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Lettera a Giurgenti

Rosetta Romano ha dovuto insistere a lungo per ottenere queste quattro righe per la sua considerevole rivista e mi avrà certamente giudicato persona scortese. Il fatto è che la sua richiesta mi ha messo in imbarazzo per due ragioni: la prima è perché in qualche modo mi costringe a scrivere di me. Bisogna allora precisare che ci sono, tra le tante, due cose che sommamente detesto a veder mettere nero su bianco: l'autobiografia e il racconto basato sulle memorie personali e familiari.
Da Fucini ("una spronata uno sfaglio...") a Bilenchi ("mio nonno era...") a Pratolini ("conobbi mio fratello...") e giù giù anche nel senso della qualità letteraria, fino alle odierne Tamaro e Mazzantini, il mio rigetto è paragonabile solo a quello di cui morirono i primi pazienti operati al cuore da Barnard. La seconda ragione è che io non conosco Agrigento. Può apparire paradossale ma è così. Provo a spiegarmi.
Terminate le scuole elementari al mio paese, Porto Empedocle, i miei genitori m'iscrissero al ginnasio d'Agrigento. Comprarono dalla ditta "Lumia & Licata" un blocchetto di tagliandi, andata e ritorno valido per un mese e m'imbarcarono sulla corriera Porto Empedocle - Giurgenti delle sette e quaranta del mattino. Mi raccomandarono all'autista don Pedro, tracagnotto con i baffi e al bigliettaio, il signor Aguglia, alto, magrissimo, strabico. L'autobus delle sette e quaranta che arrivava a Giurgenti alle otto e un quarto, era interamente riservato agli studenti. Non perché così avesse deciso la ditta che gestiva i trasporti, ma perché nessuna persona dotata di buon senso sarebbe salita su quella corriera letteralmente in balìa di quegli studenti. Il percorso era lungo e periglioso, pieno d'imprevisti. Dopo Villaseta, per esempio, c'era la "miniera" così la chiamavamo, una discarica. Il giorno che Peppuccio Nuara vide nella "miniera" un vaso da notte, proclamò subito che si trattava del vello d'oro, e che bisognava conquistarlo. Facemmo tardi e per quel giorno fummo esclusi dalle lezioni.
La corriera fermava a Porta di Ponte, avevamo appena il tempo di comprare un panino con le panelle e di correre a scuola. Appena suonava la campanella d'uscita, ci precipitavamo verso l'autobus che ci aspettava col motore acceso.
Allora: in quel periodo Giurgenti per me è solo un autobus, una breve corsa su una strada, un'aula scolastica. Dopo, però, fu peggio. Divenne un luogo d'esilio.
Poiché ero diventato, non ho difficoltà ad ammetterlo, un "malacunnutta", i miei genitori straziati (figlio unico!) mi mandarono al Convitto Vescovile che oggi non c'è più, al Rabato. Dalle finestre del grande dormitorio si vedevano a sera tremolare le luci della marina (per chi non lo sapesse, il mio paese è detto "a marina"). E quindi prima di pigliare sonno un pianto convulso mi sconvolgeva, puntuale. Gli anni del liceo furono imparagonabilmente meglio. Una mia zia m'ospitò, ogni mattina per andare a scuola scendevo le ripide scale che portavano allo spiazzo san Calogero. Da queste scale vidi più volte il mio paese bruciare sotto le bombe ma in compenso Giurgenti era per me diventata più accettabile forse perché ero riuscito a farmi degli amici, anche al di fuori dell'ambiente liceale. Gaspare Giudice, Luigi Giglia, Mimmo Rubino, Carmelo Nobile, Ugo La Rosa, Enzo Lauretta (che di quegli anni ha scritto nel suo bel libro "I giorni della vacanza"). Parlavamo interminabilmente di politica, ma anche quelli che tra di noi erano di più accese idee fasciste concordavano nel ritenere l'adunata del sabato una coercizione insostenibile. L'alternativa agli esercizi paramilitari era il lavoro obbligatorio.
Decidemmo di andare a fare i tipografi presso le "Arti Grafiche" del mitico avvocato Francesco Macaluso, poeta ed editore. Da lì a far nascere un nostro giornaletto il passo fu breve, ne uscirono mi pare cinque numeri che andarono a ruba.
L'incrudelire della guerra e lo sbarco alleato ci divisero. Ma dopo, quando non avevo più bisogno di recarmi a Giurgenti per ragioni scolastiche, presi ad andarci quasi tutti i giorni, nel pomeriggio. Arrivato con l'autobus davanti alla stazione, scendevo le scale a fianco del palazzetto della Banca d'Italia e mi trovavo quasi in aperta campagna. Qui c'era la casa dove abitava Gaspare Giudice con il fratello e le due sorelle, la più grande delle quali, Lia, era stata mia insegnante e m'aveva fatto conoscere la letteratura italiana contemporanea. Appassionatamente adesso parlavamo dei libri che stavamo leggendo, io sottoponevo all'implacabile, intelligente ironia di Gaspare, i miei primi timidi scritti. Poi salivamo alla "passiata", dove c'erano già ad aspettarci Antonio Ruoppolo e Dante Bernini. Quindi iniziava la maratona, dalla stazione al manicomio e viceversa, il fitto parlare di tanto in tanto interrotto da una fugace "taliata" alle ragazze.
Sono convinto che tutto quello che sono diventato dopo, nel bene e nel male, lo devo a quei pomeriggi, al calore di quell'amicizia, alla passione di quelle discussioni.
Tutto qua. Mi chiedo: questo significa conoscere una città? Direi di no. Capisco d'avervi deluso, però così stanno le cose. A meno che conoscere un paese non significhi conoscere, e amare, le persone che dell'aria di quel paese si sono profondamente impregnati.

Andrea Camilleri

Testo pubblicato su Sintesi n. 2/1995 (riproposto su La Sicilia, 23 dicembre 2018)


 
Last modified Wednesday, December, 26, 2018