzio accanto, a un tratto commentò: «Si potrebbe arrivare a piedi in Tunisia».
Per fortuna la strada che da Agrigento portava al mio paese era quasi tutta in discesa, così potei farcela. Il corso però non potei percorrerlo in bici, dovetti smontare. Vi passavano centinaia e centinaia di anfibi che portavano gli armamenti dalle navi ai depositi e uscendo dal mare per trasformarsi da barconi in camion, lasciavano cadere l´acqua che avevano nelle chiglie, sicché mezzo metro di fanghiglia copriva le basole. Sulla facciata di una casa c´era un cartello enorme con sopra scritto:
«Chi trova bombi - od altri ogeti inexplosivi - non tocare le! - ma portare le - al commando».
I miei paesani si chiedevano perplessi:
«Ma se non le possiamo toccare, come facciamo a portarle al comando?».
Trovai mio padre in Capitaneria. Gli americani l´avevano nominato "Master harbor", comandante civile del porto, e non poteva lasciare il suo lavoro.
Mi diressi verso casa, avevo l´assoluta necessità di lavarmi, di distendermi su di un letto. Ma dal portone di casa si partiva e procedeva lungo le scale un´ordinata fila di soldati americani ognuno munito di sapone e asciugamano: avevano scoperto che il mio appartamento era uno dei pochi muniti di vasca da bagno e doccia e lo stavano adoperando. Spiegai chi ero (quasi tutti erano figli di siciliani emigrati negli Usa e parlavano il dialetto) e mi cedettero immediatamente il primo posto nella fila.
In casa non c´era un mobile, uno specchio, una sedia, un libro, niente, mio padre mi spiegò dopo che approfittando dei bombardamenti che avevano preceduto lo sbarco gli sciacalli si erano portati via tutto.
Per dormire, si era procurato una branda militare e ne trovò un´altra per me. Su quella branda ho fatto, per la stanchezza e le emozioni, uno dei sonni più profondi della mia vita.


Andrea Camilleri

(Stralcio pubblicato in anteprima su La Repubblica, 4.5.2008, col titolo Contromano ai carri armati)



Camilleri, una gita in bici nella Sicilia che brucia

Fino all´ultima curva e fino all´ultima rampa è aspra. Anche cattiva, vicino alla cima. Il paese è dietro la collina, ancora nascosto da rocce aguzze e di un bianco color del sale. Per raggiungere Serradifalco la strada è uno strappo verso l´alto, un muro. Venendo dal bivio di Case Vecchie - dopo la lunga discesa che parte dal feudo di Polizzello («da Polizzello si difende la Sicilia», gridavano i contadini al tempo dell´occupazione delle terre) - la collina è proprio di fronte. È lì che comincia la salita.
«Per farla ci vuole la gamba», si dicono fra loro e nel loro gergo i corridori quando infilano uno dopo l´altro il primo tornante. Ed è solo quando passano dall´altra parte, dondolando in piedi sui pedali, che lentamente dimenticano la fatica e lentamente cambia anche il paesaggio. Contrada dopo contrada, campo dopo campo. Un pianoro, le prime case alla periferia di Serradifalco, le prime vigne di Canicattì, e poi Racalmuto e poi Grotte fino ai peschi di Castrofilippo. A Favara già si sente l´odore del mare. Ancora una scarpata, ancora una fatica e c´è Agrigento con i suoi palazzi in bilico sull´argilla. Da Serradifalco sono cinquantacinque chilometri. Gli stessi cinquantacinque chilometri lungo i quali, più di mezzo secolo fa, su una bicicletta si incrociarono due vite. Quella di Andrea Camilleri e quella di Calogero Montante.
Il primo era un ragazzo siciliano di diciassette anni che sarebbe diventato un famoso scrittore. Il secondo, appena un po´ più grande, aveva un altro sogno. È sua la prima bicicletta montata, pezzo dopo pezzo, in un´officina in Sicilia. Ed è con una di quelle, che Andrea Camilleri ha percorso i cinquantacinque chilometri più lunghi della sua esistenza. Le loro storie lontane sono ricordate da Gaetano Savatteri in un racconto per la Sellerio che sarà in libreria giovedì 8 maggio: “La volata di Calò”. E celebrate dal Giro d´Italia, che quest´anno parte dall´isola e dedica l´ultima parte della sua seconda tappa - proprio quei cinquantacinque chilometri della Cefalù-Agrigento di domenica 11 maggio - all´autore del commissario Montalbano e al primo ambasciatore del ciclismo in Sicilia.
Un salto indietro negli anni. È l´estate del 1943, la notte fra il 9 e il 10 luglio gli Alleati sbarcano a Gela. In quei mesi tutti abbandonano la costa e si rifugiano nell´entroterra. Per sfuggire ai bombardamenti anche Andrea Camilleri trova riparo con la madre, le zie e i nonni a Serradifalco, un piccolo paesino fra le campagne di Caltanissetta. Da quindici giorni non ha notizie di suo padre, "comandato" alla Capitaneria di Porto Empedocle. Vuole vederlo, vuole tornare nella sua casa in riva al mare. Sua zia Concettina gli presta una bicicletta. Ci monta su e, sulla strada occupata dai camion americani che arrancano fra la polvere in senso contrario, arriva fino alle porte di Agrigento. È una bici Montante quella che lo porta dal padre, progettata da Calogero - Calò - che nell´estate del ‘43 è ancora sul fronte jugoslavo. Destini che si attraversano a distanza, due giovani siciliani che non si incontreranno mai. È la trama del libro di Savatteri: una bici, la guerra, la Sicilia.
La vicenda è tutta ambientata dentro i confini dove passerà quella tappa del Giro, l´isola delle zolfare «che avevano nomi terribili e suggestivi», Rabbione, Giulfo, Stincone, Apaforte, Marici, Dragaito, «un presepe infernale gravido di fumi, di aria irrespirabile, di sotterranea violenza, di carrettieri prepotenti, picconieri ubriachi, carusi piegati e piagati, soprastanti mafiosi», la Sicilia più interna e dolorosa. È fra quelle colline arse intorno a Serradifalco che all´inizio dell´altro secolo nasce Calò, Calogero Montante.
Sono settantuno i Montante di Serradifalco che vengono registrati dagli ufficiali della dogana di Ellis Island, tutti parenti vicini e lontani della sua famiglia, tutti emigrati in cerca di fortuna «all´America». Ma i genitori di Calò sono possidenti, hanno terre, non conoscono quella disperazione che spinge gli altri a imbarcarsi sui bastimenti. Il ragazzo cresce nell´officina di uno zio, il fabbro. Sono gli anni dei primi Giri d´Italia. Binda. Guerra. Girardengo. Le loro imprese sportive arrivano con le cronache della Gazzetta dello Sport anche in Sicilia, fino a Serradifalco. Nell´officina dello zio, Calò fantastica su una bicicletta. Sua, tutta sua. Ricorderà poco prima della morte: «Era un sogno che mi portavo dietro fin da bambino. Erano tempi duri, la bicicletta era un mezzo di trasporto per pochi facoltosi. Una bici da corsa poi… Ma la mia passione era troppo forte, così mi costruii la mia prima bici Montante per correre la mia prima corsa».
Il marchio ha la data del 1926. La leggendaria Bianchi c´è da più di quarant´anni, dal 1885. Edoardo Bianchi già collabora con l´organizzazione del Giro d´Italia, è uno dei fornitori ufficiali della Real Casa Savoia. Ma Serradifalco non è Milano, la Sicilia delle pirrere, le zolfare, non è la Lombardia fra le due grandi guerre. È una terra assolata e dimenticata, dominata da campieri e dissanguata da agrari e conti e baroni. È lontana, primitiva, di una spaventosa povertà. In quella Sicilia Calogero Montante apre la sua fabbrica. In via Dante, a Serradifalco. Comincia dai telai.
Tanti telai. Bici da corsa e da passeggio, da uomo e da donna. Ha le sue biciclette Calò e vuole anche una scuderia, una sua squadra. Da una sartoria di Caltanissetta si fa confezionare le maglie, color ocra con banda centrale rossa e blu. Otto corridori. Uno è lui. Ancora un suo ricordo: «Le strade non erano come adesso, il fondo era in terra battuta, sterrato, con il rischio sempre di bucare e cadere. A volte rimanevamo fuori per giorni, ci spingevamo fino ad Agrigento portando con noi solo il necessario: una mantellina per la pioggia, un ricambio di scarpe e la biancheria. Per mangiare ci portavamo del pane e la frutta che trovavamo nei campi, i fichi d´India... Dormivamo sotto le stelle, abbracciati alla nostra bicicletta».
È il 1930, la prima volta del Giro d´Italia in Sicilia. Prima tappa Messina-Catania, seconda tappa Catania-Palermo, terza tappa Palermo-Messina. Binda non c´è. Gli offrono 22.500 lire per farlo restare a casa, troppo forte per gli altri corridori. È una delusione per Calò. Ma la sua volata continua. «Gira per l´Italia e gira sempre... Va spesso a Milano, per contattare aziende che producono fanalini o cercare il costruttore delle dinamo», scrive Savatteri ricostruendo i primi passi dell´avventura imprenditoriale di Calogero Montante. La passione e gli affari. Le prime commesse fuori dalla Sicilia, i primi appalti, i primi soldi. Le bici con il marchio Cicli Montante sono scelte da alcuni comandi della Polizia di Stato e dai Carabinieri. Per l´Arma Calò ne produce due modelli. Uno per la truppa, l´altro per gli ufficiali. Le prime pesano sedici chili e costano 450 lire, le altre 30 lire in più e sono elegantemente rifinite e a «gomma piena». La bici da corsa «fatta tutta» nel centro della Sicilia costa quasi mille lire. È il 1940.
Poi scoppia la guerra. La fame, le famiglie divise. Le bombe. Il ritorno di Calò in paese e la lenta ricostruzione, più lenta che nel resto d´Italia. Nel 1956 la Cicli Montante è un´«industria». E non produce più soltanto bici. L´azienda è grande, non è più come l´officina dello zio fabbro. A Serradifalco progettano e vendono in ogni angolo d´Italia ammortizzatori per veicoli. Un miracolo, in quella Sicilia. Nel 2000 Calò muore, a novantadue anni. Senza avere mai conosciuto l´altro siciliano, quello che con la sua bicicletta un giorno era in fuga, solo verso Agrigento.
Attilio Bolzoni
(La Repubblica, 4.5.2008)



Last modified Tuesday, October, 01, 2013