Dottore, io la verità a vossia ce la conto, perché vossia
a questa verità ci può crèdiri datosi che mi dicono
che vossia scrive storie di fantasia, romanzi, cose accussì. E la
storia che ci voglio contare pare di fantasia e inveci non lo è.
Vossia nello millinovicentotrentacinco quanti anni teneva? Una decina scarsa,
vero? Epperciò come la facenna principiò non se lo può
arricordare. Io sì, inveci, perché all’èbica avevo
cinco anni meno di Mìnico Portera che era quarantino. Mìnico
ogni matina scinniva con la mula dalla campagna e viniva a Vigàta
a vendere ricotta frisca dintra alle cavagne di vimini, coma allura usava.
Se l’arricorda la cavagna? Era tanticchia più grande di un cannòlo
e dintra c’era la ricotta. Mìnico la faceva nèsciri fora
e te la serviva sopra una pàmpina di vite. Quella era ricotta che
ti si squagliava come se fosse liquita e no questa fitinzia che oggi ti
fanno mangiari! Basta. Mìnico e io eravamo amici a malgrado della
differenza d’età, ogni matina facevamo la stessa trazzera, lui con
la mula e la ricotta, io con lo scecco, scusasse, l’asino, e la frutta
di stascione. Accussi, e ti vedo oggi e ti vedo dumani, quarche parola
principiammo a scangiarla. O meglio: io parlavo e lui ascutava. Perché
lui era omo di scarsa parola. Ma quando parlava, dottore mio! Taliasse,
mi deve proprio accrìdire: torno torno a ogni parola che diceva
ci metteva un mare, un oceanu di biastemie e santioni. Faceva spavento!
Non ci cridiva né a Dio né a Santi né a Madonne. Non
era mai voluto trasire dintra a una Chiesa. Mai, manco quando che morì
sua matre che lui ci era affezionato! La duminica accompagnava la mogliere
fino a davanti alla Chiesa e se ne andava da Tutuzzo. S’assittava, solo,
perché non dava confidenzia a nisciuno, e si faciva un litro. Doppo
andava a pigliare la mogliere che nisciva dalla Missa e l’accompagna da
una sorella che abitava in paisi. Se ne tornava da Tutuzzo e si faceva
un altro litro. Perché il vino ci piaciva assà assà.
E macari un’altra cosa ci piaciva assà assà.
I fimmini. Madonna santa, dottore mio, quanti fimmini aveva! Lo sa
come faciva? Quando che aveva finito di vendere la ricotta, si metteva
alla cerca campagne campagne. E finiva che sempri qualche cosuzza attrovava.
Accussì s’arricampava a la so’ casa la sira tardo, si faceva un
altro litro e bonanotti. I fimmini non ci sapevano dire di no. Mìnico
era robustoso e forte, sempri scuroso in faccia. E qualchi fimmina che
in prima ci dicivano di no, la pirsuadeva a botte. Perché Mìnico
era manisco, non perdeva o ccasione per dare lignate all’urbigna: a so’
mogliere, ai so’ figli, Lucia che all’èbica teneva otto anni e Rorò
che ne teneva cinco. Alla mula, poi, ci ne dava tante e tante, nirbate,
càvuci, vastonate che quella povira vèstia accominciava a
trimare appena lo vedeva. Ma non vorrei che vossia si facesse errato concetto:
Mìnico non era pirsona capace d’ammazzare, di fare male serio. Oddio,
è vero che aveva romputo tre costole a Jachino Todaro e che aveva
fatto insordire Michelino Scozzari con un cazzotto all’orecchio, però
da questo a occidere un cristiano ce ne passa. A fargliela brevi, dottori,
praticare Mìnico non era agevole. Con mia non aveva nenti da spartire,
manco maritato ero, e perciò tra noi non c’era mai stata sciarriatina
e meno che mai qualchi parola grossa. Come ci dissi, lui la duminica accompagnava
la mogliere in paìsi, io inveci qualchi volta scinniva per andare
alla Missa e qualchi volta no. Una duminica dell’ottòbiro del millinovicentotrentacinco,
io a la Missa non ci andai, me ne restai in campagna. A Vigàta ci
andai inveci nel doppopranzo e trovai il paisi a rumore, chi parlava di
qua, chi parlava di là e tutti dello stisso argomento: la conversione
di Mìnico. Le cose erano andate accussì. Mìnico si
era appresentato con la mogliere alla Chiesa come faceva sempri, ma stavolta,
inveci di girari le spalle e andarsene da Tutuzzu, si era stinnicchiato
a panza sotto, aveva tirato fora la lingua e aveva principiato ad acchianare
gli otto scaloni della scalonata della Chiesa strisciando e liccando, per
pinitenza, le bàsole. Questa si chiama «lingua a strascicuni»
ed è pinitenza di piccato grosso. Sempre strisciando e liccando,
era arrivato davanti all’Artàro maggiore. Qui si era messo a ginucchiuni
e aveva accominciato a darsi pugni nel petto, chiangendo lagrime grosse
come pietre e facendo voci: «Pirdona li mè piccatazzi, Signuri!».
Doppo, senza finiri di chiàngiri, aveva ascutato la santa Missa.
Doppo ancora, aveva spiato a patre Fiannaca se si poteva confissari. Durante
la confessioni, che durò un’orata e passa, mezzo paìsi corse
in Chiesa perché la voce della conversione si era saputa. Tutti
volevano assistere e po’ contare la cosa strepitosa ad amici e parenti.
Da quella jurnata, Mìnico cangiò. Non Santiò più,
non biastemiò più, non taliò più una fimmina,
non toccò più vino. Faciva òpire bone, visitava i
malati, aiutava come potev a i bisognevoli, a la Missa ci andava ogni matina
presto. Cangiò modo di trattare la mula, ora la carizzava, ci accattava
lo zùccaro a quatretti, non ci acchianava sopra per non darle piso.
Il nome della vestia, che lui ci aveva dato, era «Dimònia»,
ma da quella jurnata la chiamò «Santuzza». E a tutti,
se ci spiavano la scascione della conversione, contava il fatto del fulmine.
Diceva che il sabato avante la sua trasuta in Chiesa a lingua strascinuni,
c’era stato un temporale terribile. E questo corrispondeva. Che lui si
era per un momento arriparato sotto il carrubbo che c’era davanti alla
so’ casa e in quel priciso momento un fulmine aveva incendiato l’àrbolo
sparagnando a lui per miracolo. Questa storia in parte corrispondeva e
in parte no. Il fatto del fulmine era vero, ma sotto all’àrbolo
lui non c’era, Mìnico era con mia a quaranta passi di distanza,
stavamo correndo ad arripararci nella so’ casa. Perciò, la scascione
della sua conversione non era quella che contava, ma io non dissi niente,
con gli altri feci finta di cridiri macari io al miracolo. Una bella jornata
la signora Giacovazzo, che era fimmina chiesastrica che il parroco per
lei ci stravidiva, si mise a dire che la ricotta di Mìnico faciva
miracoli: con una cavagna passava il malo di testa, con due il malo di
panza, con tre l’infruenza... Mìnico c’impiegò un anno a
divintare ricco. S’accattò un camioncino, sopra ci portava la mula
e la ricotta. Oramai non facevamo più la trazzera insieme. Una volta
che ebbi bisogno l’andai a trovare. «Non te li posso dare i soldi
che vuoi» - mi fece - «a mia servono per fari la limosina».
L’anno appresso uno in paìsi mi disse che Mìnico stava
morendo. Mi parse malo non andarlo a salutare. Pelle e ossa si era arridotto.
Era solo, i figli stavano in collegio, la mogliere era morta, la mula macari.
La mula l’aveva seppellita vicino casa, sotto un àrbolo.
«Quei soldi che volevi l’anno passato, ora te li posso dare»
- mi fece appena mi vitti.
«Non ne ho più di bisogno» - ci dissi - «Ma
mi devi fari un favore. Io sono stato omo di panza e non ho mai detto a
nisciuno che la facenna del fulmine non era vera. In cangio, mi devi diri
la verità sulla tua conversione».
«Inserra la porta» - mi disse - «accussì non
trasi gente».
E mi contò la cosa. Un jorno, andando campagna campagna in cerca
di fimmine, dalle parti di Montereale aveva incontrato una picciotta che
riempiva una quartara d’acqua a una fontanella. Era diciottina, mi disse,
una billizza come mai ne aviva visto prima, ma un diavulo scatinato. Non
ci fu verso di potersela portare dintra a un pagliaro, manco con le botte
Mìnico ci arriniscì. E accominciò a pèrdiri
la testa per questa picciotta che si chiamava Lulla. E più Lulla
vedeva Mìnico nèsciri pazzo, più ci metteva il carrico
da undici. Una volta si fece attrovare con il petto tutto di fora che se
lo lavava alla fontanella, un’altra volta se ne acchianò sopra a
un albero e non aveva niente sotto...
«Che vuoi da mia?» - le spiò Mìnico quanno
capì che il prezzo era grosso - «Parla chiaro, io sono pronto».
«Maritami».
«Ma non lo sai che sono maritato e patre di figli?».
«Lo so, ma prima mi devi maritare».
«E come faccio con mia mogliere?».
«L’ammazzi».
Mìnico restò aggelato. Doppo di quella volta, Lulla,
quando si vedevano, ci diciva sempri: «Ammazzala!». Mìnico
accominciò a non chiudiri occhio la notte. «Ammazzala! Ammazzala!».
E una duminica, che stavano scinnendo a Vigàta, la mogliere davanti
sopra alla mula e lui appresso, capì che non poteva farcela più.
Isò il bastone da pecoraro, lo fece roteare e lo calò, a
gran forza, sulla testa della mogliere. Però, in quel priciso momento,
la mula scartò di lato e il colpo andò a vacante. Mìnico
arriniscì a stento a non cadiri in terra trainato dal suo stesso
colpo. Doppo cinco minuti, Mìnico isò daccapo il bastone,
lo roteò, lo calò e la mula daccapo scartò. «Ma
quant’è nirbusa stamatina sta mula!» - fece la mogliere che
non aveva capito la intinzioni del marito.
Insomma, dottore, Mìnico ci provò cinco volte e cinco
volte la mula scartò. E fu proprio davanti alla Chiesa che Mìnico
si fece pirsuaso che la mula aveva fatto accussì perché il
Signuri non voleva che diventasse un assassino. Si convertì e la
sua vita cangiò. Dottore, io manco allora dissi niente. Non era
stato un miracolo, come accridiva Mìnico, il Signuri non aveva dato
alla vestia specchietti retrovisori. Il fatto è che quando lui roteava
il bastone, la mula sentiva la friscanzana, il venticello che produceva
il legno e, aspettandosi la solita botta del patrone, scartava. Quale miracolo
e miracolo! Non c’era stato quello dell’àrbolo di carrubbo e del
fulmine e non c’era stato manco quello della mula. Io me ne sono stato
muto per tutti questi anni, ma ora sento diri in paìsi che hanno
fatto un comitato per fare addivintare Mìnico prima biato e po’
santo. Ogni anno fanno una processioni nel posto dove una volta c’era il
carrubbo. E lo sa chi guida la processioni? Una fimmina ottantina, una
divota, che di nome fa Lulla. Che faccio, dottore, parlo? E se conto la
verità vera, chi ci crede a un vecchio di cento anni?
Andrea Camilleri
La Stampa, 17 settembre 2000
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