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"Due capitoli per Andrea Camilleri"

ITALIANISTICA - Rivista di letteratura italiana, XXVIII, 2, maggio-agosto 1999, pp.207-220



RIASSUNTO :
Si procede all'analisi dei due romanzi dello scrittore siciliano Camilleri, Il corso delle cose e Il birraio di Preston, distanti in ordine di tempo e caratterizzati da differenti percorsi di scrittura, per misurare le modifiche delle capacità narrative dall'inizio faticoso ed incerto alla scorrevolezza anche troppo facile del periodo più recente. All'impianto tradizionale e all'intertestualità ristretta del primo romanzo si contrappongono, nel secondo, propositi di scrittura formalistica e un 'intertestualità più allargata. . Le due analisi potrebbero forse diventare capitoli di una monografia sull'autore: alla cui stesura osta però il ritmo frenetico con cui le opere narrative di Camilleri - e non soltanto in questi ultimi mesi di grande successo -invadono il mercato librario.

ABSTRACT :
Two works by the Sicilian novelist Andrea Camilleri (Il corso delle cose and Il birraio di Preston) are analysed in this research. There was a gap of many years between the publication of the two novels, and the style is consequently different. The present research intends to verify the changes in the fictional experience of the novelist, from the difficult and uneasy beginning to the fluent and the perhaps excessively easy style of his later works. The traditional fictional structure and the limited intertextuality of the first novel are compared with the attempts at formal and modernistic writing and a much wider intertextuality in the second. The research might become a significant chapter in a monografic study on Camilleri. However the writing of such a critical work is made almost impossible by the frequency with which Camilleri's new works ( and not only during these months of great success) are flooding the bookshops and the whole book market.

Analizzo due romanzi di Camilleri, il primo in ordine di tempo e uno dei più recenti, in pagine distinte, le quali potrebbero costituire, con opportuni accorgimenti e integrazioni ( assieme ad altre analisi già uscite o che stanno per uscire in rivista o Festschrift), altrettanti capitoli di una monografia sull'autore. Ma me ne dovrebbe venire gana (l'idioletto di Camilleri già mi contagia), e questo forse accadrebbe se l'autore rallentasse tanticchia il ritmo frenetico delle sue pubblicazioni a cui si stenta a tener dietro. Buon senso vorrebbe che un critico accademico, perciò di lente realizzazioni, con gli scrittori di rapida concezione non ci spartisse il pane 'nsemmula.

Il corso delle cose (Sellerio 1998)

Questo romanzo, dopo molteplici rifiuti di note case editrici, fu pubblicato per la prima volta nel 1978 in forma alquanto diversa dall'attuale, ma non ebbe diffusione. Pertanto, come afferma Camilleri nella nota finale dell'edizione Sellerio 1998 (Mani avanti), “è praticamente inedito”. La redazione definitiva 1998 restituisce il testo nella forma originaria, quella che l’autore era riuscito a dargli dopo circa due anni di lavoro, dal 1967 alla fine del 1968. L'opera segna dunque la scoperta di una vocazione e l'inizio di una carriera di romanziere. Le difficoltà maggiori, messe in evidenza dal lungo tempo dedicato alla stesura (lungo per un Camilleri che s'è fatto poi anche troppo rapido nella produzione delle sue opere) riguardano, come risulta dalla nota cui si è fatto prima riferimento, non l’ideazione della trama, che fu buttata giù in poco tempo, ma la scrittura, che andò incontro ad una serie di faticosi tentativi prima di assumere forma soddisfacente. Fu dunque un problema non di inventio, ma di elocutio. Camilleri all'inizio non riesce a scrivere in lingua, perchè si accorge “che le parole che adoperava non gli appartenevano interamente. Me ne servivo, questo sì, ma erano le stesse che trovavo pronte per redigere una domanda in carta bollata o un biglietto d'auguri”. Compone allora qualche pagina in quello che potremmo chiamare “lessico familiare”, cioè “un misto di dialetto e lingua” , e si accorge che “le parole scorrono senza grossi intoppi in un loro alveo naturale” .Non convinto però ancora della bontà dei risultati raggiunti, riscrive quelle pagine in italiano; ma capisce ancora una volta che il discorso non funziona. Le frasi e le parole scelte - lasciamo parlare ancora l'autore - “appartenevano a un vocabolario, più che desueto, obsoleto, oramai rifiutato non solo dalla lingua di tutti i giorni, ma anche da quella colta, alta” .Ritorna allora al misto di lingua e dialetto già individuato, confortato anche dall'esempio del Pasticciaccio gaddiano, che gli sembra fornire un tipo di linguaggio imitabile, e dopo quasi due anni di lavoro - come già sappiamo -, riscrivendo “non meno di quattro o cinque volte” le stesse pagine, giunge ad una stesura accettabile, che non è ancora però quella definitiva. Questa sarà raggiunta solo dopo le correzioni suggerite dall’amico Nicolò Gallo, attento lettore dell’opera. Camilleri dovette, pertanto, trovare un’espressione adeguata non solo alla realtà del mondo paesano che si faceva prepotentemente avanti ( siamo in un paese della Sicilia che non si chiama ancora Vigàta) , ma anche alle proprie capacità scrittorie, dato che riconosceva d'avere come possibile alternativa non già una lingua alta, di cui non era completamente padrone, ma soltanto un linguaggio obsoleto, inattuale, di tipo burocratico. Le difficoltà, dunque, furono ben diverse da quelle di tipo eminentemente incipitario messe in rilievo da Calvino nel suo Se un viaggiatore un giorno e dallo stesso Camilleri nel Birraio di Preston, consistenti nell'evitare percorsi già tracciati o convenzionali. Il taglio netto operato dall'autore fra schema narrativo ed espressione, intreccio e realizzazione linguistica ci autorizza ad esaminare separatamente, almeno per questo romanzo, i due elementi. Il loro rapporto non si pone, infatti, come dato aprioristico ed assoluto: è soltanto uno dei molti possibili. Lo schema, com'è ovvio, avrebbe potuto assumere un numero molteplice di vesti. Per quel che concerne, dunque, la trama, mi pare che il libro, nonostante l’indubbia capacità inventiva di Camilleri, faccia intravedere sullo sfondo il modello della narrativa sciasciana, per qualche significativo particolare tematico o situazionale. Tengo presente per il raffronto un solo racconto di Sciascia, Il giorno della civetta (I ed. 1961) , una delle sue prove narrative meno pessimistiche e corrosive.

Innanzi tutto, Il corso delle cose, in misura maggiore degli altri romanzi di Camilleri ambientati nella Sicilia contemporanea, riguarda fatti di mafia. Questi sono pervasivi proprio come nel Giorno della civetta, siano legati agli appalti (in Sciascia) o alla droga (in Camilleri). Nello stesso tempo, nell'uno e nell'altro caso, la delinquenza organizzata tende a far passare i suoi delitti come fatti di privata gelosia. La mafia, infatti, per settori dell'apparato statale e dell'opinione pubblica non esiste. Nel Corso delle cose il colloquio finale fra due anonimi personaggi d'autorità, dei quali l'uno riesce a persuadere l'altro che la mafia, a dispetto di ogni evidenza, è solo un 'invenzione e che “ qua da noi si muore solo di corna” , corrisponde al dialogo che si svolge analogamente tra due anonimi personaggi d'autorità alle pp. 58-63 del Giorno della civetta, durante il quale uno dei due convince l’ altro della nessuna relazione esistente fra un fatto criminale e “la cosiddetta mafia” , perchè tutto ciò che è stato scritto su di essa è pura fantasia. Il cedimento alle ragioni del persuasore è segnato, nell'uno e nell'altro testo, da battute similari: “Messe le cose su questo piano...” (Il giorno della civetta); “Certo che messa così la cosa...” (Il corso delle cose) . Nonostante l'opera di depistaggio condotta ai livelli superiori o inferiori e la trama delle apparenze, il maresciallo Corbo di Camilleri, così come il capitano Bellodi di Sciascia, non crede alla presenza della fimmina. Corbo, più che anticipatore di Montalbano, è discepolo di Bellodi, anche se quest'ultimo appare più colto ed astuto. È pacato e gentile con gli indagati ed i sospettati, che non aggredisce ma fa cuocere a fuoco lento, per infirmarne le capacità di resistenza e coglierli in contraddizione: seguendo in questo un disegno calcolato e preciso che in nulla ricorda l’improvvisazione e le folgoranti illuminazioni del commissario di Vigàta. Nel Giorno della civetta e nel Corso delle cose la gentilezza, , il comportamento paternalisticamente partecipe degli inquirenti intendono essere uno degli stimoli della doccia scozzese che può prevedere dall'altro lato il bastone di un preventivo pernottamento in camera di sicurezza:

Il capitano aveva pensato che a tenerli per un giorno intero nel bagnomaria delle camere di sicurezza, l'interrogatorio cui doveva sottoporli avrebbe avuto esito migliore: una notte e un giorno di disagio, di incertezza, avrebbero avuto su quei tre uomini il loro peso (Il g. della c. , p.64)

corrisponde a Alle otto, quando il maresciallo

Corbo si fece venire davanti il contadino, capì subito che a questi la notte aveva schiarito la mente. C'era dunque solo da terminare il cerimoniale iniziato con il pernottamento in camera di sicurezza, andare avanti con le minacce e le promesse perchè il contadino si sentisse con la coscienza a posto nel momento in cui si decideva ad aprire bocca (Il c. delle c., p. 40).

Anche certe inquadrature delle scene di interrogatorio in caserma hanno un'aria comune. Un passo del Corso delle cose:

il contadino era invece compostamente assistimàto davanti al tavolino e teneva gli occhi fissi sul ritratto di Saragat appizzato al muro (p. 19)

appare reminiscenza di un passo del Giorno della civetta:

I soci della Santa Fara eludevano lo sguardo del capitano: si guardavano le mani e poi alzavano gli occhi al ritratto del comandante dell'Arma, a quello del Presidente della Repubblica, al Crocifisso (p. 20).

Qualcosa di simile hanno anche gli antagonisti delle forze dell'ordine, che sono ai massimi livelli i due vecchi capi mafia o capi cosca, don Mariano per Il giorno e don Pietro per Il corso: anche se mandanti di delitti, non sono infatti di aspetto inquietante. Ostentano anzi pacatezza nel parlare, moderazione negli atteggiamenti, continenza nel tenore di vita: “tutto casa e parrocchia” il primo, intento a bere il solito bicchiere di latte il secondo. Configurati in tal modo il protagonista e l’antagonista, corrono su binari comuni anche i loro rapporti: non tanto dalla parte del rappresentante dello stato, perchè all'ammirazione di Bellodi per l'energia umana di don Mariano ( “sui quali [i rappresentanti corrotti dello stato] don Mariano aveva davvero il vantaggio di essere un uomo. Al di là della morale e della legge, al di là della pietà, era una massa irredenta di energia umana, una massa di solitudine, una cieca e tragica volontà. ..” ) non corrisponde analogo sentimento di Corbo nei confronti di don Pietro, quanto, invece, dalla parte del mafioso, dato che don Mariano e don Pietro hanno il massimo rispetto della professionalità dei loro avversari, nei confronti della quale cercano di mettere in guardia i loro più giovani ed inesperti collaboratori:

Non metterti in testa che gli sbirri siano tutti stupidi: ce ne sono che, ad uno come te, possono togliere le scarpe dai piedi; e tu cammini scalzo senza accorgertene dice don Mariano. E don Pietro di Corbo:

Corbo è una volpe, non te lo scordare. Corbo è uno sbirro vero, che una cosa dice e un 'altra ne pensa; ,

e con modo di dire'popolaresco che bene ribadisce il senso del discorso:

Corbo è santo che non suda (p. 91). ,

Di Sciascia è anche il motivo dell'assassinio che si aggiunge all'assassinio primario ( sempre legato al mondo degli affari ) ed è determinato dalla volontà di eliminare un testimone imprevisto che si teme possa parlare: Paolo Nicolosi nel Giorno della civetta, Vito nel Corso delle cose . Si possono indicare altre più limitate, anche se non meno significative, coincidenze fra i due romanzi. Per esempio, il modo di individuare colla dizione “l’uomo vestito di nero” un personaggio anonimo legato al potere mafioso, gregario nel Giorno della civetta, sicario nel Corso delle cose. L'uno e l'altro sono presentati mentre conversano al caffè con un complice di aspetto assai diverso dal loro. Si formano così due coppie di contrari:

Non mi piace -disse l'uomo vestito di nero [...] disse sorridendo l'uomo biondo ed elegante che gli sedeva a lato: anche lui siciliano, e soltanto nella struttura fisica e nei modi diverso dall'altro. Erano in un caffè di Roma (Il g. della c:).

L'uomo vestito di nero, scarpe gialle e cravatta rossa, assittato con una gamba stesa su un 'altra sedia, ad un tavolino del “ Caffè del porto ” [ ...] per liscirsi i baffi sottili, curatissimi [...] L'altro che gli stava assittato allato, tozzo, coppola tutta inclinata sulla fronte, camicia sbottonata sopra un paio di calzoni sbrindellati (Il c. delle c., p. 49).

L'uso di modi di dire impiegati in situazioni analoghe, per esempio l'associazione al morto del tavolino a tre piedi:

nel G. della c.:

Sì - disse il capitano - Nicolosi è morto: ma lei sa che qualche volta i morti parlano... - Col tavolino a tre piedi - disse con disprezzo Diego;

nel C. delle c.:

Ma se stava per lui, a quest'ora con Vito ci si poteva parlare solo con il tavolino a tre gambe (pp. 127-28).

O ancora l'attenzione prestata a costumanze locali. Si consideri l'importanza che ha nei due testi l'uso dell'“ingiuria” o soprannome. Il passo del C. delle c.:

Turi di cognome faceva Borgini, la ‘ngiuria con la quale era conosciuto [Santalucia] però gliela avevano messa che era ancora bambino, quando un'infezione agli occhi gli aveva minacciato la perdita della vista (p. 84).

presuppone non solo personaggi come Zicchinetta e Parrinieddu, ma anche la lunga e circostanziata lezione sull'“ingiuria” del G. della c.:

Lei disse ingiuria, e per la prima volta il capitano ebbe bisogno dei lumi interpretativi del maresciallo. - Soprannome - disse il maresciallo - qui quasi tutti hanno soprannomi: e alcuni così offensivi che sono propriamente ingiurie. - Poteva essere una ingiuria - disse il capitano - ma poteva anche essere un cognome strano come una ingiuria ... Lei non aveva mai sentito prima il cognome o ingiuria che pronunciò suo marito? [...] - Ci sono ingiurie che colgono i caratteri o i difetti fisici di un individuo - diceva il capitano - e altre che invece colgono i caratteri morali; altre ancora che si riferiscono a un particolare avvenimento o episodio. E ci sono poi le ingiurie ereditate, estese a tutta una famiglia; e si trovano anche sulle mappe del catasto …

La spiegazione di “ingiuria” è riproposta da Camilleri in un'operetta - del tutto inutile, come vedremo - dedicata a parole e modi di dire siciliani, Il gioco della mosca del 1995: ove compare anche l'interpretazione di “chiarchiaro” (“luogo impervio, desolato di sassi e saggina”), già formulata da Sciascia nel G. della c. Persino il titolo di Camilleri, Il corso delle cose, sentenzioso e consistente in una citazione da Merleau-Ponty, ben diverso dunque dai titoli di altri romanzi sempre aderenti alla concretezza del narrato (Il cane di terracotta, Il birraio di Preston, La voce del violino, ecc.), arieggia il titolo di Sciascia, analogamente sentenzioso e desunto da Shakespeare. I riscontri indicati non infirmano però l'originalità di Camilleri, che trova facilmente un suo personale spazio d'interpretazione dei fatti. Non accoglie, per esempio, due temi fondamentali del libro di Sciascia. Innanzi tutto, quello del contrasto fra avanzata cultura del Nord e arretrata cultura del Sud, rappresentato nel difficile impatto che il parmense Bellodi ha nei confronti della Sicilia in cui si trova a lavorare. Corbo non è settentrionale: conosce bene le tradizioni e il modo d'agire e di pensare dei siciliani. Una traccia assai esigua del contrasto è rimasta semmai nella reazione del carabiniere Tognin, veneziano, così presentato ad apertura di romanzo:

- Che tramonto bello! - fece il maresciallo Corbo scostando per un attimo il fazzoletto che teneva premuto sul naso. - Ce ne sono, dalle parti tue, tramonti così? - Il carabiniere Tognin avrebbe voluto rispondere di sì a parole, dire che dalle parti sue forse ce n'erano di meglio, ma era di Venezia, a certi spettacoli non era ancora abituato e sentiva di tanto in tanto uno strizzone di vomito che gli contraeva lo stomaco.

Un omaggio a Sciascia può forse essere considerata, nei successivi romanzi del commissario Montalbano, la presenza della settentrionale Livia, che ha qualcosa della Livia di Bellodi, animata da superficiale curiosità nei confronti della realtà siciliana. In secondo luogo, manca in Camilleri il tema, primario in Sciascia, dello stretto legame fra mafia locale e potere politico romano, rappresentato da ministri, sottosegretari e faccendieri vari. Nel C. delle c. la mafia è vista nei suoi chiusi confini regionali, come fatto eminentemente siculo. C'è già, ad anticipare un topos dei romanzi di Montalbano (si pensi alla rivalità fra le vicine Vigàta e Montelusa), il contrasto fra il luogo in cui è ambientata l'azione e Comisini, come risulta dalle chiacchiere dei frequentatori della barbieria, le quali, pur esprimendo il punto di vista beota di coloro che non credono al delitto di mafia, evidenziano la reale situazione delle rivalità locali:

-Delitto di mafia? Vogliamo scherzare? Il nostro è sempre stato un paese babbo, un paese stupido, qui gli omicidi, in dieci anni, si contano sulle dita di una mano sola, e sempre si è trattato di qualche cornuto risentito, di interessi, di qualche ubriaco di cervello caldo. Ma tutti fatti privati, personali. -Però la bomba che una settimana fa hanno messo nel garage dei fratelli Sciortino... -Quella, egregio amico, non conta. Allora dovremmo mettere nel mazzo anche la Mercedes di Liverna che saltò un mese fa? -lo ce la metterei. -E sbaglia. Perché tanto i fratelli Sciortino che Giosuè Liverna sono di Comisini, non sono di qua. Queste sì, che sono storie di mafia! -E allora? . -Ora vengo e mi spiego. Si tratta di mafia importata, come dire, di passaggio, venuta da noi a controllare l'impiego della manodopera al nuovo cementificio, manodopera che, lei mi insegna, è tutta di Comisini, Villagrande e Taro... (pp. 44-45).

Camilleri presta la massima attenzione a quel simbolo della realtà paesana che è il santo protettore. Appare già qui il culto di san Calogero, non semplicemente percepibile nel nome di tanti personaggi e di una trattoria (come nei romanzi successivi), ma ostentatamente e paganamente professato durante un intero giorno di festa. La festa è anche uno degli elementi strutturanti del romanzo. Questo infatti, in assenza di capitoli, risulta suddiviso cronologicamente in tre giornate, che occupano rispettivamente le pagine 13-36, 36-102, 102-138, pertanto con questa successione di segmenti di diversa misura: pagine 23, 66, 36.

Nella prima giornata (principio), in cui si verificano gli eventi che avviano la narrazione, si scopre un omicidio risalente a tre giorni prima e si verifica un attentato ad uno dei personaggi fondamentali, Vito. I due fatti risultano per ora inspiegabili e irrelati. Nella seconda giornata (mezzo o complicazione), che è quella della vigilia di san Calogero, procedono le difficili indagini sul delitto e le macchinazioni per far fuori Vito. E’ un lungo momento di attesa caratterizzato da oscurità sui moventi, sospensione del giudizio, lentezza nel procedere: a cui corrispondono le misure narrative lunghe delle 66 pagine. Ma è anche il giorno della vigilia di san Calogero e della preparazione alla festa. Convivono attesa del chiarimento e attesa del rito, durante il quale la pagana religiosità popolare avrà modo di manifestarsi. Nella terza giornata (fine o scioglimento), infine, in cui il ritmo degli eventi e della narrazione è svelto e concitato, coincidono da una parte scioglimento del dramma poliziesco, con l'uccisione di Vito e la scoperta del rapporto che esiste tra le due morti, dall'altra fine dell'attesa spasmodica della festa, con l'uscita in processione del santo e lo scatenarsi della superstizione popolare. La vicenda di Vito non solo precipita verso la naturale soluzione; ma la soluzione è addirittura anticipata, all'inizio del terzo segmento narrativo, da un sogno simbolico e rivelatore:

Stava a pancia sotto, il collo piegato di lato, un braccio attorno alla testa, l'altro abbandonato lungo il fianco. Nei pochi centimetri di terra che riusciva a vedere, limitati dall'arco che il suo braccio faceva, c'erano un verme e un filo d'erba. Il verme, di quelli bianchi e molli che si trovano sotto le pietre, si era messo in mente di arrampicarsi sul filo d'erba. Prima alzava la testina come il misurare la lunghezza del filo e il modo migliore di superare le difficoltà, poi, con le zampette più fini di capelli, pigliava ad attaccarsi. Per un poco cela faceva, ma, quando era arrivato a mezza strada, il filo d'erba lentamente si piegava. Il verme non se ne dava per sentito, continuava a faticare la sua salita. Tutt'insieme però il filo d'erba finiva di piegarsi, senza rompersi, e il verme, dopo aver cercato di restare in equilibrio, cadeva a terra malamente. Si torceva e si torceva, ma una volta che ripigliava a strisciare, al filo d'erba tornava. Era una cosa da uscire pazzi, a Vito veniva desiderio di schiacciarlo, ma non poteva muoversi, schiacciato com' era lui stesso contro il terreno dalle due canne di lupara che sulle spalle gli stavano appoggiate. “Come ti catamini, sei morto” gli aveva detto l'uomo infaccialato del quale, a momenti, riusciva a vedere gli stivali. Il sole batteva. Da un pezzo Vito aveva finito di domandarsi quando quello si sarebbe deciso a sparare. Ad un certo punto si persuase che pure l'uomo in piedi dietro di lui stava a taliàre il verme. “Cadi, cadi, per carità” cominciò a pregare col pensiero e forse il verme l'intese, perché a metà si voltò a taliàrlo come per dirgli che se ne poteva stare calmo, che tanto pure questa volta sarebbe stata come tutte le altre. Invece, come le altre non fu. Il. filo non si piegava, pareva diventato di pietra, e Vito aveva voglia di respirare forte, il filo d'erba non si muoveva. Tranquillamente il verme arrivò fino alla cima e anzi continuò a salire per un poco ancora. “Questa volta ce l'ha fatta” disse l'uomo col fucile, e sparò.

Non stupisce, pertanto, il fatto che la festa di san Calogero occupi buona parte del terzo segmento, introdotta in due diversi modi: come pervasiva ma spezzettata narrazione di singoli momenti, e come racconto continuato di una sua particolare occorrenza, quella de11946, presente S. E. Rev.ma mons. Rufino. Nell'uno e nell'altro caso si avverte in Camilleri la presenza di echi dannunziani, provenienti soprattutto da una delle Novelle della Pescara, L'eroe, dedicata alla descrizione della festività di san Gonselvo. Si tratta di presenze lessicali minime che contestualizzate costituiscono una rete di rapporti inequivocabili. Eccole:

D'Annunzio
[la statua] barcollò (due volte)
nerastra
pesantissima
le donne avevano tese le coperte nuziali

Camilleri
pericolosamente barcollava
[il santo è nero]
pesantissima
dai balconi parati con le coperte ricamate, quelle della dote



Non meno indicativi sono certi particolari di Camilleri che s'intendono appieno se considerati come rovesciamento o parodizzazione del testo dannunziano. Alle gocce di sangue che rigano la mano dell'Ummalido e l'altare di san Gonselvo si contrappone il vino che inebria i portatori di san Calogero e cola come un filo rosso dalle labbra continuamente irrorate del santo. In D'Annunzio il grembiule di una femmina dovrebbe servire a fasciare la mano dell'Ummalido; in Camilleri, con stravolgimento grottesco, un gatto vivo e miagolante serve ad asciugare il volto di san Calogero. All'assoluta dedizione dei portatori dannunziani che per fanatismo eroico non vogliono lasciare in nessun modo il loro incarico fa da contraltare la facilità con cui i portatori di san Calogero cedono per soldi il posto ai soldati negri:



A un certo momento domandarono macari di poter portare la vara, e gli scaricatori non si fecero pregare, forse perché il dispiacere di dover tanticchia lasciare il santo venne prontamente compensato con buona moneta degli stati (119-20).

La parodia è assai evidente proprio nella rievocazione della festa del 1946. Qui un ritmo concitato prende il posto della tragica gravità dannunziana. Concorre allo stravolgimento grottesco la partizione della folla in gruppi diversi, spesso individuati nella loro precisa composizione numerica: 12 scaricatori di porto sul primo scalone, altri 12 in fondo alla scalinata, 15 tamburinari, carabinieri, preti, poveri, bambini, negri. Tutto, si risolve in un veloce carosello di tipo felliniano.

Finite le fotografie, i portatori avevano sollevato senza sforzo la pesantissima vara e caricatasela sulle spalle avevano pigliato il fuiuto. Il santo - si sapeva - sempre di prescia camminava, sempre tante cose da fare aveva. Avanti si erano messi i preti, le tonache al vento obbligati a tenere quel passo di bersagliere, dietro venivano i tamburinari scatenati e dietro ancora i fedeli […] Intanto, mentre la processione lasciava le vie del centro, dove abitavano le persone civili, per andare verso i vicoli di periferia - sempre a passo di carica, dopo ore e ore di faticata, e ancora le madri dovevano scansare i figli piccoli per non farli travolgere - il santo cominciava a fare le sue pericolose acrobazie per entrare in certe stradette strettissime [...] Un reparto di soldati negri, che gli americani avevano lasciato a guardia non si sa di che cosa, appena in libera uscita tutt'insieme si fecero largo nella processione. A vedere un santo con lo stesso colore della loro pelle, i negri impazzirono di colpo. Tre tirarono fuori il mitra e si misero a correre davanti ai preti sparando in aria … (pp. 117-19).

C'è persino lo scoronamento del santo, che, ridotto a semplice uomo, è portato in libera uscita sul molo, a compenso della lunga cattività in chiesa. Col linguaggio del Corso delle cose siamo già sulla strada che porterà all'idioletto degli ultimi romanzi, anche se il rapporto fra lingua e dialetto non è ancora sempre risolto nel modo migliore. In molti punti, infatti, soprattutto all'inizio, si avverte come uno stridore fra i due tipi di espressione, non amalgamati e compenetrati lessicalmente e sintatticamente, ma semplicemente giustapposti e affrontati in lacerti disomogenei che trattano temi diversi. La lingua alta, addirittura liricamente atteggiata, connota di prevalenza gli stati d'animo e i paesaggi (concepiti ancora come topoi letterari), il dialetto, invece, la presentazione di realtà locali. Citiamo, come esempio di descriptio loci, il brano iniziale in cui, il solo carriche macchia la perfetta letterarità dell'insieme. Si noti però che, quando l'attenzione si sposta sul contadino, si abbassa il tono e si vena di dialettismi il dettato:

- Che tramonto bello! - fece il maresciallo Corbo scostando per un attimo il fazzoletto che teneva premuto sul naso, - Ce ne sono, dalle parti tue, tramonti così? [...] Effettivamente il tramonto era da godersi. Lontano, a ponente, verso il mare distante qualche chilometro, la sagoma frastagliata di Capo Rossello spiccava controluce, scura, sullo specchio calmo, arrossato, mentre da levante carriche nuvole d'acqua arrancavano verso il paese appena visibile ai piedi della collina sulla quale loro si trovavano. Un contrasto netto, tagliato col coltello, che aumentava il disagio di Tognin abituato a un paesaggio più morbido e pacifico. L'omaggio alla poesia era costato a Corbo una smorfia di schifo per la densa zaffata che gli si era subito attaccata alle narici: a settembre, in Sicilia, il sole batteva ancora forte. Il terzo uomo, un contadino non aveva isato gli occhi che teneva puntati a terra, si era arrotolata una sigaretta -cicche e trinciato forte -e ora stava a fumare appoggiato a un albero. Il maresciallo aveva gana di pensare al tramonto, ma lui no: salta il tronzo e va in culo all'ortolano, diceva il proverbio. Il tronzo era saltato e lui ora se lo poteva tenere in quel posto. Vicinissimo ai suoi piedi, con le gambe dentro un sacco legato alla vita, le mani serrate dietro la schiena da una sottile cordicella, l'ammazzato impestava l'aria mezzo ammucciato da una macchia di saggina. Un paio di scarpe consunte -le sue -gli erano state in bell'ordine assistimate sul petto.

Valga come esempio di descrizione di stati d'animo quest'altro brano:

Ma quest'intrecciarsi di voci che in altri giorni era la viva espressione di quell'andare d'amore e d'accordo con tutti, e che lo confortava come il sole conforta un gatto, aveva questa volta un suono falso. Vito sorprendeva -o gli pareva di sorprendere -un gesto a mezz'aria, una taliàta obliqua, una parola interrotta, un atteggiamento sospeso, che quel saluto cambiavano in qualcosa di sinistro e di pietoso assieme, come, di chi finge, al capezzale di un malato inguaribile che ignora la gravità del suo stato, naturalezza e allegria [ ...] Ma al momentaneo sollievo successe uno stupore sconcertato, simile a quello che può provare una natura negata alla violenza quando straordinari casi l'obbligano a comportarsi in modo totalmente opposto e dopo si domanda a quale sconosciuta parte di sè abbia obbedito ...(pp. 48-49).

La giustapposizione di alto e basso porta all'esasperazione dei contrasti. L'elemento letterario si fa più solenne, quello dialettale più insistente e quasi folclorico. Questo è il romanzo di Camilleri in cui le realtà e i modi di dire dialettali sono presenti in maggior misura, a volte anche ripetuti a breve distanza; ma anche quello in cui tali realtà e modi di dire, avvertiti come non ancora capaci d'autonoma esistenza, risultano improponibili se non a patto d'essere spiegati, chiosati, tradotti. Si veda la pagina dedicata a cubàita, càlia e simenza, gelato di campagna, la storia di zio Manuele quando perdette il caicco, la chiosa del motto omu senza panza, omu senza sustanza, ecc. ecc. Molti dei termini e modi di dire non spiegati nel romanzo sono ripresi e chiosati nel volumetto del 1995 Il gioco della mosca. Confronta ( seguo l' ordine che essi hanno in questo libello) : amminchià cu pupu, a risata do zu' Manueli quanno pirdì u caiccu, filama, i corna su' progressu, in da finestra trasu, nuttata persa e figlia fimmina, cubbàita, sfunnapedi, taliàri. Evidentemente, quando fu pubblicato Il gioco della mosca, l'autore pensava che il materiale demotico del primo romanzo ( rimasto sino ad allora semisconosciuto) non dovesse andare perduto. Ma, essendo questo stato riproposto nel 1998 con più ampia diffusione; il libello del 1995 si è rivelato poco interessante oltre che inutile. ***

Il birraio di Preston: diversi modi di lettura ;

L'idea del Birraio (Sellerio, I ed: 1995) proviene da quella buona fonte d'ispirazione che è Camilleri l'Inchiesta sulle condizioni della Sicilia de1 1875-76 , ove rimane testimonianza di “intrighi, delitti e tumulti -.come è detto nel risvolto di copertina del romanzo -seguiti alla incomprensibile determinazione del prefetto di Caltanissetta, il toscano Bortuzzi, di inaugurare il teatro di Caltanissetta con una sconosciuta opera lirica, Il birraio di Preston. Nel racconto di Camilleri la vicenda è trasferita nell'immaginaria Vigàta; e il prefetto, primo responsabile dei tumulti, è quello della vicina Montelusa: sì che la ribellione di un intero paese alle imposizioni delle autorità ( il Bortuzzi ha mobilitato la truppa) è da intendere come avversione non solo al governo centrale o ai piemontesi, ma anche agli invadenti vicini montelusani. Ecco quanto emerge da un colloquio del prefetto col suo confidente locale, l'uomo di rispetto Ferraguto:

-Allora il problema è che quest'opera è stata voluta da lei che è il prefetto di Montelusa. E ai vigatesi non piace niente di niente di quello che dicono e fanno i montelusani - -Sta scherzando? - - No. Dell'opera non gliene fotte niente. Ma non vogliono che sia quello che comanda a Montelusa e provincia a dettare legge a Vigàta. Lo sa cosa ha detto il canonico Bonmartino, che è parrino rispettato da tutti? - -No- -Ha detto che se i vigatesi accettano l'opera, poi il prefetto si sentirà in dovere di dire loro cosa devono mangiare e a che ora devono cacare -(pp. 43-44).

Prima però di procedere nell'individuazione dei significati è opportuno far cenno della struttura dell ' opera. La quale si compone di 23 capitoli , non numerati ( contraddistinti da titoli che corrispondono agli incipit), nei quali i vari momenti o fasi della vicenda sono presentati con costanti inversioni dell'ordine cronologico. Considerando come momento temporalmente centrale l'incendio appiccato al teatro “Re d'Italia” (in cui si è tenuta la rappresentazione contestata) da un rivoluzionario di professione, il romano Traquandi, giunto a Vi- gàta per provocare tumulti sfruttando il malcontento popolare, così si presenta, rispetto alla cronologia dei fatti, la successione dei capitoli:

Era una notte che faceva spavento -----------momento dell'incendio

C'è un fantasima che fa tremare -------------
Avrebbe tentato d'alzare la muschittera? --
Chiamatemi Emanuele ------------------------ prima dell’incendio
Nella matinata del giorno in cui -------------
Egregie signore e diciamolo pure ------------


Turiddru Macca, il figlio---------------------------dopo

Solo chi è picciotto può avere --------------------
Lei sa home la penso-------------------------------prima
Colore latte e appannato---------------------------dopo
In ritardo, come u solitu----------------------------prima
ecc.

Ai ventitre capitoli non numerati ne segue un ultimo, indicato come Primo, che potrebbe anche essere collocato in testa a mo' d'introduzione stante l'invito al lettore, contenuto in un P.S. autoriale, a “stabilire una sua personale sequenza”, perché “la successione dei capitoli disposta dall'autore non era che una semplice proposta”. Infatti nel Capitolo primo (ultimo in realtà) ricompare il personaggio che, nel capitolo effettivamente iniziale Era una notte che faceva spavento, aveva assistito bambino al divampare dell'incendio: Gerd Hoffer, figlio dell'ingegnere tedesco preposto alla squadra dei volontari spegnifuoco di Vigàta. Passati più di quaranta anni, Gerd, ormai adulto, inizia a raccontare la storia dei fatti di cui era stato testimone, rimandandone la prosecuzione ad un “seguito” e ai “capitoli che verranno”. Si oppone però ad un possibile spostamento del Capitolo primo ad inizio di romanzo il fatto di non poca rilevanza che esso, sia per la lingua sia per la ricostruzione dei fatti, contrasta con gli altri 23. Per quel che riguarda la lingua, il suo italiano meramente informativo e denotativo si oppone alla mescolanza di italiano-siciliano con altri dialetti (il linguaggio meticciato, come l'ha definito lo stesso autore in un 'intervista messa in programma da RAI 1 nella notte fra il 27 e il 28 ottobre 1998) del resto del romanzo. Per quel che riguarda, invece, la ricostruzione evenemenziale, il maturo Gerd Hoffer esprime un punto di vista filogovernativo tendente a minimizzare la portata della ribellione popolare ( tutto si sarebbe ridotto, infatti, a qualche espressione d'inciviltà di pochi e ignoranti spettatori del loggione, e a schiamazzi in piazza di giovinastri avvinazzati), ad attribuire perciò l'incendio a cause assolutamente accidentali, a lodare l'operato delle autorità (il prefetto Bortuzzi si sarebbe preoccupato, con quella rappresentazione teatrale, di educare i vigatesi all'arte) e delle forze dell'ordine, schierate non per reprimere ma per formare un picchetto d' onore. In qualsiasi modo, dunque, si riordinino i 23 capitoli non numerati -si potrebbe seguire, per esempio, il principio della successione cronologica -, resterà sempre l'anomalia del Capitolo primo, che, se spostato all'inizio, risulta in flagrante contrasto con ciò che segue; se, invece, lasciato dov'è, risponde al proposito di fornire una versione ufficiale dei fatti, che rimane però, (non si sa per quale ragione) sospesa. A meno che la sospensione non rientri in quel gioco degli incipit di cui si dirà più avanti. La soluzione più economica parrebbe ad ogni modo la seconda: è più facile, infatti, accettare una palinodia formalmente interrotta, la quale in realtà ricostruisce a suo modo almeno i fatti principali, piuttosto che vistosi e immotivati cambi di registro nel corpo di un 'unica narrazione. Il mantenimento dell'ordine dato dall'autore è imposto anche da esigenze di carattere strutturale, connesse con la circolarità dell ' opera, che, pur tendente allo sfaldamento per mancanza di collante cronologico, è però inquadrata dalla cornice costituita dai due capitoli estremi; i quali, anche se rispondono -come abbiamo visto -a codici diversi, presentano un medesimo personaggio, assente in tutti gli altri capitoli, Gerd Hoffer appunto, prima fanciullo e poi uomo maturo. Il birraio di Preston si rivelerebbe allora incorniciato allo stesso modo del romanzo di Calvino Se una notte d'inverno un viaggiatore, in cui le differenti microstorie sono precedute da un incipit ( “Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino” ) e seguite da un explicit ( “Sto per finire Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino” ) che riconducono alla stessa storia. Il romanzo di Calvino sarebbe allora, per questo come per altri aspetti su cui fra poco fisseremo l'attenzione, l'imprescindibile ipotesto del Birraio di Preston. Prima però di dimostrare che Il birraio può anche essere accettato come romanzo formalista, consideriamolo secondo una più facile lettura storico-politica. Siamo nel 1874, a pochissimi anni di distanza dall'unificazione più formale che sostanziale sotto la monarchia sabauda. L'unità, che non esiste nemmeno fra Vigàta e la vicina Montelusa, è nominazione priva di sostanza: pour cause la rappresentazione imposta dal prefetto, motivo di una ribellione e di una repressione, si tiene in un teatro dal nome ironico di “Re d'Italia” .Si tenga presente che “Re d'Italia” è anche un vapore nella Stagione della caccia e “Unità d'Italia” la via del protagonista nella Concessione del telefono: romanzi ambientati nel medesimo periodo postunitario. La Sicilia è ancora terra di conquista: nel Birraio Vigàta ha a che fare con un prefetto fiorentino, un questore milanese, truppe piemontesi, persino con un capo tedesco della squadra volontaria antincendi. L'unificazione è vista in una luce ironica anche quando si presenta la schiera dei testimoni che depongono il falso per fornire un alibi all'uomo di rispetto Emanuele Ferraguto, don Nenè (confidente e braccio destro del prefetto, come abbiamo visto) , che ha seviziato e ucciso, secondo un rituale di ritorsione mafiosa,gli assassini del figlio:

Nel giro della stessa giornata, dieci insospettabili abitanti di Varo, a cinquanta chilometri da Montelusa, si erano precipitati a testimoniare che il giorno del duplice omicidio don Memè era nel loro paese, a godersi la festa di san Calogero. Tra i fornitori dell'alibi c'erano il ricevitore postale, Bordin Ugo, veneto, il dottor Pautasso Carlo Alberto, astigiano, direttore dell'ufficio imposte,e il ragionier Ginnanneschi Ilio, pratese, addetto al catasto, -Ma quant'è bella l'unità d'Italia! - aveva esclamato don Memè con un sorriso più cordiale del solito, mentre gli si aprivano le porte del carcere (p. 39).

Una riprova della mancanza d'unità ce la forniscono, sotto il profilo linguistico, i vari capitoli o microstorie. In Era una notte che faceva spavento e in Turiddru Macca, ilfiglio si dà largo spazio al linguaggio dell'ingegner Hoffer, che è una mescolanza di italiano e tedesco, una sorta di “todesco” da commedia dell'arte; in Chiamatemi Emanuele il prefetto di Montelusa, cavalier dottor Bortuzzi, si esprime con quello che dovrebbe essere accento fiorentino (pessimamente riprodotto); in Lei sa home la penso, ove sono in scena il prefetto e i comandanti militari piemontesi, le battute dei dialoghi sono fiorentine e piemontesi; in Avissi voluto che mio padre il rivoluzionario venuto da Roma, Traquandi, si esprime in romanesco; in Tutti orama' lo conoscevano abbiamo ancora il fiorentino di Bortuzzi; in Oh che bella giornada! il meneghino del questore Everardo Colombo; in Era una gioia appiccià er foco ancora il romanesco di Traquandi; in Giagia mia cara per un'altra volta il fiorentino di Bortuzzi. L'interpretazione storico-politica or ora esperita privilegia le differenze d'origine e di linguaggio dei personaggi. Ma possiamo anche privilegiare l'autore e il lettore. Il P.S. autoriale che chiude il romanzo, infatti, in cui si autorizza chi legge a dare ai capitoli un ordine diverso da quello suggerito dall ' autore, chiama in causa i lettori in questo modo: “Arrivati a quest'ora di notte, vale dire all'indice, i superstiti lettori ,..”. Il che presuppone che l'operazione della lettura abbia occupato un 'intera giornata sino alla notte, possiamo dire da notte a notte, lungo l'arco di 24 ore, come 24 sono i capitoli del romanzo: quasi questi siano narrazioni per una giornata, sull'esempio, sempre vivo in tutta la cultura siciliana, delle pirandelliane Novelle per un anno. Quell'esempio funziona anche nell'ultima opera di Camilleri, la raccolta di trenta racconti, uno per ogni giorno del mese, uscita nel 1998 (Mondadori) con il titolo di Un mese con Montalbano. Anche l'attenzione estrema rivolta al lettore connota l'ipotesto prima citato, Se una notte d'inverno un viaggiatore, ove il destinatario ha la stessa importanza dei personaggi, sino a diventare egli stesso un personaggio del libro. Trasparente nel Birraio è la chiamata in causa dell’autore, suggerita dallo stesso modello. Come nel romanzo di Calvino l'autore, nel definire la propria vocazione, costruisce una storia basata sulla giustapposizione di microstorie, i cui incipit connotano vari possibili sottogeneri romanzeschi, così nel Birraio la successione di titoli e incipit corrisponde alla varietà dei generi letterari: c'è il romanzo, la novella, la pièce teatrale, il poemetto in versi, il pamphlet d'ispirazione civile, il manifesto politico, persino il poster in cui il cagnolino Snoopy è di fronte ad un possibile inizio di romanzo, Era una notte buia e tempestosa. Sul problema degli incipit e sulla chiamata in causa di Snoopy l'ipotesto è, ancora una volta, Se una notte d'inverno un viaggiatore. Dice infatti Calvino nel cap. ottavo:

Sulla parete di fronte al mio tavolo è appeso un poster che mi hanno regalato. C'è il cagnolino Snoopy seduto di fronte alla macchina da scrivere e nel fumetto si legge la frase: < Era una notte buia e tempestosa...”. Ogni volta che mi siedo qui leggo
Come Snoopy anche Calvino, posto davanti ad un inizio qualsiasi, avverte la difficoltà del continuare: quell'incipit, che può teoricamente accogliere tutti gli sviluppi possibili, resta in realtà pura potenzialità, l'attesa perciò è senza oggetto, “il vuoto s'apre sulla carta bianca”. Se poi l'incipit è quello di un romanzo famoso ( “Oggi mi metterò a copiare le prime frasi d'un romanzo famoso” ), la conclusione più probabile è non che “la carica d'energia contenuta in quell’avvio si comunichi alla [...] mano, che una volta ricevuta la spinta dovrebbe correre per conto suo”; ma piuttosto che s'impadronisca dello scrivente la tentazione di copiare tutto il seguito del romanzo famoso. Camilleri però non si pone questi problemi o almeno non se li pone per 23 capitoli. Se l'ultimo può essere proprio quello rimasto al solo inizio, nel caso degli altri l’inizio precostituito non è fonte d'angoscia perchè trova un facile sviluppo. Lo sviluppo può seguire varie strade, le quali rappresentano diversi livelli non di originalità (nella letteratura post-moderna così mediata il top non è certo quello dell'originalità e dell'inventio ), ma di reimpiego dei materiali letterari. Ad un primo livello, quello più basso, l'incipit non trova echi, non ha sviluppo, resta un semplice avvio fine a se stesso in un capitolo che va per la sua strada e che avrebbe potuto avere indifferentemente un altro incipit. Cito un solo esempio, quello di Turiddru Macca, il figlio, che inizia come la novella di Verga Cavalleria rusticana, senza in alcun modo ricordarla nè per somiglianza nè per contrapposizione. Il Turiddru Macca di Camilleri, infatti, è uno scaricatore di porto che, svegliato all'improvviso nel suo catoio durante l'incendio, si precipita verso la casa materna che ha preso fuoco, agitato dal pericolo che la madre sta correndo, ma anche - forse soprattutto - dal dolore per la bella proprietà che se ne sta andando in fumo. Ad un altro livello l’incipit dà luogo ad una gara col modello, una gara giocata sullo stesso terreno attraverso la riutilizzazione di motivi e situazioni, procedendo in parallelo senza cadere nella ripetizione o nel plagio. Adduco l’esempio del capitolo Egregie signore e diciamolo pure, che prende l'avvio dalla confusa e pasticciata conferenza che il preside Carnazza del ginnasio di Fela, in preda ad una solenne ubriacatura, è costretto a fare, per imposizione della moglie di cui è vittima, sull’opera lirica Il birraio di Preston; così come il personaggio della pièce cechoviana chiamata in causa fa una confusa e pasticciata conferenza, ubriaco e costretto dalla moglie, sui danni del tabacco. Ad un terzo livello il rapporto col modello è di rovesciamento parodico. E il caso del capitolo Avrebbe tentato d'alzare la muschittera?, che utilizza l’incipit della Condizione umana di Malraux “Tehen tenterait-il de lever la mustiquaire? ” secondo un gioco di contrapposizioni degradanti. In Malraux la zanzariera che occorre sollevare è quella del letto in cui dorme colui che il protagonista sta per uccidere; in Camilleri, invece, quella dell'alcova in cui la signora Riguccio Concetta, vedova Lo Russo, aspetta sveglia e trepida l'arrivo dell’amante. All'angoscia di Tehen ( “L'angoisse lui tordait l’estomac” ) si contrappongono i tremori erotici della vedova: “Il generoso pettorale era investito da un fortunale forza dieci, la minna di babordo scarrocciava verso nord-nord ovest e quella di tribordo invece andava alla deriva verso sud-sud est”. All’arma con cui Tehen colpisce la vittima ( “un court poignard” ) fa contrasto quella, di certo non corta, con cui l'amante colpisce la vedova: che ha prima la misura di “una trentina di centimetri di cavo d'ormeggio, di quello grosso, non di barca ma di papore di stazza” ; cambiando in un secondo momento forma: “il cavo d'ormeggio cangiava forma, principiava a diventare una specie di rigido bompresso”; per raggiungere infine la consistenza ottimale: “il bompresso aveva ancora cangiato di forma: ora era diventato un maestoso albero di maestra, solidamente attaccata al quale la vedova Lo Russo pigliò a oscillare, a battere, a palpitare, vela piena di vento” . Negli ultimi due casi il rapporto con l'inizio letterario è non solo stimolo alla composizione ma anche una dimostrazione d'abilità. Il narratore, posto davanti agli incipit, non se ne lascia irretire, perchè li utilizza ai fini delle sue esigenze espressive, così come fa il poeta nei confronti delle rime. Della possibilità di interpretare il gusto calviniano degli incipit come tentativo di assemblare una biblioteca di apocrifi che annulli la riconoscibilità dell’autore nulla traspare nel Birraio di Preston, che, per la rievocazione di fatti di cronaca siciliana, oltre che per lo stile, rimanda inequivocabilmente a quel Camilleri che ben conosciamo.

Bruno Porcelli

trascrizione a cura di
Paola Rossi
Chiara Bertazzoni
Nadia Trobia



Last modified Wednesday, July, 13, 2011