home page





 

Andrea Camilleri
Il linguaggio ritrovato

di Erminia Artese

 

«Dopo tanti anni passati come regista di teatro, televisione, radio, a contare storie d’altri con parole d’altri, mi venne irresistibile gana di contare una storia mia con parole mie [...] Molto giovane avevo scritto racconti e poesie, i primi pubblicati da quotidiani [...] le seconde da autorevoli riviste letterarie o... raccolte in antologie (tra tutte I poeti del Premio St. Vincent a cura di Ungaretti e Lajolo, editata da Mondadori nella collana Lo specchio). Volevo in qualche modo ripigliare il discorso interrotto. La storia la congegnai abbastanza rapidamente, ma il problema nacque quando misi mano alla penna». Così Andrea Camilleri racconta, la propria iniziazione alla scrittura narrativa nel 1967.
«Mi feci presto persuaso, dopo qualche tentativo di scrittura, che le parole che adoperavo non mi appartenevano interamente. Me ne servivo, questo sì, ma erano le stesse che trovavo pronte per redigere una domanda in carta bollata o un biglietto d’auguri. Quando cercavo una frase o una parola che più si avvicinava a quello che avevo in mente di scrivere, immediatamente invece la trovavo nel mio dialetto o meglio nel parlato quotidiano di casa mia». Se altrove confessa: «[…] è un mio difetto considerare la scrittura allo stesso modo del parlare”, raccontando di quei primi tentativi ammette che «[…] tra il parlare e lo scrivere ci corre una bella differenza». Infatti «[…] fu con forte riluttanza che scrissi qualche pagina in un misto di dialetto e di lingua. Riluttanza perché non mi pareva cosa che un linguaggio d’uso privato, familiare, potesse avere valenza extra moenia... Allora misi mano a quelle pagine e le riscrissi in italiano, cercando di riguadagnare quel livello di espressività prima raggiunto. Non solo non funzionò, ma feci una sconcertante scoperta e cioè che le frasi e le parole da me scelte in sostituzione di quelle dialettali appartenevano a un vocabolario, più che desueto, obsoleto, ormai rifiutato non solo dalla lingua di tutti i giorni, ma anche da quella colta, alta».
A una ricerca di linguaggio cominciata in modo così problematico fece seguito, una volta ultimato il romanzo Il corso delle cose, la difficile impresa di fare accettare il suo linguaggio ritrovato, «[…] che scorreva senza intoppi nel suo alveo naturale”, da quegli intermediari con i lettori – gli editori – che hanno da affrontare soprattutto problemi di natura diversa da quella letteraria. A quella scelta di linguaggio “naturale”, essi infatti opposero esitazioni, dubbi, resistenze. Ancora nel 1980 Livio Garzanti che si era detto favorevole a pubblicare il romanzo di Camilleri Un filo di fumo, pensò di risolvere la perplessità di alcuni suoi eminenti collaboratori con la richiesta all’autore di preparare un glossario dei vocaboli e delle espressioni non italiane usate, da pubblicare in calce al romanzo: «[…] quasi a guardarsi alle spalle”.
Non sappiamo se l’iniziale diffidenza di molti lettori ad affrontare un linguaggio farcito di vocaboli ed idiotismi propri di una sola regione italiana fu superata grazie alle straordinarie doti di affabulatore di Camilleri. È certo che molti tra quelli riluttanti si divertirono, a poco a poco, a far propri per gioco vocaboli e ammiccamenti verbali che avevano imparato da quelle pagine.
Il racconto di quella sua scelta linguistica – che si è voluto qui riferire un po’ pedantescamente con uno scopo preciso – tocca in tono dimesso e con gli accenti diaristici di una confessione personale, privata, questioni discusse da più di un secolo dagli scrittori siciliani.
Quando Camilleri dice che nei suoi tentativi di scrivere in italiano ha scartato le parole che «[…] trovava pronte per redigere una domanda in carta bollata o un biglietto d’auguri perché non gli appartenevano interamente», dice in sostanza di aver evitato l’anonimo e generico modo di esprimersi che usiamo oggi nella nostra vita quotidiana, quell’«italiano comune» che la televisione si vanta di aver contribuito a formare.
Quando dice di aver tentato una stesura in italiano «[…] con parole che appartenevano a un vocabolario, più che desueto, obsoleto, ormai rifiutato non solo dalla lingua di tutti i giorni, ma anche da quella colta, alta», tocca senza averne l’aria i problemi di lingua che si erano posti Verga e De Roberto. Ma questi – osservò Vitaliano Brancati – avevano intrecciato la ricerca dello stile con il tentativo di un rapporto con la realtà di raccontare. Verga, secondo Brancati, aveva trovato non quello che egli chiamava realismo, e nemmeno un modo di scrivere, ma soltanto «[…] un proprio tono di lamentazione funebre al di sotto della cultura e quasi della storia, un tono estremamente particolare a un comportamento oltre che all’autore, il quale voleva scrivere la storia di una società, lui che mancava completamente di senso della storia, di spirito critico e di spirito di protesta». Lo aveva usato «[…] come uno stile, restando vittima di un malinteso che nemmeno oggi mi sembra del tutto chiarito. Come pretendere» […] che quel tono si potesse «[…] adattare a qualunque personaggio o vicenda, quasi si fosse trattato non di un tono ma di uno stile?» Sia Brancati, sia Sciascia riferiscono la risposta di Verga a Guglielmino, poeta dialettale, che insisteva perché si decidesse a cominciare la progettata storia della figlia di Mastro Don Gesualdo, La duchessa di Leyra: «La gentuccia, sapevo farla parlare; ma questa gente del gran mondo, no. Questi, per dire una cosa, mentiscono due volte: se per esempio hanno debiti dicono di avere il mal di testa. E dicessero ‘mal di testa’! No, dicono che hanno ‘l’emicrania’».
Quando, infine, Camilleri racconta la propria reazione infastidita a rileggere il proprio brano riscritto in italiano “colto”, dimostra di non aver dimenticato l’insistenza con cui Pirandello nell’ultimo decennio del secolo scorso denunciava «il peso e il freno della tradizione letteraria» sulla lingua italiana. «[…] Se mai letteratura o meglio tradizione letteraria ha fatto impedimento al libero sviluppo di una lingua, questa più di ogni altra è l’italiana... La lingua nostra, a volerla cercare, non si saprebbe dove trovarla; in realtà non esiste che nell’opera letteraria soltanto,....mentre gli illetterati continuano a parlare quella a cui sono abituati...ossia i vari dialetti natali...Quale sarà dunque la lingua di conversazione tra due persone colte appartenenti a due diverse aree dialettali? Un siciliano e un piemontese messi insieme a parlare non fanno altro che arrotondare alla meglio i loro dialetti, lasciano a ciascuno il proprio stampo sintattico, fiorettando questa che vuol essere la lingua parlata delle reminiscenze di questo o quel libro letto». Del resto lo stesso Pirandello quando si riferiva ai dialetti siciliani o piemontese o lombardo non intendeva quei dialetti nella loro genuinità rustica o paesana, ma il sopradialetto, il cosiddetto “dialetto borghese”. Lo precisò nella prefazione all’edizione in siciliano di Liolà.
Camilleri, nel coniare il linguaggio della propria scrittura narrativa, non ha l’ambizione di legare la propria scelta a una poetica predeterminata, né verista né altra, come avevano fatto dichiaratamente Verga e De Roberto. Lo spingevano alla narrativa il suo spiccato talento per l’affabulazione e per la rappresentazione di situazioni comico-grottesche: il modo in cui la scelta delle storie (sulla quale dall’inizio non aveva dubbi) si innesta in questa inclinazione, lo avrebbe portato a una soluzione poetica personale. Non deve ingannare la dimessa cronaca della sua iniziazione: è il resoconto sornione di uno che, se di scrittore non aveva ancora la patente ufficiale, gli scritti le idee e gli atteggiamenti degli autori siciliani del passato recente e lontano li conosceva tutti molto bene.
L’estate del 1999 durante la presentazione a un pubblico variamente informato del suo romanzo, La mossa del cavallo, si è trovato a citare estemporaneamente una riflessione di Pirandello sullo scrivere in dialetto: il celebre drammaturgo riteneva che servisse a rivelare «[…] il modo di pensare dei personaggi». Ora la scrittura di Camilleri non solo è intessuta di un lessico dialettale e di idiotismi siciliani mescolati a quelli italiani, ma la sua costruzione sintattica, gli anacoluti, l’uso allusivo di certe interiezioni, le domande che devono restare senza risposta o che ottengono reticenti risposte monosillabiche, i sottintesi che separano una scena dalla successiva, vengono a formare una retorica che inventa molto di più dei vocaboli e degli idioms locali: e cioè una ambientazione precisa, che non ha bisogno di essere altrimenti descritta; una ambientazione non solo linguistica e geografica, ma preparata a divenire luogo di presenze e comportamenti già previsti.
La società rappresentata è quella siciliana che il lettore di De Roberto, di Capuana, di Pirandello, di Brancati, di Sciascia ha avuto modo di conoscere bene. Escludiamo da queste considerazioni sui romanzi di Camilleri, le sue storie il commissario ambientate al giorno d’oggi, che hanno al centro il commissario Montalbano: la presenza di questo personaggio che lo scrittore inventa come perno per lo più, di racconti e l’epoca in cui si muove portano a un diverso rapporto con il lettore. Parliamo del mondo della Sicilia tardo-ottocentesca che popola i primi romanzi oltre a La mossa del cavallo, le cui vicende sono in gran parte “ritagliate” da documenti di archivio, di amministrazioni locali, da lettere, diari, carte di famiglia - quando non da dettagli e particolari dell’Inchiesta sulle condizioni della Sicilia del 1875-76 che l’autore dice di aver trovato nella sua soffitta. Ebbene, quel mondo, Camilleri lo ha miniaturizzato. Non si vuole intendere assolutamente che lo abbia ridotto a una sorta di opera dei pupi o di operetta tragicomica. E nemmeno che i misfatti, gli intrighi, le truffe, le concussioni, le estorsioni, i ricatti, gli assassinii, come anche le caratteristiche dei comportamenti individuali perdano di peso nell’azione, in vista di una ricerca stilistica o di un gioco formale. Si vuol dire semplicemente che, proiettato com’è sulla piccola scala del paesino siciliano dal nome dichiaratamente inventato, quel contesto acquista dalla dimensione ridotta una portata a suo modo emblematica della società e del costume siciliano. La consuetudine malavitosa investe interessi che in qualche caso sono di portata minima, ma che comunque mettono in moto il meccanismo del malaffare provocando spesso. conseguenze enormemente sproporzionate all’entità del profitto perseguito. Lo stridore di questo contrasto che in alcuni casi l’autore esaspera paradossalmente, assume una portata grottesca dalla quale scaturiscono di frequente felici effetti comici.
Ne La mossa del cavallo l’autore potenzia la funzione del suo linguaggio con una trovata narrativa che, si direbbe, la eleva al quadrato: da spinta propulsiva all’ingranaggio dell’azione, come era stata usata negli altri suoi romanzi, la “parlata” assume la valenza di deus ex machina. Il protagonista, Giovanni Bovara, nato in Sicilia, genovese di elezione, ora trasferito come funzionario ispettore ai mulini a Vergata, (il paesino siciliano nato dalla fantasia di Camilleri) viene ostacolato nell’espletare le sue mansioni dalla cosca dei potenti locali e dai loro servi fedeli. Si rende conto che aver scoperto gli illeciti, le truffe e gli omicidi che essa ha perpetrato, non gli serve per portarli alla luce con procedimenti trasparenti. Capisce che quella losca alleanza è sostenuta prima ancora che dalla fame di profitti illeciti, dalla volontà di lasciare immutato lo stato delle cose che ha creato e nel quale prospera. La cosca, a sua volta, accertata l’impossibilità di risucchiare il genovese nelle proprie spire, lo fa cadere in una trappola che può essere mortale: fa cadere su lui l’accusa di aver ucciso un prete vizioso, che in realtà è rimasto vittima dei loro coltelli.
Il tranello è sostenuto da una rete di omertà in cui la parlata locale è elemento tutt’altro che secondario. Arrestato con l’accusa di omicidio, Giovanni imposta la propria difesa su di un espediente imprevedibile: adotta all’improvviso la parlata locale, che aveva appreso da bambino e che la situazione dei pericolo estremo gli ha fatto riaffiorare di colpo alla memoria. È una sterzata che stranisce i malavitosi: la loro prima reazione è persuadere gli inquirenti che l’accusato è diventato pazzo, e restano all’erta per far fronte alle mosse imprevedibili che suppongono egli stia escogitando.
Il lettore non è così ingenuo da credere che la trovata è solo un espediente comico: potrebbe anzi sulle prima sospettare che il protagonista oltre al modo di esprimersi dei suoi nemici abbia adottato anche il loro modo di pensare. Giovanni infatti ha capito che la possibilità di intendersi con la cosca dominante sta nella capacità di assimilarne la parlata in tutte le sfumature di significato, affidate anche alle varianti della pronuncia di una stessa parola, di manovrarla come arma di difesa e di indagine.
Bovara continua ad usare il suo nuovo linguaggio anche nel corso dell’interrogatorio a cui il giudice istruttore lo sottopone come accusato di omicidio. È un giudice siciliano. Ed è onesto. Si accorge che nella sua deposizione in dialetto (esilarante per i toni comici che derivano dagli effetti delle varianti di sui significati) l’accusato aggiunge al racconto veritiero dei fatti criminosi alcune supposizioni tendenziose (alle quali non crede), allo scopo di attirare l’attenzione del magistrato sul contributo che vi hanno portato tutti i componenti della cosca. Il giudice lo scagiona. Sa bene che sarà lui stesso, ora, e poi il suo successore il bersaglio della cosca sconfitta, ansiosa di vendicarsi. A confermare la sua aspettativa, il procuratore generale del Re lo informa che i malavitosi hanno già provveduto a farlo trasferire, mettendo in moto i propri referenti nel potere di centrale dei quali sono longa manus. Ai due magistrati a colloquio non resta che constatare quanto la mala pianta sia ben radicata.
Giovanni ha dunque imparato in che modo il linguaggio dei malavitosi può essere strumentalizzato, ai fini di chi lo parla, anche da un non malavitoso. Questa è la sua “mossa del cavallo”.
Il codice di cui quel linguaggio è parte essenziale comprende anche accordi non scritti, taciti compromessi e transazioni tra le parti. Un codice che Camilleri ha studiato bene da quando scriveva i primi romanzi. È la componenda di cui ha scoperto tanti esempi frugando negli archivi. La componenda era l’alveo «[…] al di fuori del quale non potevano darsi poteri, i quali si opponevano ad altri poteri annidati in alvei diversi: col risultato che il danno si riversava solo su chi per modestia, per debolezza, per isolamento, non riusciva a garantirsi nessun potere». Dai materiali, dai documenti che ha trovato, sono venute fuori le vicende, in gran parte grottesche, di quei prefetti, pretori ed ispettori che «[…] si è divertito a tirare in ballo quasi in fotocopia, pistiando e ripistiando sempre nello stesso mortaio».
Sulla natura della componenda la fonte più preziosa che aveva trovato è l’Inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia, attuata nel 1875. L’aveva deliberata una apposita Commissione parlamentare, in seguito alla presentazione alle Camere da parte del Consiglio dei ministri presieduto da Marco Minghetti di un disegno di legge per varare provvedimenti eccezionali di pubblica sicurezza atti a combattere il “malandrinaggio” in Toscana, Romagna e altre provincie. I nove commissari nominati avevano potere incriminatorio, ma «[…] non se ne avvalsero mai, nemmeno quando il vice-sindaco di Messina confessò di essersi a lungo intrattenuto con un noto e feroce bandito ricercato e di avergli offerto un sigaro invece di avvertire chi di ragione e farlo arrestare». Non se ne avvalsero nemmeno di fronte alle reticenze, alla false testimonianze, alle mancate denunce. Non batterono ciglio quando alla domanda «Esiste in Sicilia una forma di associazione distinta col nome di mafia?» si sentirono rispondere da un cittadino abitante in un paese dove la mafia imperversava: «No, mai sentii parlare di questa forma di malandrinaggio». Alla domanda «Si è mai creduto che la mafia e la camorra abbiano penetrato nei pubblici uffici?» l’unanime risposta fu «No, mai lo si è creduto».
«E così si continua a credere» – sottolinea Camilleri mentre analizza gli atti dell’Inchiesta – «anche quando si scopre che in un paese il settanta per cento dei funzionari pubblici è stato in galera o sta per andarci per fatti mafiosi o paramafiosi».
Ma dal lavoro preparatorio della Commissione emergono, sia pur molto raramente, voci che non si limitavano a registrare i reati commessi e il modo in cui si tentava di reprimerli. Il tenente Generale Alessandro Avogadro di Casanova, Comandante generale militare della Sicilia, aveva trovato, tra l’ampia documentazione raccolta, una bolla d’inchiesta. Tra gli atti della Commissione, alla quale egli l’aveva spedita, questa bollanon fu mai trovata. «E stata fatta sparire» – denuncia Camilleri – «Che cosa fosse in realtà lo sapeva solo Avogadro. Dell’accordo illecito tra briganti e poliziotti in cui consisteva la componenda di fatto, era senza dubbio una regola scritta... una versione laica e in certo modo addomesticata dell’originario tariffario a stampa emesso ufficialmente dal clero (bolla) con le percentuali da pagare alla Chiesa per i reati commessi. La compera della bolla da parte dei malfattori veniva automaticamente a costituire sottoscrizione di patto». E nella bolla non dovevano mancare gli elementi che attestavano il preciso tornaconto che il rappresentante della legge trovava nel comporre: la quota, la percentuale dovutagli per l’intermediazione.
Avogadro non si peritò di indicare alla Commissione «[…] le cause pressoché insormontabili che si oppongono alla repressione del malandrinaggio:» «[…] le suggestioni incessanti del clero, il pessimo esempio dato da taluni signorotti che col malandrinaggio si erano inpunemente arricchiti, gli istinti sanguinari ed inclinati al vizio e all’ozio, l’odio reciproco delle classi dei proprietari e dei proletari sono tali cause di pervertimento […] che la civiltà dei tempi che in altre popolazioni trovò così agevole e rapido cammino, in Sicilia si arrestò dinanzi a questa barriera di corruzione».
«Che i siciliani e i meridionali in genere siano, diciamo la parola giusta, selvaggi» – è costretto ad ammettere Camilleri – «erano molti a sostenerlo in quegli anni: e sono, coloro che abbracciano questa tesi, le prime vittime dell’obbedienza a uno schema ottico perverso e inculcato, per cui i conquistadores sono gli unici portatori di luce. Di conseguenza, se i siciliani sono selvaggi, la Sicilia non può essere trattata che come colonia». Erano pochissimi per contro,gli uomini come il Generale Casanova, il quale pur conoscendo bene le Sicilia, riteneva che «nell’isola avrebbe potuto svilupparsi la civiltà, ove si creasse l’humus propizio, abolendo privilegi e influenze nefaste.»
Quanto è diverso questo atteggiamento così aperto – e manifestato da un militare! – da quello che più di trent’anni dopo avrebbe espresso Pirandello nel romanzo I vecchi e i giovani ! Mentre racconta gli echi della repressione, nel 1884, dei Fasci Siciliani dei Lavoratori, lo scrittore che sarebbe diventato celebre in tutto il mondo lamenta «il rovinio sopravvenuto in Sicilia» dopo che l’isola era entrata a far parte del Regno d’Italia, «di tutte le illusioni, di tutta la fervida fede, con cui s’era accesa alla rivolta! Povera isola, trattata come terra di conquista! Poveri isolani, trattati come barbari che bisognava incivilire! Ed erano calati i continentali a incivilirli: calate le soldatesche nuove... calati tutti gli scarti della burocrazia: e liti e duelli e scene selvagge, e la prefettura del Medici, e i tribunali militari, i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in mome del Real Governo e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi; tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch’essa con provvedimenti eccezionali per la Sicilia. E usurpazioni e truffe e concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del danaro pubblico; prefetti, delegati, magistrati messi al servizio dei deputati ministeriali, e clientele spudorate e brogli elettorali; e spese pazze, cortigianerie degradanti; l’oppressione dei vinti e dei lavoratori, assistita e protetta dalla legge, e assicurata l’impunità agli oppressori[...]».
Camilleri cita questo passo in apertura di uno de suoi primi romanzi La concessione del telefono per un’autodifesa preventiva dall’eventuale fastidio che i lettori potrebbero provare a trovarsi di fronte, in ogni suo romanzo, «i soliti prefetti, i soliti questori» e le loro vicende grottesche del tempo in cui esercitavano il loro potere nei decenni successivi all’annessione della Sicilia al regno d’Italia.
La scelta di quella citazione allo scopo di “mettere le mani avanti” può suscitare nei lettori il sospetto che lo scoramento di Pirandello nei confronti del mancato sviluppo della “civiltà” in Sicilia abbia potuto contagiare Camilleri.
Certo le vicende che racconta su quel periodo non gli permettono di essere ottimista sulla storia della sua isola. Ma il pessimismo nei confronti di mali di una società che appaioni endemici può nascere da diverse prospettive culturali. «I vecchi e i giovani», scriveva Leonardo Sciascia è «un romanzo storico senza senso della storia». E altrove: «Pirandello era avverso al sistema della democrazia per motivazioni affettive e psicologiche – il padre garibaldino, lo zio Rocco travolto dallo scandalo della Banca Romana, il suo disprezzo per le forme di cacicchismo, (così gli spagnoli chiamano il clientelismo politico) cui il sistema dava luogo in Sicilia, e una specie di impotenza..., a vedere al di là degli uomini, degli individui, le grandi idee della storia». Del resto se il pessimismo di Pirandello nei confronti della civiltà in Sicilia ha radici psicologiche, «ancor oggi ad Agrigento» – precisa Sciascia, «è difficile scorgere sia pure un riverbero delle grandi idee - il socialismo, il cristianesimo, il liberalismo- negli individuiche nominalmente le rappresentano».
La prova che Camilleri condivide la perplessità di Sciascia.sul romanzo storico I vecchi e i giovani l’abbiamo quando egli porta in campo sulla questione del mancato sviluppo della “civiltà” in Sicilia le idee del principe di Salina, il protagonista de Il Gattopardo. «Invito il mio lettore a non farsi errato criterio circa le affermazioni che Tomasi di Lampedusa, autore del romanzo e principe anch’egli, mette in bocca al principe di Salina sull’antichissima e ormai sfatta civiltà dei siciliani […]. Il principe è assolutamente in buona fede dicendo quel che dice». Cosa dice e perché lo dice, lo interpreta anche Sciascia, ricordando le spiegazioni di don Salina a un alto funzionario piemontese suo ospite nel 1860: «La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle invocazioni di tanti cavalieri, di re Ruggiero, di baroni angioini, di legisti del Cattolico». È questa la ragione, secondo don Salina, per il quale «gli arabi hanno trovato la Sicilia ‘così’, nelle stesse condizioni in cui le trova ora il sottoprefetto di Vittorio Emanuele II».
«Di nobili siciliani illuminati e illuminanti ce n’erano stati, ce n’erano e ce ne saranno ancora.», riconosce Camilleri, (e sembra che risponda direttamente a quella reprimenda del principe). «Ma il fatto è che lo sguardo del principe Salina mira un paesaggio alpino […] dove superbamente vola l’aquila reale […]. Non guarda verso valle, verso le pianure dei latifondi.... Se avesse calato gli occhi e scoperto un paesaggio fitto di topi, ragni, serpi e scorpioni, avrebbe sottoscritto le opinioni del Generale Avogadro di Casanova e mai si sarebbe più azzardato a dire ‘noi siciliani’». Ora Avogadro di Casanova, quindici anni dopo l’epoca di Salina, fu tra quei pochissimi che sapevano come avrebbe dovuto procedere una vera inchiesta e lucidamente aveva individuato una di quelle barriere che ostacolavano il procedere della civiltà in Sicilia.(il costume della componenda e la sua ratificazione in una bollaa stampa) Ma era un militare e i commissari che lo interrogavano dovevano averlo avvertito – non c’è dubbio – che si limitasse a fare il militare e non si mettesse a fare il filosofo o il sociologo.
Tra i pochissimi che ai tempi dell’Inchiesta tentassero di farsi ragione e conto di certi andamenti difficilmente comprensibili dell’animo dei siciliani, ogni tanto si faceva sentire anche qualche cittadino privo di alte cariche. Nel 1874 la Gazzetta d’Italia pubblicò quattordici lettere «sulla pubblica sicurezza in Sicilia» scritte da un preside di ginnasio per denunciare la “babelica confusione nell’ordine delle idee morali […] ” e suggerire: «che non ci sono regole che valgano per una buona e savia amministrazione locale, se non si conoscono le ‘cagioni del malessere’, perché la questione non è solo amministrativa, ma essenzialmente sociale».
Ma nel labirinto delle “cagioni” del mancato sviluppo della civiltà le inchieste sulla Sicilia, «tutte, fino a quella di ieri, – conclude Camilleri – non hanno mai voluto addentrarsi».
E perciò si sono limitate a descrivere un paesaggio ai loro occhi di necessità indecifrabile e a cercare di modificarlo con maldestre, rozze pennellate di alti commissariati, superprocure, supergiudici «[…] senza conoscere la composizione dei colori».
I commissari nominati per l’inchiesta disposta nel 1874 erano partiti da Roma con le ferma determinazione di condurre gli interrogatori facendo parlare di fatti, di cose concrete: credevano di sapere come andasse tenuta a bada quella che chiamarono “l’ambiguità siciliana”. Uno di loro l’onorevole Francesco Paternostro, aveva avvertito i colleghi che occorreva non lasciar parlare gli interrogati in siciliano: «Altrimenti finiamo col non capirci più niente».
A differenza dell’onorevole Paternostro, Camilleri ha voluto che i suoi lettori ci capissero qualcosa nelle faccende della Sicilia prima e dopo l’incontro di Teano. Quel deputato non sapeva che esigendo dalle persone interrogate risposte solo in italiano, ben poco avrebbe appreso. Al contrario di lui, il nostro scrittore ha portato fuori del loro ambiente il linguaggio che essi parlavano tra le mura domestiche per penetrare nel loro modo di pensare. La scelta della sua “parlata” assume in Camilleri il valore di una dichiarazione della sua poetica di scrittore.
Una delle cose che egli ha voluto far capire con il suo linguaggio ibridato è il fatto che gli stessi siciliani non sono consapevoli delle “cagioni profonde e lontane” del mancato progresso verso la “civiltà” (ovvero verso uno Stato di diritto che non componga ma garantisca imparzialmente contro i torti) questo si deve anche perchè né politici né intellettuali hanno cercato di illuminarli.
Ci sono inoltre, in un piccolo angolo de La Mossa del cavallo, le amare verità che i due magistrati in campo constatano in poche battute dopo l’interrogatorio del protagonista. Il procuratore del Re, trasferito perché ha impedito l’eliminazione da parte di malavitosi di un funzionario dello Stato incapace di venire a patti con loro, avverte il giudice istruttore: anche lui avrà la stessa sorte, e così il suo successore, se, come lui, dimostrerà di essere incapace di componende. Ma intanto il suo trasferimento è già stato disposto, grazie a una componenda appena conclusa tra gli uomini della cosca locale e gli esponenti del potere centrale di cui sono longa manus.
«Al momento attuale tutte le leggi fanno l’utile di una parte contro un’altra» asserisce con amarezza il Platone che Camilleri si diverte a mettere a confronto col tiranno Dionigi di Siracusa in uno “scherzo” filosofico pubblicato su Micromega. Quando il filosofo si affretta a distinguere le leggi dalla Giustizia, e precisa che questa deve essere totalmente svincolata da ogni parte che abbia il potere; che potrà coincidere col potere solo quando questo sarà capace di rinnegare la sua natura di parte, rinunciando al dominio, Dionigi esplode in una risata così vibrante, da far scappare spaventati i suoi cani. Nutrito com’è solo di potere, il tiranno esplode in una reazione realistica: «Ma chi, sulla terra è in grado di esercitare il potere rinunciano al dominio?» E all’idea di Platone che solo i filosofi regnando sulle città con la ragione, possano mettere tregua ai mali degli uomini oppone la sua consumata esperienza di despota: «Non capisci che il libero esercizio della ragione può essere corrotto dall’esercizio del potere? E peggio ancora che il potere corromperebbe inevitabilmente la filosofia? […] La certezza di voi filosofi porta al dubbio continuo; noi politici amiamo la certezza, che è ordine. E la gente ama comunque l’ordine. O l’ordine comunque, se vuoi.»
C’è da temere che anche oggi “la gente”, questa entità astratta della quale come Dionigi, molti politici ricercano con ogni mezzo il consenso, ami “l’ordine comunque.”

 

(pubblicato su Gli argomenti umani. Sinistra e innovazione, Editoriale Il Ponte, anno I, n. 6, giugno 2000)



Last modified Wednesday, July, 13, 2011