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Siamo tutti sulla sponda dello stesso lago

Intervista di Giuseppe Marci ad Andrea Camilleri

 

Questa intervista è stata realizzata in occasione del “I Colloquio Internazionale di Italianistica dell'UFC – Brasile”, Fortaleza, 16/17/18 ottobre 2012.

Il Professore Giuseppe Marci (Università di Cagliari) ha partecipato anche con un intervento intitolato Storia, racconto e progresso civile nell’opera di Andrea Camilleri.

 

 

D. Ho il difficile compito di illustrare l’opera di Andrea Camilleri, in Brasile e nel breve tempo di una conferenza: vorrei chiederle aiuto. Anche perché, nel corso di una simile esperienza compiuta l’anno scorso all’Università di Cearà, che ha sede a Fortaleza, nel nord-est del Brasile, ho capito che lì c’è un grande amore per l’Italia, la lingua, la letteratura, la cultura italiana e avevano, allora, gli amici brasiliani, interesse e preoccupazione per la nostra politica.

Che notizie posso portare oggi, a distanza di un anno?

 

R. La situazione italiana è, da una parte, una situazione tragica per ciò che riguarda le condizioni recessive che si sono venute a creare anche a seguito delle necessarie manovre per il risanamento economico. La speranza è quella di riuscire ora a mettere le basi per un nuovo sviluppo. Temo sarà un compito duro e difficile. Dall’altra parte oggi abbiamo un governo tecnico sorretto da una maggioranza politica che non corrisponde più alle intenzioni dell’elettorato italiano. Quindi nel 2013 questo governo tecnico cesserà le sue funzioni e io non posso che augurarmi  che il nuovo governo politico possa essere nelle condizioni di poter proseguire nelle riforme intraprese.

 

D. Non so se lei ritenga che l’anno appena trascorso, centocinquantesimo dell’Unità nazionale italiana, abbia avuto (o meno) un’importanza notevole nella crescita di un sentimento di coesione civile, di ripensamento sulle ragioni fondanti, sui percorsi istituzionali seguiti dal 1861 a oggi, sugli errori commessi, sulle occasioni perdute, su quanta strada c’è ancora da percorrere per “fare gli Italiani”.

Anche per noi, ma sicuramente per chi non è nato nel nostro Paese, è difficile comprendere le sottigliezze della vita italiana e la complicatezza della società. Figurarsi capire – e spiegare a chi vive oltre oceano – uno “scrittore italiano nato in Sicilia”. Vogliamo partire da questa definizione che lei dà di sé stesso? Perché è così importante e necessaria?

 

R. Una sorta di cartina tornasole dei sentimenti che agitano gli Italiani nei riguardi dell’Unita d’Italia si è vista in occasione del 150° anniversario, quando solo nel giorno della commemorazione è apparso un minimo di sentimento unitario. Ricordo che addirittura c’è stato un partito politico che, facendo parte del governo di allora, non ha partecipato a queste manifestazioni. Sotto la facciata dell’Unità esiste ancora una sorta di lacerazione o frattura verso quella che sarebbe la vera composizione di una nazione. Per me dire che sono prima di tutto Italiano e poi un Italiano nato in Sicilia, diventa, in questo contesto, fondamentale come dichiarazione di principio, pur con tutte le critiche che sono evidentissime nei miei romanzi cosiddetti storici, non verso l’Unità ma verso i modi in cui l’Unità venne realizzata.

 

D. Chiedo queste cose a lei che all’inizio del nuovo secolo ha assunto il ruolo incarnato, nel Novecento, da grandi scrittori/intellettuali. Penso, per fare qualche nome, a Pier Paolo Pasolini, a Italo Calvino, a Leonardo Sciascia, poeti e vati (avrebbe detto il Foscolo) della loro società, capaci di antivedere, di parlare del futuro. Magari inascoltati.

Con tutte le difficoltà dei tempi, tuttavia operavano in un mondo in espansione, fiducioso nelle proprie possibilità. Oggi, in Italia – e in tante parti del mondo – siamo, come Mimì Augello dice di sé, strammi e confusi, inquieti e spauriti.

Che futuro vede, Andrea Camilleri?

 

R. Mi trovo a vivere in un’epoca in cui il futuro ha assunto un’accezione quasi globale. Ai “miei” tempi ognuno aveva un suo proprio futuro. In questi ultimi tempi i “nostri” futuri sono comuni. Tale nuovo punto di vista pone chi riflette sul tema in una situazione assai diversa dagli intellettuali che lei mi cita. La mia risposta circa il futuro è questa: vedo assai drammatico il futuro immediato dell’Europa e del mondo, ma poiché – come ho sempre dichiarato – ho più che fiducia, ho fede nell’uomo, penso che alla fine le sorti dell’uomo, anche se non saranno né magnifiche né progressive, comunque sia, ritroveranno una loro ragione e una loro tranquillità, seguendo regole che ancora non conosciamo.

 

D. Certo, sembra pretendere troppo, se chiediamo una previsione del futuro. Però con lei forse lo si può fare, ripensando all’epigrafe posta in apertura del suo primo romanzo: “il corso delle cose... è sinuoso”. Sono parole di Merleau-Ponty che perfettamente si adattano al senso (e non senso) delle cose del mondo e di quelle italiane.

Quel romanzo, Il corso delle cose, stampato nel 1978, dopo quasi dieci anni dalla sua stesura, che “non ebbe distribuzione” e fu poco conosciuto, quel romanzo non avrebbe fatto pensare al fenomeno Camilleri che sarebbe esploso negli anni Novanta del Novecento. È proprio sinuoso, il corso delle cose.

 

R. Lei ha probabilmente ragione. Vorrei aggiungere alle sue considerazioni che per me Il corso delle cose rappresenta l’unico romanzo che ebbe una riscrittura totale perché nella prima stesura la “mia” lingua era appena accennata. In realtà non avevo ancora osato spingere il pedale a fondo; è stato Niccolò Gallo a incitarmi, invece, a una revisione coraggiosa del testo nel senso dell’approfondimento di questo mio particolare linguaggio.

 

D. Il corso delle cose è un romanzo in larga misura archetipico e contiene la previsione di quello che verrà nella sua produzione successiva: visioni del mondo, situazioni, genere narrativo, lingua... Comincia con i nomi di Londra e Nuovaiorca, e non la perde questa dimensione mondiale; anche se poi una frase chiave dice che “i siciliani hanno fama di non parlare, in realtà parlano, a mezza voce, cifrati, ma parlano, basta saperli interpretare”. Esattamente il nostro problema: riuscire a interpretare e spiegare, a noi stessi e a chi vive lontano da noi.

 

R. Credo che questa sia stata in fondo la finalità di tutto il mio narrare. Cercare di raccontare me stesso, le mie origini, la mia terra, il mio modo di pensare e vedere i punti in cui essi combaciavano con il mondo e cercare di renderli sempre più percettibili e chiari. Perché, nello stesso momento in cui spiego queste ragioni, sempre più le stesse ragioni si chiariscono a me stesso, e nello stesso tempo, avviene come una sorta di apertura verso le ragioni degli altri.

 

D. C’è un’altra frase che mi colpisce, ne Il corso delle cose: “Il paese era calato, alle tre di dopopranzo, nel sordo letargo di certe giornate africane, sicuramente, all’indomani, si sarebbe trovato un velo di sabbia rossa del deserto sui balconi”.

Ogni volta che la leggo, mi viene in mente un autobiografo sardo del Novecento, Umberto Cardia: “Altra cosa era l’Africa: la sentivamo nell’aria, come un profumo arido ed intenso, come una presenza non visibile, al di là del mare, ma percepibile, tangibile, palpabile quasi. Dall’Africa giungevano i soffi caldi ed umidi del levante, uno dei dominatori, coll’oceanico maestrale, dei nostri lidi e dei nostri spazi urbani, dall’Africa la pioggia trasportava riversandola copiosamente su di noi la sabbia fulva dei deserti, dall’Africa, con i primi tepori, arrivavano, ordinate come falangi, le schiere grigio-rosee dei fenicotteri e delle altre specie lacustri che popolavano, per mesi, i nostri stagni, fino a farli brulicare d’una misteriosa, intensa, vitalità animale. Dall’Africa, come avremmo meglio appreso più tardi, ma già lo sentivamo con l’istinto, erano venuti i nostri lontani progenitori, all’Africa punica, romana, vandalica, bizantina avevamo pagato tributo per lunghi secoli, con l’Africa saracena dei bey e dei sultani avevamo lottato per altri secoli sulle nostre spiagge turrite, in Africa, a Tunisi, ad Algeri, ad Orano, nostri padri, madri, fratelli, sorelle avevano mangiato il pane amaro della schiavitù e quello, non meno salato, della emigrazione ottocentesca”.

Continenti e isole legati da un destino comune?

 

R. Certo, professore, è il destino del Mediterraneo che probabilmente è lo stesso dell’Oceano dei suoi amici del sud America. Voglio dire, siamo tutti sulla sponda dello stesso lago. Abbiamo parole comuni, gesti comuni, cibi comuni, abbiamo l’istinto a costruire le stesse forme di case e a suonare la stessa musica. Più a nord talvolta questo istinto stinge nel cielo più bianco, più a sud nella terra più rossa. Ma siamo cittadini dello stesso lago Mediterraneo. Certo, non solo sono state mischiate molte lingue, ma addirittura nel Mediterraneo hanno creato una loro lingua, una lingua tutta particolare parlata dai pescatori: il Sabir.

 

D. C’è un racconto di Sciascia che dice di un lungo viaggio: “Era una notte che pareva fatta apposta, un’oscurità cagliata che a muoversi quasi se ne sentiva il peso. E faceva spavento, respiro di quella belva che era il mondo, il suono del mare: un respiro che veniva a spegnersi ai loro piedi”.

Navigazione di dodici giorni con partenza da Gela e Licata,  destinazione una spiaggia del Nugioirsi, “a due passi da Nuovaiorche”, “duecentocinquantamila lire: metà alla partenza, metà all’arrivo”. Un viaggio beffa (che assomiglia alle odierne storie dei migranti provenienti dall’Africa) con arrivo a Santa Croce Camarina: “erano sbarcati in Sicilia”.

Storie di un mondo che ha conosciuto tutto e che tutto ha raccontato, in una sua lingua nella quale sono mischiate molte lingue.

Sempre ne Il corso delle cose, Camilleri mette le mani avanti: “Mi feci presto persuaso, dopo qualche tentativo di scrittura, che le parole che adoperavo non mi appartenevano interamente... Quando cercavo una frase o una parola che più si avvicinava a quello che avevo in mente di scrivere immediatamente invece la trovavo nel mio dialetto o meglio nel parlato quotidiano di casa mia”.

Come ha fatto a far intendere questa lingua, parlata a casa sua, a milioni di italiani?

 

R. Quando Sciascia lesse le mie prime cose mi invitò a non scrivere come scrivevo, proprio dicendomi che il mio destino sarebbe stato quello di avere pochi lettori data la difficoltà di comprensione. Allora la mia risposta fu che non avevo scelta, non sapevo scrivere in altro modo. Ero rassegnato in partenza al fatto che sarei stato letto da pochissimi. E, presa consapevolezza della mia scrittura, non ho fatto nulla, semmai al contrario ho aumentato le difficoltà per i miei lettori. Non so come sia avvenuta la costruzione di quello che Sebastiano Vassalli, in un suo articolo, ha descritto come il ponte: “non c’è bisogno di costruire un ponte tra il continente e la Sicilia, l’ha già costruito Camilleri: è un ponte di carta ma funziona benissimo”.

 

D. Un altro suo romanzo delle origini comprende, nell’edizione Sellerio (1997), un glossario: “Nel 1980 Livio Garzanti volle pubblicare questo mio romanzo risolvendo la perplessità di alcuni suoi eminenti collaboratori. Mi domandò però, quasi a guardarsi le spalle, un glossario. Comprendendo le sue taciute ragioni, principiai a compilarlo di malavoglia; poi, a poco a poco ci pigliai gusto e me la scialai. Il romanzo viene ora ristampato a distanza di diciassette anni e il glossario, nel frattempo, è diventato superfluo”.

Ci spiega, per favore, la malavoglia e lo scialo? Ci spiega, come è stato possibile, che in soli diciassette anni il glossario sia diventato superfluo?

 

R. Accolsi con malanimo la richiesta di Garzanti perché mi pareva una sorta di abdicazione del lavoro che facevo nel romanzo. La mia scrittura andava accettata così com’era senza spiegazioni, non erano parole astruse o desuete ma appartenevano ad un dialetto in uso. Ciononostante, dato che Garzanti insisteva per ragioni editoriali, le stesse di Sciascia, accettai a malincuore. Quando cominciai a farlo provai un certo divertimento: definire certe parole era in sé una cosa assolutamente divertente. Come poi sia avvenuto il miracolo che nei libri non ci sia stato più bisogno di un glossario, non so spiegarlo; ma spesso in alcune città italiane del nord ho trovato persone che si sforzavano di parlarmi riproducendo il mio vocabolario e scusandosi per la cattiva pronuncia.

 

D. Tanto si doveva essere scialato, compilando quel glossario, che anni dopo ha scritto Il gioco della mosca.

L’ho proposto, quel volumetto, ai miei studenti dell’Università di Cagliari, anno di grazia 2002, giovani immersi in un moderno universo di comunicazione multimediale proiettata verso il futuro. Mi sorprendeva vedere come l’ostacolo linguistico a poco a poco venisse meno, capissero le “microstorie, anzi sarebbe meglio dire storie cellulari”, si appassionassero per ciò che sta dietro la calatina, i casi del parrinu Arnuni o il vocabolo ‘musione’: “Tengo uno storo abbascio città / dove se vuoi farmi fone / qui tutto è pace e tranquillità / nemmanco il vento ci fa musione”.

Avevano molto da riflettere, i miei studenti iscritti alla Facoltà di Lingue e Letterature straniere. A proposito: cosa arriva, di tutto questo, a chi legge le opere di Andrea Camilleri in traduzione? Cosa posso dire, ai nostri amici brasiliani, come viatico per la lettura?

 

R. Il problema delle traduzioni è serio. Ci sono stati convegni sulle mie traduzioni e il dato di fatto è che le vendite migliori sono in quei paesi in cui ci sono traduttori scrupolosi e seri. Credo che i traduttori migliori siano i francesi e i tedeschi con i quali sono in costante contatto. Non conosco la situazione del portoghese e del brasiliano e quindi non saprei cosa dire.

 

D. Lei ha raccontato della propensione di Leonardo Sciascia per gli scrittori siciliani: “Pirchì io degli scrittori siciliani vorrei essere padre, complice, amico, tutto. Sugnu mafiusu rispetto agli scrittori siciliani”.

Anche Carlo Dionisotti, a suo modo, lo era, se in un suo memorabile saggio pubblicato alla metà del Novecento poteva scrivere che: “I romanzi del siciliano Verga sempre più si sono imposti come la prima e fin qui sola celebrazione poetica dell’umile contemporanea Italia, fantastica e sconsigliata, come i personaggi di quei romanzi sono, dura al lavoro e quasi mordente alle scaturigini di una vita amara, che pur vuol essere vissuta fino allo stremo”.

Scommetterei che Andrea Camilleri si è fermato a riflettere sull’introduzione a I Malavoglia: “Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme e da lontano”.

Da vicino, vediamo la storia dei “deboli che restano per via”, le tragedie dei vinti, le stragi dimenticate che chiedono di essere raccontate. È così che nascono i suoi romanzi storici e civili?

 

R. Anche, ma nascono soprattutto dalla coscienza della volontà di capire perché, pur avendo partecipato ad un tentativo comune di costruire una Nazione, alcune persone che erano accanto a noi a combattere, ad un certo momento furono giudicate diverse da noi. Perché, in parole povere, il Sud d’Italia, e non solo la Sicilia, che aveva combattuto entusiasticamente al fianco di Garibaldi, una volta raggiunto lo scopo venne trattato come una colonia e niente di più. Perché all’interno dei vincitori ci furono dei vinti?

 

 

D. Il corso delle cose, Un filo di fumo, La strage dimenticata, La stagione della caccia, La bolla di componenda, Il birraio di Preston, La concessione del telefono, La mossa del cavallo, li abbiamo letti come altrettante tessere del mosaico che illustra il caso emblematico dei rapporti fra Sicilia e Italia, una storia osservata e raccontata nel momento topico dell’Unità, il prima e il dopo, quel che poteva essere e non è stato. Quel che occorreva tenere a mente, per cercare di migliorare, come vogliamo, il nostro Paese

Ne Il re di Girgenti c’è tutto questo e c’è molto altro ancora. C’è la vita disperata di chi lavora da mattina a sera per un misero compenso, c’è la sopraffazione e l’annientamento degli umili davanti al potere politico, ma ci sono anche la speranza, lo sberleffo, la magia, la musica della luna e la poesia che fa volare gli aquiloni.

Sa che i miei studenti restavano incantati, quando imparavano le storie del mago Apparenzio, del poeta Grigoriu, di Fura u serparo e del briganti Salamone? Ciascuna di queste opere mostra sapienza costruttiva, creatività linguistica e ricchezza di tessitura letteraria attraverso cui si realizza il ricamo intertestuale che Salvatore Silvano Nigro ha messo in luce nel volume dei Meridiani dedicato ai Romanzi storici e civili.

Ma in nessun momento il lettore pensa che si tratti di un esercizio letterario e mentre legge riflette, per poi spostare i pensieri dalle età storiche evocate nei romanzi al presente, così difficile da comprendere e da modificare.

A quale pubblico pensa Andrea Camilleri mentre scrive i suoi romanzi?

 

R. Mentre scrivo i miei romanzi – storici e civili, intendiamoci – curiosamente penso a un pubblico di lettori già colto, lettori ai quali in realtà io stia esponendo una tesi che possa essere da loro compresa e controbattuta. Curiosamente è strano come all’atto di scrivere un romanzo di Montalbano, dove so di avere un pubblico assai più vasto, mi sento quasi in obbligo di porre delle problematiche immediatamente accessibili mentre con i romanzi storici, che immagino destinati ad un pubblico di lettori “addetti ai lavori”, interessati allo stesso periodo, mi permetto una maggiore intensità di quesiti nella scrittura. Salvo poi ribaltare tutta questa tesi quando un giovane milanese, o giù di lì, mi propone una lettura del Re di Girgenti che io non avevo neanche preso in considerazione.

 

D. Lei ha spiegato come nacquero i gialli di cui è protagonista il commissario Montalbano: il confronto con gli autori che l’hanno preceduta (a cominciare da Simenon) e con i suoi contemporanei; l’esercizio di autodisciplina; il controllo della scrittura; la percezione di come il protagonista abbia da subito le caratteristiche di un personaggio seriale che non rimane eguale a se stesso ma cresce, matura, si avvia alla vecchiaia. Mentre tutt’attorno, a Vigàta, in Sicilia e nel resto d’Italia le dinamiche della vita si sviluppano e Montalbano vi partecipa, reagendo agli avvenimenti.

Tra il 1994 (La forma dell’acqua) e il 2012 (Una lama di luce) sono usciti da Sellerio 19 romanzi di Montalbano (senza dire dei racconti apparsi in volume per Mondadori).

Lo avrebbe immaginato l’autore che scriveva quel primo titolo? E poi, cosa è successo, poi, nella mente del romanziere? Ha elaborato un progetto che dai tempi de Il ladro di merendine (1996) arriva fino a Una lama di luce, o piuttosto ha ragionato sviluppando spunti che sarebbero rimasti tali e che invece, a distanza di anni, sono stati giudicati utili, sono stati ripresi, ampliati, portati alla tensione drammatica di quest’ultima opera?

 

R. Come lei ben sa, il primo romanzo nacque come esercizio di autodisciplina per me narratore. Il secondo per delineare e chiudere la figura del protagonista. Con questi due romanzi intendevo avere concluso la serie. Elvira Sellerio con il successo che ottennero questi due libri mi spinse a continuarne a scrivere. Non ritenevo di avere il fiato così lungo da sostenere una serialità che è difficilissima perché rischi di continuo di ricadere nel già detto, nella monotonia. In realtà è successo uno strano fenomeno: la composizione della diversità della squadra del commissariato è stata una sorta di felice invenzione che mi ha permesso delle variazioni sul tema che non credevo potessero esser possibili. Sono stati come dei corrimano, dei paletti dentro i quali poter far fluire il racconto.

 

D. Del personaggio Montalbano, eroe letterario ma anche star di una fortunata serie televisiva, molto è stato detto e scritto: il suo carattere, la tecnica dell’indagine investigativa, le visioni politiche da comunista arraggiato, il legame col mestiere, l’istituzione, lo Stato. Montalbano, come prima di lui Maigret, “si mette dalla parte del morto”, vuole conoscere e capire la sua vita e non solo perché deve farsi spiegare “le ragioni per le quali è stato ammazzato” ma – possiamo dirlo? – per vicinanza umana. Montalbano è solidale con chi ha perduto, ha subìto un’ingiustizia grave, è stato privato di un diritto fondamentale. Italiano o straniero che sia.

Forse, come gli dice Livia ne La forma dell’acqua, si sente “un dio di quart’ordine, ma sempre dio” o forse, più semplicemente, in questo modo, e nelle forme consentite dalla modernità, continua a difendere quegli ideali di giustizia sociale, di democrazia e di progresso che lo avevano segnato nella giovinezza.

 

R. Montalbano continua a difendere democrazia e progresso. Non credo sia un caso che i migliori funzionari della polizia odierna siano stati anche dei sessantottini.

 

D. Certo che la Sicilia, in coerenza con una storia millenaria, la Vigàta di Montalbano, il porto, sono un eccezionale palcoscenico su cui si recita il dramma del mondo: la disperazione dei migranti, lo sforzo di chi vuole aiutarli, le cupidigie di quanti vogliono trarne profitto, gli intrighi internazionali, gli andamenti della Borsa, gli sviluppi delle situazioni politiche nei paesi del nord Africa, l’America e l’Asia.

Non è un paradosso che tutto questo vastissimo scenario sia visto con gli occhi di un piccolo paese della Sicilia e raccontato con la lingua che si parlava in casa di Andrea Camilleri?

 

R. Si certo è un paradosso; diciamo che è una convenzione che io propongo al lettore e che il lettore accetta ben volentieri. “Racconta il tuo villaggio e avrai raccontato del mondo” (Tolstoj).

 

Forse questa è, allora, la spiegazione del perché, al di là delle questioni linguistiche, i romanzi di Camilleri sono tradotti in tante lingue e raggiungono lettori sparsi in ogni luogo del mondo.

 



Last modified Tuesday, December, 29, 2015