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La salvezza è nel bianco di una vela
Il tema del viaggio in Andrea Camilleri

Viaggiare è utile, fa lavorare la fantasia.
Tutto il resto è soltanto delusione e fatica.
(LOUIS-FERDINAND CELINE, Viaggio al termine della notte)



www.vigata.org è presumibilmente il primo, sicuramente il più completo sito web dedicato a Andrea Camilleri. Prende nome dal luogo, Vigàta, in cui si svolgono, perlopiù, le vicende narrate dal noto scrittore; una città che è facilmente identificabile in Porto Empedocle, ma che grazie al nome inventato si trasforma in una ‘gigantesca variabile’, lasciando ampi spazi e libertà di invenzione che non impediscono comunque la verosimiglianza del racconto. Definita da giornalisti in vena di legittimazioni letterarie la ‘Macondo’, oppure la ‘contea di Yoknapatawpha’ dello scrittore siciliano, la città di Vigàta sembra un contrassegno irrinunciabile, una connotazione prepotente e imprescindibile nell’opera di Camilleri quanto il Quai des Orfèvres nella Parigi dei romanzi di Simenon.[1]

Potrebbe sembrare contradditorio trattare l’argomento del viaggio in un autore che apparentemente si presenta come “un agricoltore sedentario”, secondo la definizione che Walter Benjamin dà dell’atteggiamento del narratore: un uomo che non ha mai abbandonato la propria terra e ne custodisce la memoria, ha accumulato numerose esperienze di vita e generosamente le regala ad un attento uditorio. Infatti, come afferma Tolstoj, basta descrivere il proprio paese per descrivere il mondo. Ma lo stesso Benjamin delinea un’alternativa, quella del “mercante navigatore”, il quale al rientro dai suoi viaggi, così come la gente si aspetta, racconta le meraviglie di mondi sconosciuti. Ebbene, Andrea Camilleri può essere identificato anche in questo tipo di novellatore, anche perché, come lo stesso scrittore rivela ne La linea della palma - una sorta di biografia autorizzata sotto forma di dialogo -, solo un incidente gli impedì di perseguire il progetto adolescenziale di iscriversi all’Accademia Navale di Livorno. A ben vedere, è un navigatore mancato che ha voluto ugualmente raccontare “questa voglia inappagata di mare” attraverso avventure e personaggi frutto della sua fantasia.[2]

Il viaggio assume dunque una valenza decisiva nell’ambito dell’opera di Camilleri. Si può infatti analizzare in questa chiave il personaggio di Cecè Collura, protagonista di una breve serie di racconti [3]. Collura, temporaneamente commissario di bordo su una nave da crociera sulla quale si dipanano vicende di varia umanità, appare strettamente apparentato col commissario Montalbano (che fa, metanarrativamente, anche la guest star in uno degli episodi) [4]. La differenza più congrua fra i due personaggi consiste proprio nell’ambiente nel quale agiscono. Nella nave di Collura si svolgono, paradossalmente all’aria aperta, i classici, claustrofobici casi della ‘camera chiusa’, topos narrativi da Conan Doyle a Ellery Queen a Agata Christie. È un interessante indice di desiderio di sperimentazione il fatto che Camilleri abbia cercato di scrollarsi di dosso la collocazione siciliana per cercare una sorta di ‘terra di nessuno’ asettica, in cui gli accadimenti si snodano on the road e si sviluppano da un porto ad un altro, tra una partenza e un arrivo, all’interno di un percorso che può essere inteso come metafora stessa dell’indagine, dal suo inizio alla sua conclusione.

Ancora più emblematico è un altro marinaio (presunto), capitan Caci, personaggio molto ben riuscito, ma poco conosciuto, eccentrico protagonista di una ‘voce’ de Il gioco della mosca e soprattutto del racconto Quel quaquaraquà di Capitan Caci. Il preteso marinaio è in realtà un innocuo millantatore che approfitta dell’ignoranza dei suoi interlocutori e che in maniera abile aggira critiche e perplessità: non solo con ogni probabilità “il mare l’ha visto in cartolina” [5], ma in effetti è un muratore. Comparso e scomparso da Vigàta nel giro di pochi anni, nelle sue lunghe soste al Caffè Castiglione non manca di essere circondato da avventori ansiosi di ascoltarlo: offre racconti densi di imprese guerresche e amorose, nelle quali vengono esaltati coraggio, eroismo, senso dell’onore. Capitan Caci rappresenta in effetti la possibilità dell’evasione, una folata di novità nella noiosa quotidianità di paese: chiunque, non solo i suoi saccenti interlocutori, sarebbe in grado di mettere in dubbio i suoi rapporti con la sirena Giovanna e il negro Baobab. Ma la verità è che gli astanti vogliono credere alle sue parole, vogliono credere a tutto un mondo vasto, là fuori, che aspetta anche loro, se solo avessero il coraggio di affrontarlo. Capitan Caci è un po’ l’allegoria del patto fra lo scrittore e i lettori, vale a dire che i suoi racconti sono palesemente falsi, ma gli uditori esercitano quella che Coleridge chiama la ‘sospensione dell’incredulità’, cioè fanno finta di crederci perché dare corso all’immaginazione, non solo diverte, nel senso etimologico del termine, ma a volte serve addirittura a sopravvivere: forse davvero “… La salvezza è nel bianco di una vela”. [6]

Come è noto Camilleri, pur essendo profondamente radicato nelle tradizioni siciliane, da oltre cinquant’anni vive a Roma. L’autore racconta dunque di una terra che torna a visitare spesso, ma nella quale non vive più. La Sicilia descritta da Camilleri è quindi una Sicilia inattuale - nel senso nietzschiano del termine -, basata sui ricordi del passato, più che sull’esperienza del presente; è narrata proprio attraverso gli occhi di un viaggiatore che ricorda vividamente, ma che inevitabilmente frammischia il nuovo col vecchio. Con queste parole non si vuole sminuire l’attendibilità dello scrittore, ma chiarirne il punto di vista: lo stesso Camilleri, del resto, ha più volte sottolineato come non riconosca quasi più i luoghi dove ha passato la prima parte della sua vita. Raccontare consiste comunque in un’interpretazione di fatti e situazioni attraverso il filtro delle proprie esperienze ed emozioni: raccontare di luoghi lontani, anche se familiari, conferisce alla narrazione qualcosa di nostalgico e di magico, di vago e di indefinito, pur nella sua concretezza e plausibilità. Proprio la lontananza, anche se volontaria, determina la saudade dell’emigrante e quindi l’esigenza, la necessità di riproporre i luoghi natii, quasi un obbligo morale nei confronti della terra che si è abbandonata.

Non è raro, nei romanzi di Camilleri, che la Sicilia sia un approdo, il punto di arrivo di viaggiatori e che si assista dunque ad una raffigurazione dell’isola vista (e spesso negativamente) anche attraverso gli occhi di personaggi provenienti da altre regioni o altre nazioni. Si pensi, ne Il corso delle cose, al vescovo nativo di Alessandria, monsignor Rufino, il quale (“Questo è un rito pagano!”) [7] inorridisce di fronte alla celebrazione fra il sacro e il profano della festa di san Calogero. Il presule, comportandosi da estraneo piuttosto che da pastore di anime, si guarda bene dal riflettere sul fenomeno sincretico costituito dalla cerimonia in onore di quel Santo nero, amatissimo e temutissimo, ma mira a imporre il ristabilimento della norma. Il suo atteggiamento censorio, che si limita a reprimere senza neanche cercare di comprendere, simboleggia ancora una volta la “piemontesizzazione” perpetrata sull’intero territorio italiano, l’imposizione di un modello costituito che non tenga conto delle specificità, persino nel tragico periodo del secondo dopoguerra nel quale, in Sicilia, al drammatico problema della ricostruzione si sovrapponevano le scorrerie delle bande armate dei separatisti e la confusione creata dagli americani che prospettavano una visione della vita decisamente materialistica.

Anche in Un filo di fumo, ambientato nel 1890, è presente un altro piemontese, questa volta più incline al freddo contegno dello scienziato piuttosto che del giudice: è il torinese ingegner Lemonnier, una sorta di interfaccia fra lo scrittore e il lettore. Gli isolani sono infatti ben lieti di chiarire alcuni aspetti della lingua, della vita e della storia di Vigàta e dell’isola a beneficio dello ‘straniero’, il quale è spettatore, curioso e distaccato, delle diatribe fra filoborbonici, filopiemontesi, filopapisti e simpatizzanti del movimento dei Fasci siciliani. Lemonnier osserva i suoi interlocutori senza schierarsi, con la precisione di un entomologo: ne nota sfumature di comportamento, ne apprezza la eloquente gestualità, realizzando che non è tanto importante ciò che essi dicono, ma come lo dicono. Non si propone, quindi, con la spocchia della superiorità, ma con l’atteggiamento di una mente perspicace e indagatrice dell’animo umano, nell’intento di capire, piuttosto che di valutare, un popolo che sa comunicare anche con gli occhi.

La prospettiva di altri personaggi non siciliani è decisamente differente e tanti di essi appaiono chiaramente prevenuti nei confronti dell’isola. Un valido esempio è costituito dai protagonisti de Il birraio di Preston, che formano una vera e propria Babilonia linguistica pur senza danneggiare l’ammirevole coralità del romanzo, uno dei vertici della narrativa camilleriana. Lombardi, fiorentini, romani, tedeschi persino, oltre che i soliti piemontesi: quasi tutti mostrano disprezzo verso la terra nella quale si trovano temporaneamente a vivere, scarsa considerazione nei confronti dei suoi abitanti (“I vigatesi non’apiscono un ‘azzo di niente, s’immagini se ‘apiscono di musi’a […] Questi siciliani la son gente che puzza, lo sa o no?”), indifferenza riguardo alla loro dignità, degnazione rispetto ai loro dubbi e alle loro aspettative (“Parlà, discutere, capire, è roba de…” “Vecchi?”).[8] Non a caso è Gerd Hoffer, figlio dell’ingegnere tedesco vigile del fuoco ante litteram a fornire di tutta la vicenda un’ulteriore versione che viene posta alla fine del libro, però con la dicitura Capitolo primo. [9] Ciò sta chiaramente a significare che il racconto di Gerd si pone in contrasto e in alternativa con la narrazione che è appena terminata: lo scrivente afferma di basarsi su fonti documentarie autentiche e inoppugnabili, con l’intento di ristabilire finalmente la verità dei fatti e di attribuire le responsabilità ai veri colpevoli. In questo romanzo è particolarmente evidente la teoria della doppia verità che Camilleri porta dolorosamente avanti nella maggior parte dei suoi romanzi: la ricostruzione storica che spesso appare anche sui manuali ad uso scolastico è addomesticata dalle istituzioni e non costituisce lo specchio effettivo degli accadimenti. A riprova di ciò, i protagonisti de Il birraio di Preston vengono raccontati attraverso due voci: la narrazione in terza persona, che si propone come quella autentica, effettuata da qualcuno che conosce perfettamente luoghi e persone, non tace su alcun particolare, nemmeno su quelli scabrosi e procede organizzando la materia in maniera apparentemente disordinata, concentrando l’attenzione sui personaggi piuttosto che sulla cronologia degli avvenimenti. E la narrazione in prima persona, appunto quella di Gerd.

Non è decisivo determinare se quest’altra voce sia in buonafede o in malafede: si tratta comunque del racconto di un elemento esterno a quella civiltà, disinteressato non solo alla verità, ma anche alla realtà siciliana. Nel primo caso, se in altre parole ha oneste convinzioni, Hoffer si rivela ingenuo e credulone, cade nella trappola delle istituzioni di cui si proclama paladino, non comprende e quasi certamente non ama l’ambiente che racconta, manifestando quindi incapacità ad interpretarlo correttamente. Nel secondo caso, vale a dire se Hoffer riporta consapevolmente una realtà manipolata, il narratore è penetrato fin troppo bene e tanto abilmente nella complessità della situazione che non esita ad approfittarne cinicamente, danneggiando senza scrupoli la memoria di alcune persone con la volontà di avvantaggiarne altre e di favorire la prosecuzione dello status quo.

Tuttavia, l’immobilismo della società siciliana ottocentesca pare possa essere messo in crisi solo da un fattore estraneo che scuota lo stato di inerte stagnazione che sembra avvolgerla. Fattore che può essere bramato o temuto (in Un filo di fumo), accettato (ne La stagione della caccia) o espulso (ne La mossa del cavallo). Tutta la tensione narrativa di Un filo di fumo viene condotta nella spasmodica attesa della nave russa Tomorov, il cui arrivo dovrebbe implicare la rovina dell’odiato Barbabianca e confermare in qualche modo l’esistenza della giustizia, divina o umana che sia. Un’intera popolazione osserva l’avvicinarsi del vapore annunciato dal fumo che si intravede in lontananza e quanto più la nave è in vista, in proporzione aumentano le speranze, le ansie di rivincita e di vendetta, nonché i timori e lo scorno della sconfitta, della sfida perduta, da parte delle persone il cui destino è strettamente legato all’approdo di quell’imbarcazione. Speranze che si infrangono senza remissione sulla secca nella quale drammaticamente si incaglia la Tomorov; e timori che, in modo del tutto inaspettato, si risolvono in un trionfo per i tiranni, tanto da far pensare che forse anche Dio si trovi sempre dalla parte dei più forti.

Un’ulteriore conferma che i cambiamenti arrivano dall’esterno è la pagina di apertura de La stagione della caccia, costituita dall’immagine dell’attracco di un altro vapore, il postale da Palermo: ne scende uno sconosciuto passeggero, Alfonso de’ Liguori, ma sotto tale falsa identità si cela Fofò La Matina, che rientra nel luogo natio dopo una lunga forzata assenza. In questo caso l’uomo, dopo essersi fatto riconoscere, viene calorosamente accolto dagli antichi concittadini, ignari di allevare la cosiddetta serpe in seno: Fofò si renderà responsabile dello sterminio di un’intera famiglia, una delle più rappresentative della zona. La comunità, che volentieri, e anche con qualche senso di colpa, aveva riammesso presso di sé qualcuno che a torto ne era stato allontanato, si trova totalmente impreparata di fronte al comportamento dell’omicida, il quale ha avvedutamente sfruttato a suo vantaggio proprio il clima di fiducia che si era creato nei suoi confronti.

Inevitabile il confronto con un altro dei protagonisti più originali della narrativa di Camilleri, l’ispettore Giovanni Bovara che, ne La mossa del cavallo, è oriundo di Vigàta, ma ha vissuto quasi sempre a Genova: quando per motivi di lavoro si trasferisce nuovamente a Vigàta, allora, compie un viaggio che, parallelamente a Fofò, è anche, e soprattutto, un ritorno alle origini. Viceversa, in contrasto a La Matina, Bovara non solo è individuato subito come un corpo estraneo nel suo luogo di provenienza, ma ne viene anche immediatamente e definitivamente estromesso come elemento indesiderato, in quanto non è più identificato dai concittadini come uno di loro. Non a caso i pensieri del personaggio nella prima parte del romanzo sono espressi in stretto dialetto genovese: il lettore deve percepire la ghettizzazione di Bovara, la sua estraneità in un luogo che dovrebbe invece essergli familiare. Camilleri affida alle parole di Luigi Pirandello, attribuite ad un amico di Bovara, il compito di realizzare un’impietosa descrizione della Sicilia, le sue miserie e i suoi intrallazzi, così come appaiono già ne I vecchi e i giovani. La raffigurazione dell’isola questa volta è quindi quella di un siciliano vissuto nel ‘continente’ e qui rigidamente educato alla legalità; egli non è in cerca di rivincite e non ha affatto una visione mitica della patria, ma si avvede lucidamente, in modo disincantato, che essa è una terra di ‘componende’ ormai robustamente assodate. Una terra in cui una pedina lanciata allo sbaraglio non può certo sottrarsi all’eliminazione: allora è d’obbligo la ‘mossa del cavallo’, passare dalla casella di un colore a quella di colore opposto. Per sopravvivere è indispensabile insinuarsi con destrezza, scavalcando le circostanze contingenti; è essenziale ritornare ad essere e a sentirsi siciliano, a comportarsi, a parlare, a pensare perfino come un siciliano. Il viaggio d’affari si trasforma in un mesto, necessario reinserimento, pur se temporaneo, in una realtà ormai del tutto estranea al protagonista.

Eppure Bovara aveva rifiutato i privilegi - la carrozza con il cocchiere, una casa nel centro di Montelusa - e aveva cercato il cuore, l’essenza stessa delle sue origini, il contatto diretto con la terra. Aveva preferito percorrere le strade della sua Sicilia senza guide, senza l’intermediazione dello gnuri e girare a cavallo, anche sotto la pioggia, evitando gli impedimenti, i percorsi obbligati imposti da un calesse. Soprattutto aveva scelto di abitare lontano dall’ufficio del capoluogo, a Vigàta, dove si può sentire il mare, in una casa che si raggiungeva fiancheggiando “una strada di campagna, stretta tra due muri impennacchiati, da macchie di capperi e di saggina, piante di ficodindia, agavi, che finiva sull’orlo di un dirupo sotto il quale si stendeva la rena d’oro e s’allargava il mare turchino”. [10] I luoghi indicano per traslato il pericolo che Bovara, anche se inconsapevolmente, sta per affrontare: il baratro sottolinea la condizione del protagonista, in limine fra due mondi; la casa, di non facile accesso, evidenzia l’autoesclusione del personaggio rispetto alla comunità che lo circonda, isolamento che deriva dalla diffidenza reciproca delle parti in gioco. L’ambientazione, tuttavia, in positivo, è allusiva di quanto di puro e di inviolato, di selvatico e di autentico quella terra tormentata possa ancora offrire.

È impossibile non rilevare alcune simmetrie tra lo sfortunato ispettore ottocentesco e la creatura più conosciuta dell’universo camilleriano, il commissario Montalbano. Tralasciando alcuni ovvi parallelismi - l’incorruttibilità, la rabbia impotente nei confronti delle prevaricazioni, l’amore per la buona cucina e per le belle donne - per affrontare direttamente l’argomento del viaggio, è opportuno ricordare che anche Montalbano, nativo di Catania e vigatese solo di adozione, preferisca vivere fuori del centro abitato, a Marinella, in un villino sulla spiaggia. Sintomo, anche questo, di una volontaria emarginazione, di un sentimento di estraneità all’ambiente circostante. Inoltre, significativamente, il poliziotto privilegia gli spostamenti all’interno della Sicilia seguendo trazzere che sembrano ribellarsi al loro destino di diventare strade asfaltate e ciclicamente assumono il primigenio aspetto sconquassato e polveroso; straduzze a serpentina che destano titubanza persino nelle capre, poco propense a dimostrare le loro doti di equilibrismo: “Quella però era la Sicilia che piaceva al commissario, aspra, di scarso verde, sulla quale pareva (ed era) impossibile campare e dove ancora c’era qualcuno, ma sempre più raro, con gambali, coppola e fucile in spalla, che lo salutava da sopra la mula portandosi due dita alla pampèra” [11] ; Montalbano, ad esempio, per raggiungere la casa di campagna dell’amico giornalista Nicolò Zito preferisce affrontare “mulattiere, polverosi viottoli che gli imbiancavano la macchina”, vuole cogliere l’occasione di “ricrearsi una Sicilia sparita, dura e aspra, una riarsa distesa di giallo paglia interrotta di tanto in tanto dai dadi bianchi delle casuzze dei contadini”: è una terra mallitta, ma è la sua terra. [12] Questi sentieri contorti paiono anche metaforici dei bizantinismi della mente del commissario, ben simboleggiati dalle nodosità tortuose dell’olivo saraceno minuziosamente descritto in alcune belle pagine de La gita a Tindari. [13] Probabilmente a causa dell’irresistibile senso di sfida che ogni caso gli ispira, Montalbano non arretra di fronte a viaggi di tipo temporale (per non parlare delle inchieste svolte all’inizio della carriera che appaiono in alcuni racconti), cioè si incaponisce ad indagare su circostanze ormai quasi del tutto seppellite dal tempo: come ne Il cane di terracotta, in Un diario del ’43, in Meglio lo scuro. Come potrebbe col suo rigoroso senso di giustizia rifiutarsi di “calarsi in quegli abissi? […] Affrontarne i dedali oscuri? Gli inestricabili grovigli? Le sotterranee caverne?” [14], come afferma autoironicamente servendosi dei tanto odiati luoghi comuni.

La morbosità insistita e senza scampo dell’ambientazione impone che per Montalbano esistano dei varchi, dei punti di fuga: la Sicilia diventa allora luogo di partenza. Non a caso l’annosa, eterna fidanzata del commissario non solo non è siciliana, ma neanche vive nell’isola: la sopravvivenza del loro rapporto è legato proprio alla lontananza fra i due, alla scarsa frequenza degli incontri, alla possibilità di scegliere di stare insieme, al desiderio mantenuto sempre vivo (anche se non mancano le sciarratine, soprattutto telefoniche). Talvolta Livia appare quasi un simbolo di purificazione dalle tragedie isolane, un luogo catartico - più che una persona - in cui annidarsi e rinnovarsi, come è evidente, per esempio, fin dall’epilogo del primo romanzo di Montalbano, La forma dell’acqua: egli fugge dall’orrore che prova per rifugiarsi tra le braccia di una donna che non comprende la Sicilia così come non ne comprende il dialetto. Con questi presupposti, raggiungere Genova (anzi, Boccadasse, ancora la periferia marina defilata dalla grande città) per il commissario significa evadere, perdere (almeno temporaneamente) contatto con una realtà fatta di collusioni, sottintesi e ammiccamenti, di componende.

Forse proprio per questo l’ormai celebre detective non si unisce a nessuna delle picciotte siciliane di cui subisce il fascino e che incontra nel corso delle sue indagini. Prima fra tutte l’amica dell’assassinata Michela Licalzi ne La voce del violino, Anna Tropeano, una delle figure femminili più riuscite della vasta galleria dei personaggi di Camilleri. Difatti si avverte dai lunghi dialoghi che tra i due si stabilisce immediatamente un certo feeling, basato sull’esistenza di tante cose in comune, tuttavia si insinua fra loro soprattutto una cosa che li divide: non si tratta solo dell’incrollabile fedeltà dell’integerrimo poliziotto, ma paradossalmente proprio della Sicilia, del fatto di essere entrambi siciliani. La loro relazione sarebbe senz’altro infelice, dal momento che Montalbano non potrebbe in essa realizzare il ruolo salvifico della donna ‘continentale’, completamente estranea da un mondo avviluppante che talvolta gli è necessario abbandonare. Anche l’amore, i sentimenti sarebbero pesantemente condizionati dalla presenza del clima ammorbante che spesso si respira nelle inchieste. La condivisione, la complicità all’interno della coppia che è evidente in alcune pagine del romanzo impedisce proprio la concretizzazione del rapporto che in nessun caso potrebbe essere liberatorio e consolatorio come quello con Livia, fatto di telefonate nel cuore della notte, di aerei presi all’ultimo istante, di incontri decisi d’impeto che hanno sempre il sapore della vacanza e anche un po’ della trasgressione. Per questo, l’unica donna che può in un certo senso competere con Livia è Ingrid, che in verità è molto lontana dal contendere all’impiegata genovese l’amore del commissario, per cui nutre una sincera e disinteressata amicizia. L’amica svedese, disinibita e ingenuamente provocatoria, è l’incarnazione dell’eterno femminino rincorso da generazioni di giovani italiani (soprattutto nel secondo dopoguerra e nel periodo del boom economico), quello della straniera alta, bionda e sessualmente disponibile. Salvo Montalbano ha con Ingrid una liaison che volutamente Camilleri lascia nell’ambiguità, nel probabile intento di umanizzare il personaggio troppo ‘squadrato’ nella sua adamantina lealtà, di rendere più verosimile il suo comportamento assecondandone le debolezze. A ogni modo la donna è palesemente avulsa dal mondo siciliano e la relazione con lei, di qualunque tipo sia, conserva quindi alcune delle caratteristiche che sono appunto individuabili nel legame con Livia. In tal modo Ingrid riveste a volte quasi un ruolo di figura sostituiva e un eventuale amplesso con lei, agli occhi dell’indulgente e comprensivo lettore non assume quindi la valenza di un ‘reale’ tradimento.

Nonostante tutto, Montalbano non lascia volentieri la Sicilia. Si ricorderà facilmente che sfugge ogni possibilità di promozione, atterrito dal conseguente probabile trasferimento. Tuttavia il commissario compie alcune trasferte (soprattutto nell’ambito dei racconti brevi) imposte dalle sue mansioni. In tali situazioni si trova spesso in imbarazzo, come se fuori dal suo habitat si sentisse “straneo, una sorta d’alieno impacciato e frastornato” [15], vittima di un certo disagio, rispecchiato da un comportamento anomalo. In Un cappello pieno di pioggia - che Camilleri si è divertito ad ambientare a Roma, beffardamente proprio nei dintorni della sua abitazione - contribuisce all’arresto di un piccolo spacciatore dopo essersi accapigliato con lui per futili motivi; mentre in Miracoli di Trieste viene vergognosamente borseggiato, tuttavia si risparmia l’umiliazione della denuncia perché il ladro, un vecchio compagno di scuola, lo riconosce e, pentito, gli restituisce il maltolto. Nei momenti più tragici, invece, dimostra la solita abilità e lucidità nel condurre le indagini o nel trarre deduzioni da pochi indizi, come nel caso dello stimato professionista, ma ladro per sfida, che finisce ucciso ne Lo scippatore; oppure riguardo al delitto passionale scoperto durante una notte nel wagon-lit di un treno tra Palermo e Roma, argomento del racconto Il compagno di viaggio. Persino durante le gite e le vacanze con la solita Livia si ritrova coinvolto in frangenti scabrosi, come lo stupro su una spiaggia ai danni di una giovane capoverdina da parte di alcuni ‘civilissimi’ svizzeri (Un angolo di paradiso); o subisce circostanze ambigue: protagonista de La paura di Montalbano è un uomo tentato, anche solo per un momento, di non aiutare la moglie in pericolo di vita perché caduta da una cengia della montagna valdostana.

Segno che sbirri si nasce e che gli eventi criminosi vengono quasi attirati dalla presenza di cotanto investigatore? L’autore, così, aggira accortamente la necessità di diversificare e di sviluppare intrecci anche al di fuori di Vigàta nella quale, altrimenti, si verificherebbe un’attività criminosa degna di una metropoli come Nuovaiorca. Città che il commissario non si sogna di visitare, ma nella quale risolve addirittura un caso di omicidio, pur trovandosi a Palermo (Un caso di omonimia). Montalbano dà un’altra grande prova di acume a distanza in un curioso racconto epistolare: contribuisce difatti alla decifrazione di un’intricata inchiesta a Genova, dando decisivi suggerimenti a un collega ligure attraverso la corrispondenza con la fidanzata (“Salvo amato…” “Livia mia…”).

Inoltre, in altri narrativi di Camilleri i viaggi rappresentano per alcuni personaggi una dolorosa esigenza, come pure la possibilità di cambiare vita o addirittura identità: si pensi ne La scomparsa di Patò al machiavellico ragioniere capace di inscenare teatralmente la sua sparizione allo scopo di mutare radicalmente la propria esistenza. Oppure alle drammatiche vicende di chi ha scelto la vita del barbone, di dimettersi dal consorzio umano per espiare una colpa, finendo poi assassinato come Calorio, ne La sigla, o anche solo smascherato, come il medico di Giorno di febbre. O al viaggio lungo oltre quarant’anni da Trieste alla Sicilia affrontato dalla dolente protagonista de La veggente, che vagabonda nei circhi di infima categoria, ossessionata dal pensiero di vendicare l’assassinio del fratello. Un altro esempio è l’anziano disilluso dalla vita di Being here…che, tornato a Vigàta dopo aver vissuto per mezzo secolo negli Stati Uniti, novello Mattia Pascal, vede il proprio nome nell’elenco dei caduti della seconda guerra mondiale: dapprima vuole riaffermare di essere vivo, ma poi asseconda quello che interpreta come un segno del destino e si suicida. E ancora il caso del vecchio Lillo Rizzitano ne Il cane di terracotta, forse la più coinvolgente delle inchieste di Montalbano. La sua prolungata assenza da Vigàta è diventata vitale per l’uomo, sparito senza premeditazione, nel tentativo di rimuovere un orrendo episodio della propria gioventù.

Infine, è proprio l’indagine su un’insolita gita compiuta a Tindari da una coppia di pantofolai coniugi in età avanzata che fa scoperchiare, nell’omonimo romanzo, all’inorridito e nauseato Montalbano un intrico di disgustose connivenze. Questa volta però il commissario non ha bisogno di scappare via dalla Sicilia perché Livia è già lì con lui, pronta a consentirgli di respirare di nuovo una boccata d’aria incontaminata

BIBLIOGRAFIA Il corso delle cose, Sellerio, Palermo, 1998 (I ed. Lalli, Firenze, 1978)
Un filo di fumo, Sellerio, Palermo, 1997 (I ed. Garzanti, Milano, 1980)
La stagione della caccia, Sellerio, Palermo, 1992
Il birraio di Preston, Sellerio, Palermo, 1995
Il gioco della mosca, Sellerio, Palermo, 1995
Il cane di terracotta, Sellerio, Palermo, 1996
La voce del violino, Sellerio, Palermo, 1997
Un mese con Montalbano, Mondadori, Milano, 1998
Gli arancini di Montalbano, Mondadori, Milano, 1999
La mossa del cavallo, Rizzoli, Milano, 1999
La gita a Tindari, Sellerio, Palermo, 2000
La paura di Montalbano, Mondadori, Milano, 2002
Piace il vino a San Calò, su “L’Almanacco dell’Altana 1998”, Edizioni dell’altana, Roma, 1997
Il mistero del finto cantante, su "La Stampa", 20/07/98
Il fantasma nella cabina, su "La Stampa", 27/07/98
Trappola d’amore in 1ª classe, su "La Stampa", 03/08/98
Bella, giovane, nuda, praticamente assassinata, su "La Stampa", 10/08/98
Un mazzo di donne per il petroliere Bill, su "La Stampa", 17/08/98
I gioielli in fondo al mare, su "La Stampa", 24/08/98
Che fine ha fatto la piccola Irene?, su "La Stampa", 31/08/98
La scomparsa della vedova inconsolabile, su "La Stampa", 07/09/98
Un cappello pieno di pioggia, su "La Repubblica", 15/08/99
Storie di Vigàta e dintorni. Uno strano scambio di persona, su "La Stampa", 23/08/2000
Storie di Vigàta e dintorni. Quel quaquaraquà di Capitan Caci, su "La Stampa", 03/09/2000
Storie di Vigàta e dintorni. Fìmmini e miracoli di Minico Portera, su "La Stampa", 17/09/2000


SIMONA DEMONTIS, I colori della letteratura, Rizzoli, Milano, 2001
SAVERIO LODATO, La linea della palma. Saverio Lodato fa raccontare Andrea Camilleri, Rizzoli, Milano, 2002
LOUIS-FERDINAND CELINE, Viaggio al termine della notte, dall’Oglio, Milano, 1962


[ 1] Sull’importanza di Vigàta nei narrativi di Camilleri, appena accennata in questa sede, cfr. SIMONA DEMONTIS, I colori della letteratura, Rizzoli, Milano, 2001, segnatamente il cap. I, pp. 57-60.
[ 2] SAVERIO LODATO, La linea della palma. Saverio Lodato fa raccontare Andrea Camilleri,, Rizzoli, Milano, 2002, p.80.
[ 3] Gli otto racconti, pubblicati da “La Stampa” fra il 20/7 e il 07/09 del 1998, sono stati recentemente raccolti in un volumetto edito dalla Libreria dell’Orso, Roma, 2002, a cura di Giovanni Capecchi, corredato da un’intervista in cui Camilleri si esprime a proposito del personaggio.
[ 4] ANDREA CAMILLERI, Che fine ha fatto la piccola Irene?, su "La Stampa", 31/08/98.
[ 5] Id., Quel quaquaraquà di Capitan Caci, su "La Stampa", 03/09/2000. Il racconto è il secondo della serie di tre Storie di Vigàta e dintorni, pubblicati su "La Stampa" fra il 23/08 e il 17/09 del 2000. Cfr. id., Il gioco della mosca, Sellerio, Palermo, 1995, pp.109-11.
[ 6] Questo verso, che dà anche il titolo a questo scritto, è di Andrea Camilleri. Si tratta, infatti, dell’ultimo verso dell’ultima di cinque poesie intitolate Porto, musicate da Angelo Musco junior negli anni Quaranta (cfr. SAVERIO LODATO, La linea della palma, cit., p.163)
[ 7] ANDREA CAMILLERI, Il corso delle cose, Sellerio, Palermo, 1998, p. 116 (I ed. Lalli, Firenze, 1978). L’episodio viene ripreso, con lievi modifiche, in id., Piace il vino a San Calò, su “L’Almanacco dell’Altana 1998”, Edizioni dell’altana, Roma, 1997.
[ 8] Id., Il Birraio di Preston, Sellerio, Palermo, 1997, p. 81 e p. 76.
[ 9] Ibidem, pp. 222-32.
[10] Id., La mossa del cavallo, Rizzoli, Milano, 1999, p. 47.
[11] Id., La voce del violino, Sellerio, Palermo, 1997, p.101.
[12] Id., Guardie e ladri in Un mese con Montalbano, Mondadori, Milano, 1998, p. 244.
[13] Id., La gita a Tindari, Sellerio, Palermo, 2000, pp. 97-99.
[14] Id., La paura di Montalbano, ne La paura di Montalbano, Mondadori, Milano, 2002, pp.237-38.
[15] Id., La paura di Montalbano, ne La paura di Montalbano, Mondadori, Milano, 2002, pp.237-38.

SIMONA DEMONTIS - "NAE" (n, 1 - 6.2.2003)
(direttore responsabile Prof. Giuseppe Marci, casa editrice CUEC, Cagliari




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