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Sale nero

Storie clandestine



Autore Valentina Loiero
Prezzo E 13,50
Pagine VI-166
Data di pubblicazione 2007
Editore Donzelli
Collana Interventi


Con un'intervista ad Andrea Camilleri
Prefazione di Laura Boldrini
Con il patrocinio dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Ufficio Italia

«Cinque storie di grande carica emotiva, in cui spesso la realtà supera di gran lunga l’immaginazione. Una storia ben scritta può sensibilizzare più di tanti rapporti ufficiali». Così Laura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, introduce questo libro di Valentina Loiero. Uno straordinario percorso nelle drammatiche vicende di un’umanità invisibile, eppure tanto vicina. Le storie di coraggio e disperazione di persone che si avventurano nel nostro mare, in quelle 170 miglia che ci separano dalla Libia. Traversate e naufragi che mese dopo mese, quando i numeri diventano volti e quindi vite, finiscono per travolgere anche chi era lì solo per documentare. Non c’è nulla che possa restituire l’effettiva percezione dell’orrore di questi viaggi sciagurati più della voce dei sopravvissuti. È quello che accade nel libro, in cui a parlare sono gli individui e non generici elenchi di immigrati senza nome. Sullo sfondo, le mille contraddizioni di Lampedusa, vero paradiso di vacanze che gli abitanti vorrebbero proteggere a tutti i costi dagli immigrati, o meglio dai «turchi»: un solo nome per un popolo di disperati senza distinzioni. Una riflessione su un fenomeno che ci si ostina a trattare solo da un punto di vista repressivo. Che allontana inevitabilmente dalla verità, come sottolinea con forza Andrea Camilleri spiegando la sua idea del mare: una congiunzione tra culture destinate a «sposarsi». Perché «la cultura è sempre un meticciato. E il meticciato è un valore, è l’uomo che si volta».

Valentina Loiero, giornalista del Tg5, dal 2003 è corrispondente dalla Sicilia. Ha lavorato al «Messaggero» e all’agenzia di stampa Adn-Kronos. Da anni segue il fenomeno degli sbarchi clandestini nel nostro paese.


Camilleri: lode all’uomo che si volta
Tolleranza e solidarietà sono i valori che lo scrittore siciliano evoca parlando di immigrati e carrette del mare con Valentina Loiero

Il mare è una presenza costante negli scritti di Andrea Camilleri, ma sentire lui che ne parla e ne ragiona è un'altra cosa. Me ne resi conto ascoltandolo durante un convegno proprio sul salvataggio in mare. Mi ipnotizzò. Scoprii un Camilleri per me inedito che discorreva di Me­diterraneo e integrazione, di Eschilo e pietas. Non lo nominò mai esplicitamente ma nel suo lento scandire ogni frase aleggiava la presenza di quel «povirazzo» descritto in uno dei suoi li­bri: Il giro di boa. «Un naufrago o un extracomu­nitario che per fame o per disperazione aveva tentato di emigrare clandestinamente ed era stato gettato in mare da qualche mercante di schiavi più fetuso e carogna degli altri».
Gli chiesi un'intervista che mi concesse subito, senza esitare di fronte all' ennesima sconosciuta che si presenta nella sua casa romana, dalla qua­le ormai si muove sempre più di rado. Un uo­mo giovane l'ottantunenne Camilleri, curioso e interessato all'altrui opinione.
Lo trovai particolarmente indignato quel gior­no. Le prime pagine dei giornali parlavano solo di.loro, Olindo e Rosa. I due coniugi arrestati dopo un mese di indagini per la strage di Erba: avevano confessato di aver ucciso i vicini di casa, di aver sgozzato anche il piccolo Youssef. Figlio di un’ita1iana, Raffaella, pure lei vittima della cop­pia della porta accanto, e di Azouz. Il tunisino, l'immigrato, in una parola il colpevole. Su que­st'automatismo si basarono gli inquirenti la se­ra stessa della strage quando indicarono in lui il sospettato numero uno. Senza neanche pren­dersi la briga di controllare che Azouz era al­l'estero, in Tunisia, in quel periodo. La stampa sposò quell'automatismo senza farsi pregare. E per giorni Azouz restò l'unico mostro, il mostro perfetto da prima pagina. «Ci avevo creduto an­ch'io, capisce? Mi avevano indotto in errore. Stavo per scrivere un intervento sull'Unità all'in­domani dei fatti di Erba, per fortuna mi sono fermato in tempo».
Pensa che sia solo della stampa la responsabilità di quell'induzione in errore?
«La stampa ha avuto un peso enorme, certo. Ma in questo caso più che mai ha cavalcato un sentimento che in quest’Italia priva di pudore non è più neanche strisciante: il peggiorare mo­struoso dei rapporti con l'altro. Non solo con lo straniero. Il pirata della strada è l'emblema del­la morale corrente, che ricerca l'irresponsabili­tà. Ma nella reazione del paese alla strage di Er­ba c'è qualcos' altro. C'è la considerazione dello straniero come un corpo estraneo. Un diverso. Ecco perché il tunisino diventa Il Colpevole. Perché non è come noi. E questo se da un lato ci fa paura, perché ci induce a vedere l'immigrato come una minaccia, dall'altro ci rassicura. Ri­conoscere che i mostri sono Olindo e Rosa è molto più difficile. Perché sono indifendibili, non hanno alibi: non sono usciti di galera con l'indulto, non spacciavano, ma soprattutto so­no italiani. Gente onesta che lavora per vivere e che ama il silenzio più di ogni altra cosa. E sta in questa tranquillità apparente il loro essere mo­struosi. Sta nella frase detta dalla moglie al marito il giorno dopo la strage: «Hai visto come si sta bene, ora? Che pace c'è?». Erano soddisfatti e appagati come chi si sente nel giusto per aver difeso qualcosa di suo... il silenzio... Si erano impossessati anche del silenzio. Ecco, la strage di Erba rappresenta proprio l'esacerbazione del­l'idea del «mio». Tutto ciò che minaccia il «mio» va eliminato. Questa non è follia, questa è una mentalità. La mentalità insana che sta contagiando l'Italia».
Ma come si è arrivati a questo, come si fa a non ricordare un passato recente di povertà, nel quale l'italiano di suo aveva ben poco? E anzi, per guadagnarselo quel poco era stato costretto ad emigrare?
«Cosa c'è di più facile del dimenticare? Non richiede alcuna fatica. Faticosa, dolorosa a volte, può essere la memoria. E allora meglio rimuove­re, meglio fingere che non siamo stati stranieri anche noi. D'altra parte, i peggiori governanti degli Stati potenti sono stati sempre coloro che in quegli stessi Stati, vuoi per il colore della pel­le, vuoi per ragioni sodali, erano stati tenuti ai margini. E una volta arrivati al potere sono di­ventati peggiori degli altri. Ecco, questo vale an­che per noi. Dimenticare ci rende peggiori».
Non vede una via d'uscita?
«Bisogna rassegnarsi all'idea che dobbiamo «sposarci». Nel matrimonio, tanto io quanto l'altra perdiamo parte delle nostre identità. Il ri­sultato è una comunione diversa di intenti e di propositi. Tutto questo per dire che non possia­mo considerare chi arriva da noi come un av­versario. Per necessità dobbiamo considerarlo come qualcuno da sposare e rinunciare a una parte della nostra identità. Lui dovrà fare altret­tanto. È l'unico modo per riuscire a vivere assie­me. Non c'è altra strada. I valori fondanti di un'identità, quell'identità che sentiamo minaccidata dagli stranieri, non sono né gli usi né i co­stumi, queste sono variabili che cambiano col tempo. L'identità è fatta dai valori in cui si cre­de. I valori assoluti di una persona sono ciò che finisce per identificarla. La mia stessa identità di scrittore non si è mica formata dentro i confi­ni italiani. Io ho rubato dai russi, dai tedeschi, dai francesi, dai turchi. Sono un bastardo cultu­ralmente, un meticcio. La vera Cultura è sempre un meticciato. Il meticciato è un valore, è l'uo­mo che si volta. Colui che di fronte al diverso non si gira dall'altra parte, anzi cerca di capirlo fino a compenetrarsi. E invece l'Italia sta diven­tando un paese di uomini che non si voltano».
Chi sono gli uomini che non si voltano?
«Ho letto con molto dolore che sempre più spesso nel Mediterraneo vengono rinvenuti dei resti umani e che non vengono recuperati, ma rigettati in mare. Perché recuperarli comporte­rebbe una serie di problemi. Alla pesca per esempio ... Ma allora, mi chiedo, davvero «Pietà l'è morta»? Ci stanno riducendo a questo, al farci dire «ci penserà qualcun' altro». Ma nessun uomo può demandare la propria responsabilità personale alla comunità. Ogni uomo è respon­sabile di se stesso, di quello che fa di fronte a un altro uomo».
Perché dice «ci stanno riducendo»? Chi ci sta riducendo in questo modo?
«Il peschereccio che non si ferma a prestare soc­corso alle imbarcazioni cariche di immigrati, agisce così per paura. Paura di restare imbriglia­to nelle maglie della legge. Quante volte è capi­tato ad esempio che un equipaggio, dopo aver salvato uomini, donne e bambini, arrivato sulla terraferma si sia visto sequestrare l'imbarca­zione o peggio sia stato indagato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina? Ecco perché dico «ci stanno riducendo», perché tro­vo innaturale che una legge qualsiasi possa sna­turare la natura dell'uomo. In mare, ma anche in montagna non è diverso, l'istinto dell'uomo è salvare. Prestare soccorso al proprio simile in difficoltà. Ma se tu, di fronte a un uomo in peri­colo, cominci a fare dei ragionamenti e non ob­bedisci al tuo istinto, allora vuol dire che qual­cosa sta violentando la tua natura. Una legge che non impone il rispetto di alcune situazioni drammatiche è una legge innaturale, che va contro l'uomo. Che va cambiata in nome dell'umanità.
Penso a mio padre. Mi ricordo che in una notte di tregenda, avendo sentito dire che c'erano dei naufraghi al largo di Porto Empedocle, convin­se il comandante di un peschereccio suo amico ad uscire in mare per cercarli. E li salvarono. Per quel gesto mio padre meritò una medaglia al va­lor civile. Ecco, questo c'è nel mio Dna.
Quei comandanti che si fermano a prestare soccorso andrebbero premiati. In un momento co­me questo bisognerebbe incoraggiarli. Se, no­nostante queste leggi, non si voltano dall'altra parte meritano una medaglia. Loro sì!»
Vuol dire che le medaglie vengono date a chi non le merita?
«No, non esattamente, ma mentre le dicevo questo mi è venuto in mente un episodio di po­chi anni fa. Il presidente Ciampi venne in visita ad Agrigento e in quell' occasione volle premia­re me e Luca Zingaretti per il commissario Mon­talbano. Poi premiò anche un poliziotto vero, un vicequestore di polizia. Moretti mi pare che si. chiamasse. Fece me grande ufficiale, Zingaret­ti cavaliere e il vicequestore diventò commen­datore. Le confesso che me ne vergognai, pro­vai un profondo senso di vergogna mentre ve­nivo insignito nel teatro di Agrigento accanto a quel vicequestore. Sa cosa aveva fatto? Qualche mese prima c'era stato un naufragio a pochi me­tri dalla riva sulla costa agrigentina, nei pressi di Realmonte. Si era scatenata una bufera improv­visa e un'imbarcazione di clandestini era finita contro gli scogli. I naufraghi rimasero imbrigliati e si fecero prendere dal panico; molti non sa­pevano nuotare. Quel vicequestore si tolse l'uniforme, la camicia, i pantaloni. Tutto. Rima­se in mutande e si gettò in acqua. Raggiunse l'imbarcazione e pian piano fece salire sullo sco­glio quei poveretti. Li tenne a riparo lì fino a quando la tempesta non si calmò. Ecco fece quello che è nell'istinto naturale dell'uomo: sal­vare il proprio simile. È questo l'istinto che non bisogna perdere, altrimenti siamo fottuti».
Com'è il Mediterraneo di oggi?
«In quest' epoca in cui si raggiunge New York in sei ore d'aereo, mi è capitato di iniziare a consi­derare il Mediterraneo come una sorta di vasca da bagno. Tanto è vero che parlando con uno scrittore maghrebino gli dissi: «Sai, ho come la sensazione che io e te siamo seduti sulle sponde opposte di questa vasca». Una volta serviva per i commerci, i civili spostamenti di gente. Ora è un'altra cosa. Oggi il Mediterraneo può essere, se riusciamo a riportarlo com'era, una splendi­da vasca da bagno domestica. Oppure può di­ventare una di quelle vasche nelle quali i bambi­ni affogano in tre centimetri d'acqua. Ed è que­st'ultima ipotesi che si sta verificando, purtroppo. Che questo mare che è una congiunzione, perché il mare è una congiunzione, diventi un mezzo di divisione è un sacrilegio nei riguardi del mare stesso. Mi appare come una bestem­mia.
Vedo un pericolo enorme nel modo in cui gli Stati affrontano il problema delle migrazioni. L'occhiuta difesa dei propri confini, siano essi di mare o di terra, comporta il tentativo di ren­derli inaccessibili. In mare l'inaccessibilità di un confine significa nel 90% dei casi la morte di co­lui che sta cercando di accedervi... Quando sen­to di tutti questi morti nel Mediterraneo mi vie­ne sempre in mente una frase di Eschilo: «Il ma­re era fiorito di cadaveri», dove quel «fiorito» al­leggeriva la crudezza dell'immagine. Oggi il ma­re non è «fiorito» di cadaveri, è costellato direi. Eppure quanta consapevolezza c'è di tutto questo? La pietà, la comprensione per gli altri, que­sto manca. Ciò di cui d sarebbe più bisogno».
Chi è per lei l'intollerante?
«Un cretino! L'elogio della tolleranza dovrebbe essere quotidiano. Perché essere intolleranti si­gnifica non sopportare chi è diverso da te, non solo perché è nero, giallo o verde, ma semplice­mente perché esprime un'opinione diversa dal­la tua. Ora, se già non tollera un'opinione, figu­rarsi una cultura. Il dramma è che oggi l'intolle­ranza c'è da entrambe le parti. Perché le intolle­ranze non sono solo quelle «fallaciane". È que­sto che rende tragico il momento che stiamo vi­vendo».
Valentina Loiero

(Stralcio pubblicato in anteprima su l'Unità, 7.4.2007)



Last modified Wednesday, January, 23, 2013