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L’idea di ambientare in un unico paese d’invenzione tutta una serie di romanzi, anche tra loro diversissimi per contenuto e per periodo storico, mi è venuta mentre stavo scrivendo il secondo romanzo, “Un filo di fumo”. Non era certamente una novità, c’erano già stati, almeno a mia conoscenza, la contea di Yoknapatawpha di Faulkner, il Macondo di Marquez e, in un certo senso, anche la Narnia di C.S.Lewis.
Perché sentii questa necessità? Durante la composizione di quel romanzo ebbi improvvisa la coscienza che avevo molte cose da raccontare e che avrei dovuto scrivere molto, anche se gli editori mi avessero risposto picche. Come del resto era già accaduto con il mio primo romanzo, “Il corso delle cose”, rifiutato da tutti gli editori e rimasto per dieci anni nel cassetto a causa del linguaggio da loro considerato ostico.
Capii anche un’altra cosa e cioè che difficilmente avrei scritto qualcosa che non fosse ambientata in Sicilia e che non avesse come protagonisti dei siciliani. Il mio mondo narrativo era quindi segnato.
Devo confessare che sono un uomo discretamente ordinato, mi piace ritrovare le cose al loro posto.
E così mi dissi: perché non inventarmi un luogo dove possano convivere tutti i miei personaggi presenti e futuri? Con questo sistema li terrei, come dire, sempre sott’occhio, saprei dove e come vivono e qualora fossero arrivati nuovi abitanti avrei saputo già con buona approssimazione dove mandarli ad abitare. Nel caso poi di doverne ripescare qualcuno, avrei saputo con certezza dove andarlo a trovare.
Decisi anche che in questo luogo ideale avrei trasferito alcuni aspetti caratteristici del mio paese natale, Porto Empedocle, quali appunto la bella spiaggia, il porto, la torre di Carlo V, la “scala dei turchi” che è una lingua di marna candida che entra nel mare, la collina alle spalle del paese con in cima il cimitero, la campagna retrostante, e anche certa toponomastica. Ma non ne avrei rispettato la disposizione reale, quelle località le avrei spostate come più mi conveniva. Qualcosa, in tal senso, m’aveva insegnato Pirandello che nel suo “I vecchi e i giovani” aveva addirittura fatto scomparire una piccola collina per comodità di racconto. Forse fu per questo che, prima ancora di trovare un nome al mio paese inventato, stabilii che il capoluogo, Agrigento, si sarebbe comunque chiamato “Montelusa” perché così Pirandello l’aveva battezzato in una serie di racconti. Vigata invece mi venne per assonanza con il vicino paese di Licata.
Naturalmente, con l’accumularsi in breve tempo dei romanzi sia storico-civili sia polizieschi (la serie del commissario Montalbano) le mura ideali di Vigata cominciarono di necessità a diventare, come dire, a geometria variabile, allargabili o restringibili.
Vigata era una sorta di buco nero che assorbiva tutto quello che era capitato o capitava nelle sue vicinanze e si ingrandiva sempre di più. Ma aveva dei confini precisi oltre i quali non sarebbe andata mai, confini che corrispondevano esattamente a quelli della Sicilia.
Un critico ha definito Vigata “il paese più inventato della Sicilia più vera”.
Se stesse in me, correggerei così la definizione: “un paese, in parte vero, della Sicilia più inventata”.
Effettivamente io non mi sento in condizione d’affermare che nella mia Vigata ci sia la Sicilia “più vera”, c’è la mia Sicilia, com’è autenticamente sentita da me, e tanto mi basta. Molti sono infatti i giornalisti e i critici che m’accusano di presentare una Sicilia in qualche modo folcloristica e arretrata. Il divertente è che tra loro ci sono persone nate e vissute nel nord e che la Sicilia conoscono per avervi fatto un giro turistico. Ma io non sono tenuto in nessun modo ad attenermi al rigore del loro presunto “vero”. Il vero m’importa, certo, ma fino a un certo punto.
Chi sono gli abitanti di Vigata? La risposta più semplice è: i personaggi dei miei romanzi. Ma chi sono allora i personaggi dei miei romanzi? Ecco, devo venire allo scoperto: la mia ambizione è quella che gli abitanti di Vigata siano una sorta di campionario di uomini e donne di Sicilia. Non c’è che l’imbarazzo della scelta, i siciliani sono tra loro diversissimi per carattere, consuetudini, idee. Vitaliano Brancati, il grande scrittore di Catania, ne portava un esempio quando faceva il caso del signor A e del signor B, tutti e due siciliani, coetanei, e con le rispettive abitazioni divise solo da un pianerottolo. Ebbene, diceva Brancati, percorrere quel pianerottolo è come fare una traversata oceanica, tanto A e B sembrano appartenere a mondi diversi.
Ma c’è di più. Noi siciliani abbiamo subito tredici dominazioni o qualcosa di simile e di ogni popolo che ha calcato il nostro suolo abbiamo preso ogni volta il meglio e il peggio. Siamo bastardi e perciò dotati di una certa quantità d’intelligenza, come i cani bastardi lo sono rispetto ai cani che possono vantare un pedigree. La conseguenza è che il carattere di ogni singolo siciliano è prismatico, ha diverse sfaccettature che nel corso di una stessa giornata possono mostrarsi alternativamente. Per un narratore, questa particolarità rappresenta una vera ricchezza.
Come parlano a Vigata? In parte in italiano e in parte in dialetto, o più precisamente in quella parlata girgentana, cioè agrigentina, che Pirandello affermava essere la più vicina alla lingua italiana. Mi dicono che in Svezia tutti si danno del tu, il lei viene usato solo quando si vogliono prendere le distanze da una certa persona. Qualcosa di simile accade a Vigata: la lingua italiana viene adoperata quando tra quelli che dialogano non c’è confidenza o se si vuole dare al discorso un tono “ufficiale”. Il dialetto viene usato per la mozione degli affetti, per il parlare quotidiano, per esprimere sentimenti intimi.
Ma spesso i miei compaesani mi rimproverano di non far parlare ai miei personaggi un dialetto corretto. E’ vero, il mio è un paradialetto che non solo non esita a mischiare la specifica “parlata” contadina con la particolare “parlata” della piccola borghesia, che non solo mette in bocca a un vigatese espressioni proprie di altre province siciliane (“un siciliano ecumenico” lo definì Ruggero Jacobbi), che non solo è un dialetto che non vuole avere niente di letterario, che non solo fa rivivere parole ormai desuete, scomparse dall’uso comune, ma che addirittura azzarda parole completamente inventate. Insomma, a Vigata si parla una particolare forma di dialetto che si potrebbe chiamare, con buona pace di tutti, il vigatese.
C’è la mafia a Vigata? Certo che sì. A Vigata ci sono addirittura due famiglie mafiose, i Sinagra e i Cuffaro, che si contendono il controllo del territorio. Ma la maggior parte degli abitanti non lo sono. E non lo sono a tal punto che la mafia a Vigata rappresenta certo un problema, ma non primario. E’ un disturbo di sottofondo. Non vorrei dare l’errata impressione che tutto in Sicilia sia determinato dalla mafia. Anche perché nella realtà non è così. D’altra parte, se non avessi fatto comparire la mafia a Vigata, veramente questa sarebbe diventata una città completamente di fantasia.
E’ possibile andare materialmente a Vigata? Certo che sì. Ma in quale? Perché, a seguito dell’enorme successo della serie televisiva dedicata alle indagini del commissario Montalbano, Vigata si è sdoppiata. Quella letteraria si trova nella Sicilia occidentale, a Porto Empedocle e dintorni, quella televisiva nella Sicilia orientale, dalle parti di Ragusa e del grande barocco siciliano.
Cinque giovani ricercatori hanno pubblicato una guida informatissima ( “I luoghi di Montalbano”, Sellerio editore, 2006), e di volta in volta aggiornata, che illustra romanzo per romanzo le ambientazioni sia letterarie che televisive. La guida è stata utile anche a me, che di tanti miei luoghi vado perdendo la memoria.

Andrea Camilleri

(Pubblicato su Le Nouvel Observateur, Hors-série, 30 aprile 2009)


 
Last modified Wednesday, July, 13, 2011