Nel centro di Ariccia, ridente cittadina alle porte di Roma nota
per la porchetta, c'è un palazzo del '600 della famiglia Chigi,
sede di un museo che di tanto in tanto organizza mostre di pittori dell'epoca.
Qualche tempo fa c'è stata un'esposizione di opere raffiguranti
la campagna.
In catalogo, col titolo Le vacanze alla "casina", ho trovato
questo scritto.
Francesco Cordio
http://www.geocities.com/fratiresia/cordio.html
Raul Radice, giornalista, critico, romanziere, ma soprattutto gentiluomo
lombardo, mi raccontò una volta di una sua visita a Carlo Carrà
nel suo studio a Milano. C'era andato a nome del Corriere della Sera per
intervistarlo. Il Maestro, appena Radice arrivò, lo pregò
di pazientare un poco: stava dando le ultime pennellate a una tela messa
su un cavalletto del quale Radice vedeva solo il retro. Per quanto allungasse
il collo, il mio amico non riusciva a capire quale fosse il soggetto del
dipinto. Di tanto in tanto Carrà gli bofonchiava qualche parola,
più frequentemente andava alla finestra col pennello in mano e guardava
fuori, ora brevemente ora a lungo, per poi tornare subito a dipingere.
Finalmente posò il pennello e andò a lavarsi le mani. Radice
schizzò dalla sedia e corse al cavalletto: la tela rappresentava
una splendida marina. La sabbia dorata, il mare di un azzurro intensissimo.
Radice guardò fuori dalla finestra: pioveva, la piazza sotto casa
era un mare di macchine parcheggiate. Forse il riflesso della pioggia sul
cofano di qualche auto blu bastava al Maestro per ricordargli il colore
del mare?
Io personalmente, benché sotto la finestra della mia casa di
città ci siano gli alberi, benché sul terrazzo viva qualche
pianta, non ce la faccio affatto a rievocare la campagna da così
pochi e scompagnati elementi.
Per scrivere queste poche righe dovrei, forse, trasferirmi in una casetta
che ho alle pendici dell'Amiata o sobbarcarmi un lungo viaggio fino in
Sicilia, dalle parti mie. Ma so che sarebbe del tutto inutile. Non si può
parlare della vita in campagna se non facendola.
Non mi ha mai pienamente persuaso una celebre frase di Luigi Pirandello:
"la vita o la si scrive o la si vive" (o viceversa, non ricordo bene).
Penso cioè sia possibile fare le due cose. Se invece avesse detto:
"la vita di campagna o la si scrive o la si vive" sarei stato pienamente
d'accordo. Perché la contrapposizione è netta e assoluta.
Sento già salire il coro: ma che dici? Sei impazzito? E allora "Tytire,
tu patulae recubans sub tegmine fagi"?
E il "De Rerum natura"? E Aminta Pastore? e l'Arcadia con le caprette?
E la vita nei campi? E le novelle rusticane? E Jeli, manco a dirlo, pure
lui pastore?
Calma, mi spiego meglio.
Quando si parla di queste opere, poemi o racconti che siano, bisogna
tenere presente che esse sono rappresentazioni della campagna, ambientazioni
scenografiche, collocazioni opportune ai fini del poema o del racconto
che l'autore si era proposto. Quindi un uso relativo e finalizzato della
vita in campagna. Faccio un esempio. Maupassant, in un suo racconto, così
descrive la campagna di Virelogne:
Esistono luoghi deliziosi, sui quali i nostri occhi si posano con
un'attrazione sensuale. Li amiamo di un amore fisico. Abbiamo, noi che
siamo affascinati dalla terra, teneri ricordi di certe sorgenti, certi
boschi, certi stagni, certe colline, visti di frequente e che ci hanno
commossi come avvenimenti felici. A volte anche il pensiero torna a un
angolo del bosco, o a un tratto di sponda, o a un frutteto cosparso di
fiori, visti una sola volta, in un giorno sereno, e rimasti nel nostro
cuore come quelle immagini di donne incontrate in strada una mattina di
primavera, con un vestito chiaro e trasparente, che ci lasciano nell'animo
e nella carne un desiderio insoddisfatto, indimenticabile, la sensazione
di una felicità che ci è passata accanto.
Il fondale Maupassant lo dipinge benissimo, da par suo. Solo che poche
righe dopo, se ne viene fuori con una dichiarazione convinta:
Le contadine non ridono: è cosa da uomini! Hanno l'anima
triste e limitata perché la loro vita è monotona e priva
di luce.
Ed ecco preparato l'arrivo di Madre Sauvage, una donna dura alta e
magra che fa a cazzotti con la campagna cosparsa di boschetti e attraversata
da ruscelli che scorrevano sul terreno come vene. E così scopri
il trucco: l'autore ha usato quel paesaggio intenerendolo, ingentilendolo
per rendere più dura e cupa la figura della protagonista femminile.
Vi pare onesto? E poi qualcuno che a Virelogne ha avuto un piacevolissimo
incontro con una procace e disponibile contadinotta, oltretutto sorridente,
rimarrebbe oltremodo stupito nel leggere come la pensa Maupassant sulle
donne del luogo.
Ora io sono convinto, estremisticamente lo ammetto, che la vita in
campagna possa essere usata come "mezzo" in una pittura o in uno scritto
letterario, ma che il suo "assoluto" sia indicibile, e di conseguenza in
alcun modo rappresentabile, consistendo proprio nell'esserci, nello starci,
e non nel dire di esserci, nel dire di starci, o peggio ancora nel raccontarci,
per immagini o per parole non importa, di esserci stato.
Capita come per il sogno: di un sogno si riesce a farne racconto, ma
sarà pur sempre un racconto monco e lacunoso, per quanto accurato
e preciso si sforzi di essere perché non riuscirà mai ad
essere il sogno in sé, nel momento del suo prodursi. In questo senso,
i pittori, i poeti, gli scrittori che hanno dipinto, cantato, narrato la
loro vita in campagna non hanno fatto altro che raccontarci il "sogno di
un sogno".
La "casina" ossia la casa di campagna dei nonni, distava dalla casa
che avevamo in paese esattamente un chilometro e seicentoventi metri. Mio
zio ci andava ogni giorno per badare ai lavori agricoli, alle bestie, ai
raccolti stagionali. La famiglia invece si trasferiva al completo dal due
di maggio all'ultimo giorno di settembre. Quando ero picciliddro di tre
o quattro anni, questo percorso me lo facevano fare a dorso d'asino per
speciale concessione, mentre i nonni, mia madre, le zie lo facevano in
carrozza o con gigantesche auto anni Trenta.
Dirò subito che il tragitto più pericoloso era quello
in auto: alla campagna si arrivava da una trazzera tutta fossi e sbalanchi,
spesso l'auto non riusciva ad andare avanti restando pericolosamente inclinata
su un fianco e allora i nonni dovevano proseguire il cammino appoggiandosi
alle spalle di qualche serva o di qualche curatolo prontamente accorsi.
Appena arrivato alla "casina", mio nonno cadeva stremato su una poltrona
e si lamentava: "stavolta abbiamo fatto proprio un brutto viaggio!".
Più tardi capii che non esagerava. Quel chilometro e mezzo costituiva
un autentico viaggio, sia che fosse fatto a piedi, sull'asino, in carrozza
o in auto. Era il viaggio da una dimensione a un'altra, non era la fuga
dal traffico (che allora non c'era), dallo smog (che allora non c'era),
dal ritmo frenetico di vita (che allora non c'era). Era andare verso un
mutamento dell'esistere, verso la possibilità di una concezione
diversa da quella avuta fino al giorno avanti dello spazio e del tempo.
Non erano fattori esterni a sottolineare il mutamento. Certo, non c'era
la luce elettrica e si andava avanti con l'acetilene, il petrolio, le candele
(tre distinte qualità di luce a scandire cerimoniali diversi del
vivere in campagna); certo, non c'era l'acqua corrente (la potabile la
si andava a prendere da una fontana posta tra le ultime case del paese,
si riempivano due barili che una mula portava fino a casa, mentre quella
per gli usi domestici veniva tirata su dal pozzo). Del resto mia nonna
aveva una sua personale filosofia del vivere in campagna. Diceva. "Stari
in campagna si scunta", che tradotto significa che la bellezza del vivere
in campagna va ripagata con qualche sacrificio. Piccolo, s'intende, perché
in realtà la "casina" era una casa grandissima (c'era persino una
cappella privata dove io, di nascosto, mi vestivo coi paramenti sacri e
sognavo d'essere Papa) dotata di tutto quello che era necessario per viverci
comodamente.
Papà tornava la sera dal paese, sempre verso le nove, ma pareva
che fosse notte profonda, persa già nel sonno, non c'era nessuna
illuminazione lungo la trazzera. Mia madre, io e qualche altro della famiglia
ci siedevamo sul terrazzo ad aspettarlo. A un certo momento, a cinquecento
metri di distanza, vedevamo accendersi un fiammifero (c'era uno scuro tanto
fitto da essere oggi inconcepibile). Era papà che ci comunicata
il suo prossimo arrivo a piedi.
Ma era solo per segnalarci che stava arrivando che accendeva quel fiammifero?
Oppure per dirci, e dire a se stesso che aveva varcato l'invisibile confine
tra una dimensione e l'altra?
E qui capisco d'essere arrivato al punto. Ma, insomma, in cosa consisteva,
almeno approssimativamente, questa dimensione diversa? Intanto, in una
misteriosa, ma pronta, brillantezza e nel funzionamento dei cinque sensi.
Pareva che l'aria di campagna non solo li ripulisse, ma li lucidasse. Certe
mattine mi svegliavo presto, scendevo nel giardino, coglievo un limone
dall'albero, ne tagliavo una fetta senza sbucciarla, me la portavo in bocca.
Tatto, vista. odorato, gusto, udito ne godevano contemporaneamente e pienamente.
L’udito? - vi domanderete. Sissignore, perché l'aspro del limone
mi costringeva a mangiare rumorosamente e quel masticare dava maggior godimento
all'insieme. Certe sere, aspettando l'accendersi del fiammifero che segnalava
il prossimo arrivo di papà, ce ne stavamo sul terrazzo, immobili,
in silenzio, l'uno all'altro invisibile. Stavamo a sentire gli odori che
il giro di una brezza leggera ci offriva: ora il salmastro lontano del
mare, ora quello delle stoppie bruciate, ora quello aspro della stalla,
ora la vampata bianca dell'odore del gelsomino, una gran macchia proprio
sotto al terrazzo. E certe mattine di settembre, quando proprio sul filo
dell'orizzonte un'ariata dell'imminente autunno si annunziava con una specie
di sottilissima striscia bianca che più nettamente separava il cielo
dalla terra...
E gli animali? Non dico di quelli nati e cresciuti in campagna, ma degli
altri, quelli costretti a vivere dentro le mura di case per loro sempre
anguste. I miei parenti avevano due cani lupo che si chiamavano Mirtilla
e Caifàs. Erano il mio quotidiano terrore, anche perché dimostravano
di possedere una straordinaria astuzia nello spaventarmi: lo facevano quando
i loro "padroni" (quelli che loro riconoscevano come tali) non erano presenti.
Per esempio, se percorrevo di sera un corridoio buio della casa, eccoli
lì, materializzandosi dal nulla, mettermi in mezzo e sordamente
cominciare a ringhiare.
Io restavo paralizzato, incapace persino di respirare. Ebbene, in campagna
questo scherzetto dell'agguato non me l'hanno mai fatto. E dire che ce
n'erano di corridoi ancora più al buio che nella casa del paese.
Eravamo in perfetta sintonia, io e i due cani, avevamo riconquistato un'armonia
perduta...
No, non ci casco. Sto esattamente facendo quello che all'inizio ho detto
che non era da fare: sono caduto nella più vieta delle rappresentazioni
della vita in campagna. Mi basterà ricordare che ci sono già
stato, che c'ero. E con questa memoria tenuta tutta per me, visitare la
mostra nel Castello di Belgioioso.
Andrea Camilleri
Catalogo edito da Rizzoli De Agostini
pag. 167, Lire 49.000
per la mostra
"I piaceri della vita in campagna"
Ariccia, Palazzo Chigi
sino al 26 novembre 2000.
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