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Lo sputo di Empedocle




Illustrazione di Guido Scarabattolo

Nel 2010, durante un breve soggiorno al mio paese mi raggiunse l'ennesimo invito a trascorrere una mattina nella mia vecchia scuola, l'Empedocle, dove ho frequentato il ginnasio e il liceo. Stavolta l'invito era così cortese e discreto che mi sentii costretto ad accettare. Due giorni dopo un amico m'accompagnò ad Agrigento, che dista appena sei chilometri dal mio paese.
Durante il primo anno di ginnasio raggiungevo la scuola con un autobus stracolmo di ragazzi come me che partiva alle sette del mattino, dato che impiegava mezzora a percorrere i sei chilometri. Dentro quell'autobus ci scatenavamo, scoppiavano guerre per bande, volavano libri, cartelle, calamai. Allora l'autista, don Pedro, fermava e lui e il bigliettaio, il signor Lima, tentavano di sedare il tumulto e soprattutto di placare l'ira dei normali viaggiatori che si ritrovavano col cappotto macchiato d'inchiostro o con una tasca strappata. Fu così che, da un certo giorno in poi, gli autobus diventarono due, uno dei quali interamente riservato agli studenti.
La terza liceo l'ho terminata nel 1943 e da allora non ci sono più ritornato.
Il liceo si trova sempre nello stesso edificio, però è stato completamente ristrutturato e adesso c'è un nuovo ingresso. Mi accolgono il preside e il corpo insegnanti, gli studenti m'aspettano nella palestra. Comunque, la ristrutturazione ha mantenuto il lunghissimo corridoio sul quale si aprono le classi e che termina con una specie di nicchia nella quale c'è il mezzobusto del filosofo Empedocle d'Agrigento. Mi torna a mente che fu proprio alla prima ginnasio che assistetti al rito solenne della "magna infamia", instaurato dal preside di allora. Stavamo facendo lezione quando il bidello Pancucci invitò tutte le classi a uscire e a schierarsi nel corridoio nel silenzio più assoluto.
Quando tutti fummo schierati, professori compresi, apparve il preside che teneva per un orecchio uno studente del primo liceo che doveva averla fatta grossa. Il preside cominciò a percorrere il corridoio tra le due ali di ragazzi e ragazze con passo lentissimo, quasi conducesse un condannato a morte all'esecuzione. Poi, arrivato davanti al busto d'Empedocle, spinse in avanti il reprobo e chiamò, a gran voce: «Empedocle!». Seguì un silenzio di tomba. Io ero atterrito, m'immaginavo di veder apparire da un momento all'altro il fantasma del filosofo. Quindi il preside gridò: «Empedocle, sputagli!». E subito dopo fu lui stesso a emettere il suono di uno sputo gigantesco, ultraterreno. Poi si voltò verso di noi e ci ordinò di tornare in classe.
«Dov'è la seconda B del ginnasio?» – domando –. Mi ci accompagnano, senza chiedere il perché della richiesta. E se me l'avessero chiesto, non avrei detto la verità. Ora invece la dico. Visto e considerato che non avevo nessuna voglia di studiare e che trascorrevo i miei pomeriggi per le strade coi miei amici figli di pescatori e di carrettieri a far danni, i miei decisero di mandarmi al Collegio vescovile di Agrigento. Il Collegio non aveva una sua scuola e così, ogni mattina, inquadrati, ci recavamo all'Empedocle. Alla seconda ginnasio capitai in una classe mista. Nel banco vicino al mio, ma separato dal corridoietto, sedeva la prima della classe, una bella e assai intelligente compagna che si chiamava Giuliana. Nel mio vocabolario di latino, nella penultima pagina di copertina, c'era una specie di tasca dove ci stava infilata una piccola grammatica, che però il professore sequestrava quando dovevamo fare il compito in classe. Succedeva che in queste occasioni Giuliana, che aveva un altro vocabolario, mi chiedesse il mio per fare dei raffronti. Poi me lo restituiva. All'inizio del terzo trimestre, durante le ripetizioni del pomeriggio in Collegio, il tutore mi chiese in prestito il vocabolario di latino. Io glielo diedi. Dopo una diecina di minuti, uno schiaffone tanto violento quanto inatteso mi fece cadere dalla sedia. Il tutore mi sovrastava, rosso in faccia: «Mascalzone! Farabutto! Ti fai scrivere bigliettini amorosi dalla tua compagna! Non ti vergogni?».
Ero sbalordito, non mi ero mai accorto di quei bigliettini. Inoltre non ero stato io a volere che lei me li scrivesse, l'aveva fatto Giuliana spontaneamente. Il tutore accese uno zolfanello e li bruciò. E così io non conobbi mai le parole d'amore che Giuliana aveva scritto per me. Comunque il tutore parlò al preside e Giuliana venne cambiata di posto, in modo che non potesse più domandarmi il vocabolario.
Naturalmente, i banchi di questa seconda B sono diversi, la finestra si trova da un'altra parte. Il mio è stato un tentativo ingenuo di concretizzare un ricordo. Poi arriviamo nella palestra gremita. Gli studenti mi guardano con curiosità, composti e seri. Hanno sistemato un tavolo, mi fanno sedere al posto d'onore. Sul tavolo c'è una pila piuttosto alta di sottili quaderni dalla copertina lucida di un bel blu chiaro.
Il preside ne prende uno in mano, mentre un bidello comincia a distribuire gli altri tra i professori e gli studenti. Il preside mi sorride e dice che in questi quaderni sono raccolte le fotocopie di tutte le mie pagelle, dal primo ginnasio alla terza liceo. Inorridisco. Ero sicuro che fossero andate distrutte con l'ultimo bombardamento del 1943. E invece no, ecco qui, tutte di fila, le prove inoppugnabili del men che mediocre studente che sono stato. C'è una breve prefazione a firma del preside dov'è detto che la mia carriera scolastica ha avuto «un percorso un po' accidentato».
Bontà sua. I quattro si sprecano, c'è anche un bel sei in condotta e, credo che sia un caso unico, un rimando a ottobre, alla prima liceo, nientemeno che in educazione fisica. Non è che in educazione fisica fossi una schiappa, tutt'altro, solo che quell'anno mi stava molto antipatico l'insegnante, un tale sempre in divisa, sempre col nome di Mussolini sulle labbra. Ripeteva in continuazione, imperativo: «Scattare! Scattare!». Un giorno mi bloccai mentre ci stava facendo fare un esercizio estremamente faticoso e gli dissi: «Voi sbagliate verbo». Mi guardò a un tempo truce e perplesso: «E quale sarebbe il verbo giusto?». «Schiattare! Schiattare!» – risposi –. Si vendicò dandomi quattro.
Non oso alzare gli occhi dal libretto e guardare gli studenti. Ma all'improvviso esplode un fragoroso applauso. Tutti, ragazzi e ragazze, sono in piedi, agitano il quadernetto come facevano i cinesi col libretto rosso di Mao, mi urlano: «Bravo! Sei dei nostri!».
L'atmosfera diventa festosa. Ora sono veramente un loro compagno ritrovato, solo un po' tanto invecchiato.
«Beato te!» – mi dice alla fine dell'incontro un ragazzo di terza liceo –. «Che non hai dovuto sostenere l'esame di maturità!».
Infatti, nel 1943, con lo sbarco degli alleati in Sicilia imminente, venimmo promossi o bocciati a scrutinio. Ma l'esame di maturità lo facemmo lo stesso, sotto le bombe e i mitragliamenti, in mezzo ai morti e alle distruzioni.
Fu un esame durissimo che davvero ci maturò, ci fece diventare uomini.

Andrea Camilleri

(pubblicato su Il Sole 24 Ore del 6.11.2011)

 



Last modified Sunday, November, 06, 2011