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Andrea Camilleri, la re-invenzione del romanzo giallo

di Marina Polacco

 

"Le tue città non esistono. Forse non sono mai esistite. Per certo non esisteranno più. Perché ti trastulli con favole consolanti? So bene che il mio impero marcisce come un cadavere nella palude, il cui contagio appesta tanto i corvi che lo beccano quanto i bambù che crescono concimati dal suo liquame. Perché non mi parli di questo? Perché menti all’imperatore dei tartari, straniero?" (Italo Calvino, Le città invisibili).

 

Le inchieste del commissario Salvo Montalbano, protagonista dei romanzi e dei racconti gialli di Andrea Camilleri1, sono costantemente intersecate alle allusioni culinarie: si va dalle soste all’osteria San Calogero - le cui specialità sono la frittura di pesce e gli antipasti di. mare - agli inviti a pranzo della moglie del questore, della signora Vasile Cozzo e della moglie del preside Burgio; dalle pietanze preparate dalla fedele "cammarera" Adelina (alla cui «fantasia culinaria gustosamente popolare» si devono «pasta fredda con pomodoro, vasilicò e passuluna; olive nere», alici con cipolle e aceto, gamberetti bolliti, peperoni arrosto, polipetti affogati, spaghetti al nero di seppie, pasta con broccoli, involtini di tonno, triglie al forno, granite di limone...) alla sperimentazione casuale di sperdute trattorie di passaggio gestite da cuochi dilettanti o addirittura miracolati: come Tanino, piccolo delinquente trasformato all’improvviso in un grande cuoco dall’apparizione della madonna. A prevalere è però non tanto la descrizione dettagliata delle singole pietanze quanto la sottolineatura iperbolica della loro eccezionale bontà, espressa a volte con stravaganti similitudini: le spigole sono così fresche «che pareva stessero ancora in acqua a nuotare»; la pasta fredda manda «un profumo d’arrisibigliare un morto»; il metodo trovato dalla signora Elisa per cucinare i polipetti assomiglia più a una «ispirazione divina» che a una semplice ricetta; i pezzi di nasello dichiarano «la loro gioia per essere stati cucinati come Dio comanda»; la pasta ai granchi  di mare ha «la grazia di un ballerino di gran classe»; la «spigola farcita  con salsa di zafferano» appare un vero e proprio miracolo (che per di più si ripete puntualmente, proprio come «il miracolo del sangue di S. Gennaro»). Mangiare è un piacere assoluto e fine "a se stesso, che non può essere mescolato con altri interessi o attività: mentre si mangia non si parla o si parla esclusivamente di mangiare. È un piacere che può essere condiviso solo con chi è in grado di apprezzarlo, e solo con le persone care. A partire dal rapporto  col cibo si stabiliscono mute e solide simpatie o antipatie, si definiscono i personaggi, si  intrecciano  nuovi rapporti. L’istintiva - e in gran parte immotivata - antipatia che Montalbano nutre per il suo vice Mimì Augello si materializza nel malcelato disprezzo con cui il personaggio viene osservato nell’atto di condire con il parmigiano la pasta alle vongole («Gesù! Persino una  jena  che è una jena e si nutre di carogne avrebbe dato di stomaco all’idea di un piatto di pasta alle vongole col parmigiano sopra!», LM, p. 33). Al contrario, l’altrettanto istintiva simpatia per la signora Vasile Cozzo fonda sulla condivisione dei gusti e di una vera e propria “etica” del cibo:

"Perché non resta a mangiare con me?”. Montalbano si senti impallidire lo stomaco. La signora Clementina era buona e cara, ma doveva nutrirsi a semolino e a patate bollite. “Veramente avrei tanto da...”. «Pina, la cammarera, è un’ottima cuoca, mi creda. Oggi ha preparato pasta alla Norma, sa, quella con milanzane fritte e la ricotta salata”. “Gesu!” fece Montalbano assittandosi. “E per secondo uno stracotto». “Gesù!” ripeté Montalbano. “Perché si meraviglia tanto?”. “Non è un mangiare tanticchia pesante per lei?”  “E perché? Io ho lo stomaco che non ce l’ha una picciotta di vent’anni, quelle che vanno serene una giornata intera con mezza mela e una centrifuga di carote. Macari lei è dell’opinione di mio figlio Giulio?” “Non ho il piacere di conoscerla” “Dice che alla mia età non è dignitoso mangiare queste cose. Mi considera un poco svergognata. Secondo lui dovrei andare avanti a pappine. Allora che fa, resta?”. “Resto” fece deciso il commissario. (LM, pp. 62-63).

L’amore per la buona tavola e il gusto del mangiare costituiscono i tratti più immediatamente identificativi del personaggio, anche se appaiono del tutto marginali rispetto all’attività investigativa e alle vicende narrate. Ma è proprio grazie  a tali caratteri che Montalbano dichiara le proprie ascendenze letterarie e la su parentela con altri celebri investigatori: Nero Wolf, Maigret e soprattutto Pepe Carvalho, il detective protagonista dei romanzi gialli dello scrittore spagnolo Manuel Vazquez Montalbàn. L’allusione a Montalbàn è palese e dichiarata fin dal secondo romanzo della serie: «il commissario stava leggendo un romanzo giallo di uno scrittore barcellonese che l’intricava assai e che portava lo stesso cognome suo, ma spagnolizzato Montalban» (CT, p. 10). La rivelazione esplicita della ripresa ha una duplice valenza. Camilleri da una parte dichiara un innegabile modello e permette al lettore appassionato di  gialli  di mettere alla prova la sua memoria letteraria; dall’altra, però, proprio per il fatto di dichiararla, esibisce la trasformazione e la rielaborazione compiuta. Né si tratta semplicemente di una questione di gusti, come afferma o stesso Montalbano (<Pensò che in fatti di gusti egli era più vicino a Maigret che a Pepe Carvalho, il protagonista dei romanzi di Montalban, il quale s’abbuffava di piatti che avrebbero dato foco alla panza di uno squalo> (CT, p. 42): a variare è soprattutto la funzionalità narrativa dello stesso tema. Carvalho non è solo un amante della buona tavola: è un cuoco eccellente e un raffinatissimo gourmet che ha fatto dell’ arte culinaria il suo unico credo, quasi l’unica ragione di vita; niente a che vedere con l’entusiasmo fanciullesco e lo spensierato godimento cui si abbandona con semplicità Montalbano.

Lo stesso procedimento si può verificare anche per quel che riguarda - più in generale - il rapporto tra i due personaggi. Le affinità tra Carvalho Montalbano sono molteplici: entrambi amano leggere e sono dotati di una cultura letteraria non comune; ricorrono spesso al servigi culinari di un aiutante (a Biscuter corrisponde Adelina, la governante tuttofare di Montalbano); preferiscono non impegnarsi in un legame serio e sono terrorizzati dalla prospettiva di una eventuale vita coniugale, pur mantenendo in maniera stabile una relazione sentimentale; intrattengono rapporti di amicizia o di affetto con i loro informatori della piccola malavita (il lustrascarpe Bromuro e Gegé). Le corrispondenze sono però esibite e allo stesso tempo eluse. Camilleri normalizza il personaggio di Montalbàn, privandolo del suo spessore romanzesco. Carvalho è un ex militante comunista che ha conosciuto la repressione franchista ed è stato agente della Cia: Montalbano proviene da una modesta famiglia piccolo borghese e dopo una mediocre carriera di studente si è laureato in legge e ha vinto un regolare .concorso. Carvalho è un detective privato che agisce quasi sempre in contrasto con le forze di polizia regolari (erede, in questo, della tradizione hard boiled); Montalbano è un funzionario pubblico che. ricopre un ben preciso ruolo istituzionale. Charo, la donna di Carvalho, è una prostituta di lusso; Livia è una tranquilla impiegata genovese. Carvalho non crede più nei libri letti e per questo li brucia con sistematica ritualità; Montalbano ancora li compra e li legge con passione. Camilleri, pur partendo dall’opera di Montalbàn, arriva a creare un personaggio completamente diverso, sicuramente meno romanzesco, meno segnato dalla storia precedente e dal proprio passato, ma dotato di altrettanto spessore e - soprattutto - con lo stesso statuto eroico.

La caratterizzazione positiva e tutto sommato “eroica” del personaggio è palese nonostante la riduzione ironica alla quale viene sottoposta. Montalbano, come dicono i suoi uomini, ha “un carattere fituso”: soffre di incontenibili scatti d’ira e di repentini cambiamenti d’umore, spesso dovuti alle condizioni del tempo; appare esigente e incontentabile; non dà mai soddisfazione e stenta a riconoscere i meriti altrui; è celebre per il suo lapidario sarcasmo; è egocentrico e solitario, incapace di collaborare veramente con gli altri (“mi piace cacciare con gli altri ma voglio essere solo a organizzare la caccia. [...] Un’osservazione intelligente, fatta da un altro, m’avvilisce, mi smonta magari per una jurnata intera, ed è capace che io non arrinescio più a seguire il filo dei miei ragionamenti” (CT, p. 135); è ingiustamente geloso e possessivo nei confronti della donna amata; ricorre a piccole bugie e a continui stratagemmi per eludere i problemi che non vuole affrontare o per tenere distante Livia; è maniacalmente legato alle sue abitudini e alla sua vita da single; si rifiuta di crescere e di accettare le sue responsabilità; sa essere violento e volgare. Ma la rappresentazione ironica dei suoi infiniti difetti, lungi dall’intaccare la sostanziale positività del ritratto, si limita a renderlo  più sfumato e credibile. In un mondo in cui a prevalere è la corruzione, l’arrivismo il desiderio di primeggiare l’ipocrisia, Montalbano è una “delle poche persone perbene”: non vuole fare carriera (anzi: è terrorizzato dall’idea di una eventuale promozione), non si lascia tentare dal denaro, odia il mondo dei mass media e il culto dell’immagine, continua ad avere fiducia nei rapporti umani e a coltivarli con una civiltà d’altri tempi, crede senza retorica nel suo mestiere e nel suo ruolo istituzionale, si attiene a un rigoroso codice etico, arriva a rischiare la vita per quello in cui crede, tende ad assumere - per quanto apparentemente contro voglia – il  ruolo donchisciottesco di protettore degli umili e degli oppressi. E, soprattutto, sa ancora distinguere il bene dal male, i buoni dai cattivi. Da una parte ci sono i potenti di sempre, che continuano a dettare legge a dispetto dei millantati cambiamenti; le persone “perbene” chiuse nel loro gretto egoismo; i burocrati ottusi e i funzionari incapaci di leggere la realtà; i falsi servitori dello stato e della morale (compresi i servizi segreti “deviati per costituzione” e i “professionisti dell’antimafia”); gli artefici della nuova civiltà delle immagini (“Una volta  -disse –qualcuno affermò che la religione era l’oppio dei popoli, ai giorni nostri bisognerebbe invece dire che il vero oppio è la televisione” (CT, p. 127). Dall’altra ci sono le persone degne ancora di rispetto: coloro che credono veramente in un ideale, a prescindere dalla natura dello stesso – “perché in quel gran cinematografo di corruttori,corrotti, concussori, mazzettisti; tangentari, mentitori, ladri, spergiuri, a cui ogni giorno s’aggiungevano nuove sequenze, il commissario, verso le persone che sapeva inguaribilmente oneste, da qualche tempo principiava a nutrire un senso d’affetto” (CT, p. 46); gli umili e i reietti costretti a vivere ai margini della società del benessere. (Saro, il “munnizzaro” che non ha i soldi per curare il figlio gravemente malato, o l’anziana Aisha, o le folle anonime di disoccupati o cassintegrati); persino i piccoli delinquenti, che almeno rischiano in proprio e si arrangiano come possono per sopravvivere – primo fra tutti, Gegè, l’amico d’infanzia e compagno di scuola.

Alle doti etiche si aggiungono, ovviamente, l’acume, l’intelligenza, la capacità intuitiva: in una parola, l’eccezionale abilità investigativa. Ogni nuovo caso è un sistema di segni di cui bisogna trovare la chiave, un “messaggio” cifrato da interpretare e da decifrare; e Montalbano, grazie al suo spirito di osservazione e ai suoi proverbiali “lampi d’intuizione”, arriva sempre a capire il codice del delitto e a scoprire la verità. Da questo punto di vista Camilleri sembrerebbe riproporre in maniera tranquillamente aproblematica la forma più tradizionale e canonica del romanzo giallo. Ma la natura dei casi affrontati e risolti dal commissario Montalbano e la conclusione effettiva delle indagini confutano l’apparente ingenuità della trama e della struttura romanzesca. Nel primo giallo della serie, La forma dell’acqua, Montalbano non indaga su un vero e proprio delitto, ma su un’abile montatura volta a screditare – dopo 1a morte - l’immagine dell’ingegner Luparello, secondo quanto dichiara già il titolo e conferma poi, nel corso del romanzo, la vedova della vittima, ricorrendo alla stessa metafora. Il caso si riduce così a una messa in scena che Montalbano comprende ma non demolisce pubblicamente, lasciando le cose come stanno. Il tutto si riduce a una effimera formalizzazione dell’inconsistente. Come l’acqua acquista la forma che gli si dà ma non ha forma propria, così avviene per il caso su cui indaga - a tutti gli effetti senza ragione - Montalbano:

Avevo un amichetto, figlio di contadini, più piccolo di me. Io avevo una decina d’anni. Un giorno vidi che il mio amico aveva messo sull’orlo di un pozzo una ciotola, una tazza, una teiera, una scatola di latta quadrata, tutte colme d’acqua, e le osservava attentamente.

«Che fai?» gli domandai. E lui, a sua volta, mi fece una domanda.

«Qual è la forma dell’acqua?».

«Ma l’acqua non ha forma!» dissi ridendo: «Piglia la forma che le viene data!»

(FA, p. 110).

Nel romanzo successivo, Il cane di terracotta si sovrappongono due indagini distinte: quella sul traffico d’armi (prevalente nella prima parte) e quella sul ritrovamento dei corpi di due giovani uccisi più di quarant’anni prima (che occupa invece tutta la seconda parte). Ma la prima si conclude in un nulla di fatto, e la seconda è palesemente inutile, in quanto confinata nel passato e priva di agganci con la realtà presente. La stessa struttura bipartita ritorna nel Ladro di merendine, dove l’indagine sull’uccisione del cavalier Lapecora si intreccia con quella sui misteriosi contatti tra servizi segreti italiani e tunisini in relazione all morte di un pericoloso terrorista; e anche questa volta, Montalbano risolve e chiude il primo caso lasciando però in sospeso tutto ciò che ha scoperto e capito sul secondo.  Più scontato – e forse meno riuscito - il quarto romanzo, La voce del violino, nel quale Montalbano riesce a scoprire e a mettere alle strette il colpevole dell’assassinio di Michela Licalzi. In tutti e quattro i casi il margine d’azione effettivo di cui gode Montalbano è estremamente ridotto. Fin quando sono in gioco singoli individui egli può ancora intervenire sulla realtà; siamo ancora – classicamente – nell’ambito della sfida personale tra colpevole e investigatore e i moventi in gioco sono gli stessi di sempre: rivalità o passione, ma soprattutto ambizione, gelosia, desiderio di ricchezza . Quando invece il delitto assume ben altre proporzioni e diventa crimine organizzato o addirittura di stato, Montalbano non può fare altro che constatare l’accaduto o al massimo limitare i danni:  l’indagine sul traffico d’armi si conclude con l’agguato in cui egli stesso rischia la vita e con l’eliminazione delle pedine di minore importanza, quella sull’uccisione del terrorista tunisino con un compromesso che garantisce a tutti l’impunità. I due diversi ambiti sono però abilmente intrecciati, soprattutto sul piano della tecnica narrativa: l’indagine è narrata sempre allo stesso modo, come se si  trattasse sempre di un’indagine di tipo tradizionale (volta cioè alla scoperta e alla punizione del colpevole), anche quando e relegata nel passato o perfettamente inutile, o priva di sbocchi, o relativa a un caso inesistente. Il lettore si appassiona alla vicenda come se fosse una canonica vicenda da romanzo poliziesco; anche quando il caso non esiste o non può avere - di fatto - un’effettiva conclusione.

I casi veri, non sono mai oggetto di interesse e dunque di racconto: rimangono relegati sullo sfondo, ridotti a macabri e insensati elenchi di efferatezze (“Poi un altro giornalista si mise a parlare dei fatti del giorno: una bambina di sei anni violentata e ammazzata a colpi di pietra da uno zio paterno, un cadavere rinvenuto in un pozzo, una sparatoria a  Merfi con tre morti e quattro feriti; la morte sul lavoro ,di un operaio, la sparizione di un dentista; il suicidio di un commerciante soffocato dagli usurai […]” CT, p.’126).Ciò non toglie che l’autore sia perfettamente consapevole della differenza, e che tale consapevolezza sia esplicitamente dichiarata all’interno della narrazione stessa.  È quanto, alla fine del Ladro di merendine, afferma il professor Liborio Pintacuda: Montalbano scappa di fronte alla morte (nell’occasione specifica si tratta della morte del padre)  così come scappa di fronte a una realtà che ritiene insopportabile, rimanendo sospeso ai margini della realtà stessa. Per questo finisce con il prediligere sempre quei casi la cui soluzione non può avere alcun effetto pratico:

“Sa, m’è capitato di seguire una sua inchiesta, quella che venne detta del ‘cane di terracotta’. In quell’occasione lei abbandonò l’indagine su un traffico d’armi per buttarsi a corpo morto appresso a un delitto avvenuto cinquant’anni prim .e la cui soluzione non avrebbe avuto effetti pratici. Lo sa perché l’ha fatto?”.

“Per curiosità?” azzardò Montalbano.

"No, carissimo. Il suo è stato un modo finissimo e intelligente di continuare a fare il suo non piacevole mestiere scappando però dalla realtà di tutti i giorni. Evidentemente questa realtà quotidiana a un certo momento le pesa troppo. E lei se ne scappa. […] Che suo padre muoia è un fatto reale, ma lei si rifiuta di avallarlo constatandolo di persona. Fa come i bambini che, chiudendo gli occhi, pensano d’aver annullato il mondo”.

Il professor Liborio Pintacuda a questo punto taliò dritto il commissario. “Quando si deciderà a crescere, Montalbano?» (CT, pp. 233-234).

Ma Montalbano non può crescere, pena la fine in quanto personaggio: il suo istinto di fuga è anche la sua forza artistica, la sua ragione d’essere. Accettare la realtà significherebbe per Montalbano sciogliere l’ambiguità e scegliere tra i due aspetti prima evidenziati: o diventare una delle tante vittime delle battaglie perse (contro il sistema, contro la mafia, contro un crimine ormai spersonalizzato), o limitarsi a un ambito ben definito e scontato, occupandosi esclusivamente di piccoli omicidi privati, di delitti passionali, di intrighi di paese (è quanto avviene in fondo, nella Voce del violino e nei racconti). Al contrario, l’inutilità dell’indagine è per Montalbano “piacevolissima” e “quasi congeniale”, è ciò che gli consente di sopravvivere come personaggio: le sue indagini – sostiene l’amico questore – sono sempre “alti esercizi d’intelligenza” sospesi sul vuoto: «Allora, mi perdoni perché quello che sto per dire non rientra nel mio linguaggio, lei non fa un’indagine, si fa una sega mentale» (CT, p. 168). E in effetti, ogni nuovo caso è per Montalbano in primo luogo una sfida intellettuale: l’importante è interpretare i1 codice del delitto e capire quanto è avvenuto a  prescindere dalle implicazioni che la soluzione trovata può avere. In  questo Montalbano si sente come un vero e proprio dio (anche se, come gli dice Livia, si tratta di un dio di quart’ordine): egli può smontare e rimontare l’accaduto così come si ricostruisce un puzzle, incastrandone i pezzi o addirittura modificandone - se necessario - il disegno. Il piacere eminentemente razionale della vittoria dell’intelligenza è la principale ricompensa che Montalbano può offrire ai suoi fedeli, tant’è che la narrazione si conclude quasi sempre con la tradizionale ricostruzione complessiva della vicenda. Ma si tratta pur sempre di un esercizio onanistico e sospeso nel vuoto, dato che la vittoria intellettuale non ha un’incidenza effettiva sulla realtà e non si traduce nel ristabilimento dell’ordine etico e sociale violato dal delitto.

La selezione e riduzione del reale compiuta dal personaggio nelle sue indagini è, in fin dei conti, la stessa operata dall’autore sul piano della narrazione. Già la scelta del genere giallo, forma letteraria considerata costituzionalmente minore e al limite d’intrattenimento, implica una ben precisa selezione e riduzione delle possibilità narrative. All’interno poi della scelta di genere Camilleri mostra in maniera fin troppo esplicita la sua intenzione di rinunciare a qualsiasi tentativo di rivisitazione problematica o anche semplicemente parodica del genere in questione. Persino la trasformazione dell’indagine in una ricostruzione intellettuale fine a stessa viene proposta nel più assoluto rispetto delle forme e degli schemi tradizionali, di modo che a prevalere sia la sensazione di continuità e non di rottura. Né il romanzo giallo diventa strumento di indagine e di denuncia: gli aspetti più crudeli  e insensati della realtà contemporanea (e in particolare della realtà siciliana) sono evocati ma lasciati ai margini,  relegati in elenchi paradossali e inquietanti, come tutti i casi di cui Montalbano non si occuperebbe mai. Rimangono così sullo sfondo tutte le allusioni alla situazione economica e politica italiana ed estera: la rovina dei paesi dell’est dopo il crollo del comunismo, i i maneggi dei servizi segreti italiani e stranieri, lo scandalo di tangentopoli, il riaccendersi dei nazionalismi e della xenofobia, l’aumento irrefrenabile della disoccupazione. Lo stesso vale per la condizione specifica della Sicilia. Al pari di Montalbano, Camilleri è perfettamente cosciente di tutta “l’imbecillità, la ferocia e l’orrore” della sua terra: esplicite sono le allusioni ai crimini mafiosi, al controllo del territorio da parte della mafia, alla latitanza o connivenza delle istituzioni, alla corruzione del sistema politico, al persistere dello strapotere democristiano (nonostante l’apparente trasformazione in corso), alla pratica diffusa del clientelismo e dei “favori”, all’intreccio quasi inestricabile tra società. civile e criminalità. Ma tutto questo è lasciato sistematicamente in secondo piano. Gli unici libri che Montalbano non riesce a leggere - e che Camilleri non vuole scrivere - sono quelli che parlano di mafia (“ Non riusciva a capire perché, non si capacitava, ma non li accattava, non.1eggeva manco i risvolti di copertina” (CT, p. lO9). Dopo aver detto e ripetuto infinite volte tutto ciò che si poteva dire sulla mafia e sull’antimafia, dopo aver assistito a inchieste, interviste, documentari, film e sceneggiati televisivi interminabili, scegliere il silenzio potrebbe essere una semplice questione di dignità, l’unico modo per evitare banalità e retorica La scelta risulta ancora più esplicita e paradossale in quanto avviene attraverso la ripresa del genere giallo: a dispetto dei precedenti illustri, i romanzi di Camilleri parlano di crimini ma non parlano di crimini mafiosi (se non secondariamente). La Sicilia fin troppo nota e narrata è sottintesa ma volutamente elusa a favore di un’altra Sicilia, forse più irreale, sicuramente più imprevista e sconosciuta. È fortissimo, nei romanzi di Camilleri, il senso della “sicilianità” di cui la scelta linguistica non è che la manifestazione più evidente: l’amore per i paesaggi, per gli odori, per i sapori, per la parlata, per la tradizione letteraria (Sciascia, Bufalino, Consolo, Pirandello2 sono gli autori più citati). La Sicilia viene rappresentata nella sua mescolanza tra di arcaismo e postmodernità, (di cui la fabbrica chimica abbandonata prima ancora di entrare in produzione è l’emblema tangibile), nei suoi aspetti più aspri e contraddittori (i paesaggi aridi, le strade dissestate, i quartieri arabi delle grandi città). È questa intima complessità a distinguere i siciliani da tutti gli altri: i settentrionali, i superiori di Montalbano così come la stessa Livia, non potranno mai capire la realtà siciliana, al contrario di Montalbano, che invece in essa è perfettamente radicato, come appare evidente fin dalla sua prima entrata in scena: “Di andare dai carabinieri manco gli era passato per l’anticamera del cervello, li comandava un tenente milanese. Il commissario invece era di Catania, di nome faceva Salvo Montalbano, e quando voleva capire una cosa, la capiva” (FA, p. 17).

Ma le stesse contraddizioni sono rappresentate in maniera non problematica; confinate nell’ambito di poche battute, ridotte molto spesso a semplice spunto comico. Come Montalbano predilige le indagini inutili e prive di effetti pratici, così Camilleri rifiuta sistematicamente e programmaticamente la complessità e sceglie una narrazione leggera, che si propone. fin dall’inizio per quello che è: ‘inutile’ e senza pretese. Lo stesso istinto di fuga accomuna l’autore e il suo personaggio: ma per entrambi la fuga è anche un estremo atto di resistenza. Aderire in pieno alla realtà significa autocondannarsi all’indeterminazione e alla stasi – esistenziale e narrativa; fuggire può significare, al contrario, tentare la scommessa dell’invenzione di un mondo regolato ancora dalla “completezza e determinatezza”. È quanto afferma il critico e teorico della letteratura Th. G. Pavel3:  in ogni epoca di transizione e di conflitto – come egli  considerava la nostra – agli scrittori contemporanei rimane la scelta tra due opposte possibilità : o aderire e rispecchiare in pieno la “situazione ontologica” nella quale si trovano, o tentare di scalfirla con la “caleidoscopica opulenza” dei mondi d’invenzione. In un sistema letterario in cui a prevalere è la pura e semplice registrazione dell’esistente, spesso ammantata di propositi ideali o al contrario carica di violenza autodistruttiva, la proposizione di un universo narrativo “separato”, ambiguamente sospeso ai margini della realtà, può forse costituire una valida alternativa.

 La riduzione (o semplificazione)del principio di realtà è il presupposto che permette a Camilleri di riscoprire il piacere del racconto - e dunque della lettura. Il fascino dei suoi romanzi nasce in gran parte da questa capacità di divertirsi e di divertire, di sfidare - come direbbe Calvino – la pesantezza dell’esistere con la leggerezza dell’affabulazione e con l’opulenza straordinaria dell’invenzione. Si tratta, com’è ovvio, di un equilibrio estremamente precario: basta sbagliare di poco il dosaggio degli ingredienti, allontanarsi o avvicinarsi troppo rispetto al punto di fuga, e si arriva subito alla banalità: all’eccesso melodrammatico e fumettistico o alla trivia1ità comica (è quanto avviene, a volte, nei racconti, la cui misura breve non lascia il tempo alla narrazione di trovare la giusta intensità). Solo l’abilità della costruzione narrativa - sicuramente favorita dalla ripresa del modello poliziesco - e la perizia tipica dello sceneggiatore, che si rivela nella concisione ed, efficacia dei dialoghi (esemplare è l’uso dei colloqui telefonici) e nella capacità di delineare un personaggio attraverso pochi tratti, spesso attraverso pochissime battute (il dottor Pasquano, la signora Vasile Cozzo, il cavalier Misuraca; il figlio di Lapecora…), permettono di ovviare alla fragilità dei singoli elementi. A tutto questo si aggiunge una straordinaria vis comica, in tutte le sue poliedriche manifestazioni: dalle gags (la fallita registrazione della conversazione con il colonnello Pera, il taglio sistematico delle gomme) alle macchiette vere e proprie (il personaggio di Catarella):

Alla curva della Chiesa del Carmine, Peppe Gallo non si tenne più e sgommò, accelerando. Sentì un colpo secco, come una pistolettata, la macchina sbandò. Scesero: il copertone destro posteriore pendeva.scoppiato, a lungo era stato lavorato da una lama affilata, i tagli erano evidenti.

“Cornuti e figli di buttana!” esplose il brigadiere.

Montalbano si arrabbiò sul serio.

“Ma se lo sapete tutti che una volta ogni quindici giorni ci tagliano le gomme! Cristo! E io ogni mattina v’avverto: taliàtele prima di partire! E voi invece ve ne fottete, stronzi! Fino a quando qualcuno non ci rimetterà l’osso del collo” (FA, p. 21);

dalle folgoranti o sarcastiche battute di Montalbano alla più semplice comicità di sapore popolaresco e triviale:

“Jacomù, cerca di mettere in moto il cervello. Se fossimo putacaso nel deserto del Sahara e tu mi venissi a dire che c’era una squama di pesce nel coltello che ha ammazzato una turista, la cosa potrebbe, dico potrebbe, avere senso. Ma che minchia di significato ha in un paese come Vigàta dove tra ventimila abitanti diciannovemilanovecentosettanta mangiano pesce?”.

“E gli altri trenta perché non lo mangiano?” spiò impressionato e incuriosito Jacomuzzi.

“Perché sono lattanti”. (LM, p. 50)

- L’extra di Martino Zaccarìa, negoziante di frutta e verdura, consisteva nel farsi baciare la punta dei piedi; con Luigi Pignataro, preside di scuola media a riposo, Karima giocava a mosca cieca. Il preside la spogliava nuda e la bendava, poi si andava a nascondere. […] Alla domanda di Montalbano in che cosa consistesse l’extra, Calogero Pipitone, perito agronomo, lo taliò strammato:

“In che cosa doveva consistere, commissario? Lei sutta e iu supra”. A Montalbano venne voglia di abbracciarlo. (LM, p. 146);

dagli spunti beffardamente ironici alla parodia di codici e linguaggi (quasi sempre relativa alle falsificazioni e agli inganni dei mass-media):

- Minuto, baffetti a coda di sorcio, sorrisino ‘ntipatico, occhiali con montatura d’oro, scarpe marrò, quasette marrò, completo marrò, cammisa marrò, cravatta marrò, più che latro un incubo in marrò, Carmelo Ingrassia, il proprietario del supermercato, si stirò con le dita la piega del cazùne destro che teneva accavallato sul sinistro e ripeté per la terza volta la sua sintetica interpretazione dei fatti. (CT, p. 38).

 -Per far si che il dottor Cardamone linearmente potesse seguire la propria strada senza rinnegare quei principi e quegli uomini che rappresentavano il meglio dell’attività politica dell’ingegnere, i membri della segreteria avevano pregato l’avvocato Pietro Rizzo, erede spirituale di Luparello, d’affiancare il neo segretario. Dopo qualche comprensibile resistenza per i gravosi compiti che l’inatteso incarico comportava, Rizzo si era lasciato convincere ad accettare [...] e dichiarava, pure lui commosso, di aver dovuto sobbarcarsi al grave pondo per restare fedele alla memoria del suo maestro e amico, la cui parola d’ordine era sempre stata una ed una sola: servire. (FA, p. 78).

La possibilità di utilizzare tutti i registri del comico (dall’umorismo alla battuta volgare) è strettamente connessa al rifiuto della complessità tragica. Il riso, a volte spontaneo e immediato, a volte amaramente sarcastico, costituisce il tono costante della narrazione, cosicché  tutte le volte che compaiono elementi potenzialmente drammatici, la riduzione comica interviene a ristabilire la giusta tonalità: subito dopo l’attentato in cui Gegé perde la vita e Montalbano rimane gravemente ferito - attentato che sancisce la forzata sospensione dell’indagine sul traffico d’armi - lo spunto da cui riparte la narrazione è il terrore di Montalbano angosciato dalla prospettiva di dover sopravvivere con il sangue di Catarella e mangiando esclusivamente pappine.

Alla comicità si lega anche, per finire, l’originale e accattivante invenzione linguistica. Camilleri adopera, come il suo personaggio, un “italiano bastardo”, impastato di termini, espressioni e costrutti dialettali, spesso a loro volta "italianizzati". Il dato più vistoso è l’adozione di una serie di termini o di locuzioni utilizzati sistematicamente fino a stabilire una sorta di complicità con il lettore: taliare, babbiare, addrumare, scantarsi, arrisbigliarsi, magari, strammato, fetere, picciotto, cognito, susirsi, cataminarsi; a questi si aggiungono le espressioni o i vocaboli facilmente traducibili nel loro corrispondente italiano: mezzorata, iurnata, travaglio, pedi, liggi, s’apprisintava, occhi piatosi, facenno, favuri, sperto, omu, fitusu; per finire con i termini dialettali più ostici, che solo il contesto permette di intendere: gana, mutangheri, occhi sgriddrati, nicareddro, si erano sciarriati, precisi intifichi, c’inzirtasti. Il tessuto di base rimane comunque costituito essenzialmente dall’italiano e l’impasto è calibrato in modo da risultare decifrabile senza difficoltà: qualsiasi lettore - a prescindere dalla sua competenza dialettale - deve essere in grado di intendere il testo con una certa tranquillità, per lo meno dopo aver superato l’iniziale sensazione di straniamento. L’adozione di un mezzo linguistico così inconsueto è leggibile a più livelli. Escluso l’intento realistico o, all’opposto, semplicemente folclorico, il dato di partenza può essere considerato la trasposizione sul piano linguistico e formale dello stesso gusto giocoso che caratterizza profondamente l’intera narrazione: Camilleri si diverte con le parole così come si diverte con i personaggi e  con le strutture narrative, arrivando a inventarsi una lingua su  misura per il suo  stravagante estro comico. Il divertimento linguistico non esaurisce tuttavia le implicazioni e le ragioni della scelta. Per Camilleri non si tratta di una semplice e meccanica trasposizione dall’italiano al dialetto o viceversa, ma significa anche sostenere la priorità del dialetto siciliano, considerato più efficace ed espressivo dell’italiano. Ciò è particolarmente evidente in quei casi in cui non esiste corrispondenza tra italiano e dialetto e l’autore sente il bisogno di chiarire il significato dei termini introdotti, quasi a sottolineare il processo d’impoverimento che la lingua subisce nel passaggio dall’uno all’altro sistema: “Tambasiàre era un verbo che gli piaceva, significava mettersi a girellare di stanza in stanza senza uno scopo preciso, anzi occupandosi di cose futili. [...] Si voleva accuttufare. Altro verbo che gli piaceva, significa tanto essere preso a legnate quanto allontanarsi dal consorzio civile” (FA, pp. 151-152). L’invenzione linguistica acquista, in questa prospettiva, un’esplicita connotazione polemica. È infatti costante la contrapposizione tra la lingua di Montalbano (che coincide con quella del narratore) e quella usata dai suoi antagonisti: l’italiano è ormai un’antilingua, ridotta a gergo burocratico e ufficiale, o ancora peggio, a strumento di inganno e di falsificazione. Solo l’avvocato Rizzo, ambiguo personaggio in combutta con il potere mafioso, o Jacomuzzi, capo della scientifica sempre in cerca di notorietà e di successo, o gli ottusi funzionari settentrionali, o i cronisti del telegiornale parlano un italiano corretto e possono usare termini come “improcrastinabilità”, “inderogabili prerogative”, “acclarare”, “neutralizzare”, “iter sospeso”, “ragguagliare”, “mozione degli affetti”. Alla mistificazione non sfugge neanche la lingua e la tradizione letteraria: Pirandello, per esempio, viene pretestuosamente chiamato in causa solo per avallare l’ennesima messa in scena della classe politica al potere. Al contrario, Montalbano legge i libri ma non li usa: li cita esplicitamente, dichiarando ammirazione, condivisione, entusiasmo, affetto. È quanto fa anche Camilleri: le allusioni e i riferimenti letterari sono quasi sempre espliciti e dichiarati (sia per quel che riguarda la letteratura “gialla” - Montalban, Durrenmatt, Le Carré - sia in relazione agli autori più amati - da Pirandello a Sciascia), costituiscono più che altro una gratuita dichiarazione d’amore nei confronti della tradizione. Rifiutare le falsificazioni della lingua ufficiale a favore si un linguaggio “bastardo”, sfrontatamente ibrido e che non disdegna le espressioni più triviali, può essere ancora una volta una questione di dignità, e un’estrema - per quanto volutamente leggera - forma di resistenza. Il sarcasmo con cui Montalbano deride la 1ingua burocraticamente compita dei suoi antagonisti è la contropartita della difficile ricerca di una diversa autenticità, di una più immediata e genuina aderenza delle parole alle cose:

“Su questo pezzo di cartone ci sono stampate delle lettere. L’ho trovato sotto il piancito che c’era nella grotta, si deve essere infilato in un interstizio tra le tavole”.

“Qual è la parola che hai detto?”.

“Piancito?”.

“No, quella appresso”.

“Interstizio?”.

“Quella. Gesù come sei struito, come parli bene! E non avete trovato altro sotto questa cosa che dici tu?” (CT, p. 104).

 

NOTE

1) La serie comprende, in ordine cronologico, quattro romanzi editi da Sellerio e una raccolta di racconti pubblicata da Mondadori: La forma dell’acqua (1994, d’ora in avanti FA); Il cane di terracotta (1996, CT); Il ladro di merendine (1996, LM); La voce del violino (1997, VV); Un mese con Montalbano (1998, R).

2) Tra l’altro, Agrigento è ribattezzata Montelusa in omaggio a Pirandello, con riferimento a tre novelle raccolte nel primo volume delle Novelle per un anno, Scialle nero, raggruppate dal sottotitolo Tonache di Montelusa: Difesa del Mèola, I fortunati e Visto che non piove.

3) Th. G. Pavel, Mondi di invenzione, Einaudi, Torino 1992

 

(pubblicato su Il Ponte, anno LV, n.3, marzo 1999)



Last modified Wednesday, July, 13, 2011