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La verità è un cane





Autore Nicola Quatrano
Prezzo
Pagine
Data di pubblicazione 2003
Editore Pironti
Collana


«La verità è un cane», si intitola così il romanzo, edito da Pironti e tra pochi giorni in libreria, scritto dal giudice napoletano Nicola Quatrano, ex pubblico ministero che ha condotto le principali inchieste sulla tangentopoli partenopea. Il romanzo è un «noir» ambientato a Napoli che ricostruisce i retroscena dell'omicidio di un assistente di un pubblico ministero, trovato morto nella sua abitazione a pochi passi dal tribunale. La prefazione è stata curata da Andrea Camilleri, che parla di «due propositi realizzati» come «descrivere una sorta di paludosa quotidianità» e «costruire un romanzo dove ogni elemento aggiunto apre una possibilità nuova di pervenire alla soluzione». Il titolo si rifà a una frase del Re Lear di Shakespeare è serve attraverso una metafora ad affermare che la verità è sempre «altrove e fuori dai luoghi canonici». Non mancano nel romanzo riferimenti e frecciate che hanno come bersaglio lo stesso ruolo esercitato da Quatrano nella sua attività di magistrato. «Giudici e poliziotti - scrive nel romanzo - sono pigri, affezionati alla prima frittata che vanga loro offerta e disposti a difenderla con assoluta determinazione». Tanto quegli stessi giudici e poliziotti «servono a difendere i ricchi dalla rabbia dei poveri, sono spaventapasseri messi a protezione delle ineguaglianze». Agli inquirenti, almeno nella «finzione» letteraria» viene addebitata soprattutto di accontentarsi delle verità comode e tranquillizzanti, e di non indagare mai paghi delle «soffiate». Il romanzo viene presentato come qualcosa di diverso da un legal thriller o da un giallo, dove l'indagine sul delitto è quasi in secondo piano e alla fine si rivela fuorviante. Nicola Quatrano, 50 anni, è uno dei più noti magistrati del tribunale partenopeo. Alla fine degli anni Ottanta, come giudice istruttore avviò delicate indagini su camorra e su reati di pubblici amministratori. In qualità di pubblico ministero fu titolare delle principali inchieste sulla tangentopoli napoletana e successivamente, alla Direzione distrettuale antimafia, sulle collusioni tra camorra, imprenditori e politica. Attualmente è giudice per le indagini preliminari.

Prefazione

Il titolo di questo romanzo di Nicola Quatrano, La verità è un cane, potrebbe a prima vista apparire di ricercata originalità se non intervenisse l’autore stesso, a un certo momento della vicenda, a spiegarci che in realtà si tratta di una citazione shakespeariana e precisamente dal Re Lear. La riporto nella versione di Gabriele Baldini: La verità è pur un cane che dovrà trovare la via alla sua cuccia. E mentre madama bracco se ne può star accanto al focolare a impestar la compagnia, il povero cagnetto ha da essere cacciato fuori a frustate! E dico subito che, leggendo il romanzo, alla fine si può affermare che raramente titolo tanto coincise con lo svolgimento dei fatti narrati. Il “cane”, cioè la verità, qui è contenuta in una lettera spedita da Napoli a Nizza e sia il mittente quanto il ricevente non si sono mai conosciuti, l’uno non ha mai sentito parlare dell’altro. E la lettera quindi non avrà nessuna conseguenza (né pretendeva di averla) per la cagna, ossia le false verità, perdonate l’ossimoro, che intanto continueranno a impestar la compagnia. E’ una metafora della giustizia? – potrebbe domandarsi qualche lettore messo sull’avviso dal fatto che l’autore è un magistrato. A rispondere di sì, si rischia di infliggere al romanzo una sorta di diminuzione, troppo è stato scritto sulla discrepanza talvolta anche tragica tra verità processuale e verità, come dire, effettiva. No, la risposta più equilibrata e corrispondente alle intenzioni del romanzo è che esso può essere letto, se lo si vuole, anche come una metafora, ma non solo. In realtà si tratta di un vero e proprio romanzo giallo che si svolge ai giorni nostri ed è ambientato a Napoli, per gran parte nel palazzo di Giustizia: e questo non solo perché chi effettua le indagini è un Pm, il dottor Francesco Cardarelli, ma soprattutto perché una delle due vittime, Sergio Pivetti, è proprio l’assistente dello stesso Cardarelli. Naturalmente, al di là dell’indagine ufficiale, ce n’è un’altra parallela portata avanti da tutti quelli che conoscevano l’assassinato: segretarie, assistenti, ufficiali giudiziari, magistrati, i quali si chiedono chi fosse in realtà questo Pivetti, scapolo, donnaiolo, morto per arsenico. E ciò permette all’autore di mostrarci, in un modo del tutto originale e sapiente, un inatteso spaccato del palazzo di Giustizia, una sorta di rovesciamento dell’immagine oggi costruita da gazzette e televisioni che ci propongono questi palazzi come severi e solenni luoghi sacrali: qui è tutto un chiacchierare, un supporre, un insinuare, come è consuetudine in ogni ufficio. E ci scappa anche il tempo per qualche fugace incontro sessuale. Sembra di stare in mezzo a una delle commedie di Courteline dedicate a quelli delle mezze-maniche. Del resto, nemmeno al suo investigatore, il dottor Cardarelli, l’autore vuole assegnare tratti che non siano tra i più comuni e non fa nulla per rendercelo in qualche maniera simpatico. Certamente il lapidario giudizio che di lui ne dà Carla, sua ex amante e ancora sua segretaria: “è uno stronzo”, è dettato da risentimento femminile dato che il magistrato è prossimo al matrimonio con una collega, ma è pur vero che Cardarelli non brilla per particolari scatti intuitivi. E’ un uomo comune. E a questo punto ti rendi conto dell’inusitato proposito di questo romanzo giallo, proposito realizzato che costituisce il primo punto di merito: quello cioè di descrivere una sorta di paludosa quotidianità, una serie di eventi tragici o ridicoli illuminandoli tutti di una uniforme luce grigia sì, ma non livida. La stessa Napoli non è quella folcloristica e vociante da esportazione: è come una fotografia alquanto scolorita, proprio come deve apparire a chi ci vive. Ho detto paludosa a ragion veduta. Non c’è un personaggio, maggiore o minore, che sia di assoluta trasparenza o di rigido rigore morale: nel migliore dei casi, come capita a Cardarelli, ci sono delle considerevoli cadute di gusto. Sicché diventa agevole all’autore dispiegare in tutta la sua ampiezza il secondo proposito perfettamente riuscito. Costruire un romanzo strutturato per concatenazioni di elementi, dove ogni elemento aggiunto apre una possibilità nuova di pervenire alla soluzione. Invece, percorsa fino in fondo questa possibilità, si scopre che essa è fuorviante, depistante. Direte: ma questo è il procedimento di ogni romanzo giallo che si rispetti. E’ vero, ma l’abilità di Quatrano è quella di trattare ogni nuovo evento come se esso fosse l’unico in grado di fornire le risposte ultime e tu, lettore, a quell’evento credi fino alla delusione finale, non rendendoti conto che l’autore sta giocando con te come il gatto con il topo. Faccio un solo esempio, anche se so che non dovrei (non è leale anticipare al lettore certi sviluppi di un romanzo, soprattutto se giallo, ma La verità è un cane ne fornisce tali e tanti che questa anticipazione non lo depaupera per niente). La storia inizia con l’avvelenamento per cianuro di tale Cuomo, maturo sguattero di un ristorante. Cuomo se la cava, ha ingerito pochissimo veleno. Si è trattato di un errore: lui stesso racconta a Cardarelli di avere raccolto nel gabinetto del ristorante un sigaro caduto e di esserselo fumato a metà. Quel sigaro, evidentemente destinato ad altri, aveva la punta intrisa di cianuro. Quindi Cuomo in quella storia non c’entra per niente. Senonché, appena uscito dal palazzo di Giustizia, viene ammazzato a revolverate. E questo allora che viene a significare? Che Cuomo in quella storia ci stava dentro fino al collo? Che il sigaro era proprio destinato a lui? Che dato che era riuscito a cavarsela una prima volta qualcuno ha pensato di portare a termine l’opera a colpi di revolver? Non vado oltre. Ma questo credo basti a chiarire quanto dicevo a proposito del gioco gatto-topo che Quatrano quasi a ogni pagina, abilissimamente, organizza con i suoi lettori facendoli entrare in una storia a volte labirintica e a questo proposito basterà dire che il capitolo decimo (in tutto sono sedici) è beffardamente intitolato Dove prosegue il racconto, ma ancora non si spiega niente. Infine, c’è da sottolineare la fluidità e la solidità della narrazione che non indugia mai in ricercatezze formali, ma tira dritto al suo scopo. Non posso affermare che questo sia uno di quei libri che si leggono tutto d’un fiato: corposo e spesso, merita di essere gustato con qualche agio, con qualche pausa. Ma è certo però che una volta cominciato è impossibile non finirlo.

Andrea Camilleri

C'è ancora qualcuno tra di voi che si ricorda del clima autentico di "Mani pulite"? No, la mia domanda non vuole essere provocatoria. Il fatto è che da allora è trascorso appena un decennio e pare invece che siano passati secoli. Tant'è vero che oggi i volenterosi rievocatori di parte della faccenda narrano di essa con gli stessi toni che gli storici adoperano per dirci del complotto di Bruto e soci per assassinare Cesare e certe volte, per un eccesso di prospettiva o per omaggio a quella realtà virtuale tanto in voga, quello che capitò nel Senato romano lo fanno capitare nel Palazzo di Giustizia di Milano e viceversa. Ma allora, ai tempi di"Mani pulite", gli italiani ebbero un sia pur limitato soprassalto di decoro, e grande quindi fu l'attenzione che quotidiani, settimanali e televisioni quotidianamente dedicarono all'argomento: firme celebri del giornalismo e della politica inneggiarono, esultarono, si compiacquero, plaudirono all'azione dei giudici. Gran parte di loro, oggi, si taglierebbero le mani. Fu in quel clima che il direttore di una rete televisiva privata, che allora, come si usa dire a Roma, a favore di "mani pulite" ci stava con la fede, ebbe l'idea di allocare stabilmente, all'aperto, davanti al milanese Palazzo di Giustizia, un suo allampanato giornalista il quale aveva il compito d'informare i telespettatori su chi entrava e su chi usciva, se si muoveva qualche tendina di finestra, se una luce s'accendeva o si spegneva in una stanza. Spesso tra il direttore e l'inviato, che rischiava ad ogni momento d'essere travolto da tram, autobus e automobili, si svolgevano dialoghi surreali, di un sublime umorismo involontario. Ma di quello che accadeva dentro il Palazzo il telespettatore non riusciva a saperne niente. La facciata del palazzo stava lì a chiudere in sé i suoi segreti. Impenetrabile. Enigmatica. Lentamente quel palazzo, nell'immaginario collettivo, cominciò ad assurgere al ruolo che, nella tragedia greca, aveva la facciata del palazzo dei re. Tutto avveniva dietro quelle mura, e di quel tutto lo spettatore sapeva solo quello che gli raccontava qualcuno proveniente dall'interno. Tante le domande che allora ti venivano spontanee e avresti desiderato che qualcuno avesse scritto un libretto intitolato "Vita quotidiana dei giudici nel Palazzo di Giustizia". I quali palazzi, come ognun sa, hanno, a considerarli dall'esterno, un'architettura perlomeno inquietante. A Roma, per esempio, chi ha avuto

la ventura o la sventura d'entrare nel cosiddetto Palazzaccio è uno segnato, è uno che, da quel momento in poi, avrà sicura scienza dell'orrore puro e chi invece è entrato nel più moderno palazzo di piazzale Clodio, da quel momento in poi, saprà che cosa significa lo spaesamento, la perdita d'identità. In quest'ultimo a me personalmente capitò, dopo aver percorso, all'interno, una specie di selciato con lampioncini che fingevano un esterno, d'imboccare una rampa di scale, percorrere un corridoio senza porte e trovarmi, alla fine, davanti a un muro bianco. In quell'attimo compresi che Kafka non era, come avevo creduto fino a quel momento, un grandissimo scrittore, ma un semplice cronista giudiziario. Perché ho detto tutto questo? Perché la cosa che più di tutto mi ha colpito a prima lettura nel romanzo di Nicola Quatrano, "La verità è un cane", è che si svolge quasi per intero all'interno di un palazzo di giustizia. E che si svolga lì è, in un certo senso, inevitabile. Perché delle due vittime attorno alle quali ruota la vicenda, certamente la più importante si chiama (si chiamava) Sergio Pivetti ed era l'assistente del Pm dottor Francesco Cardarelli incaricato dell'indagine. E poiché il morto è, come dire, di casa, accanto all'indagine ufficiale ce ne è una ufficiosa, svolta da tutti coloro che in qualche modo hanno avuto dimestichezza con l'assassinato per cianuto: segretarie, assistenti, ufficiali giudiziari, magistrati che s'impegnano nel tentativo di definire la personalità della vittima. Mi cito dalla prefazione:"E ciò permette all'autore di mostrarci, in un modo del tutto originale e sapiente, un inatteso spaccato del palazzo di giustizia, una sorta di rovesciamento dell'immagine oggi costruita da gazzette e televisioni che ci propongono questi palazzi come severi e solenni luoghi sacrali: qui è tutto un chiacchierare, un supporre, un insinuare, come è consuetudine in ogni ufficio. E ci scappa anche il tempo- e il luogo, aggiungo- per qualche fugace incontro sessuale". Insomma, Quatrano fa come quel diavolo, mi pare si chiamasse Asmodeo, che aveva la facoltà di scoperchiare le case e rendere palese quello che vi succedeva dentro: il mitico palazzo si rivela essere assai simile a un qualsiasi ministero. Uno di quei ministeri su cui, da Courteline in poi, si può sorridere e ironizzare. Perché nei ministeri non c'è nulla di sacrale, spesso sono il luogo privilegiato dell'assurdo. Ma il rilievo dato all' ambientazione è soprattutto il segno dell'appartenenza di questo romanzo giallo o noir, chiamatelo come volete, alla linea più moderna del genere.

E adopero la parola genere controvoglia, solo per intenderci. Scrivendo delle sue origini di narratore poliziesco, il grande Raymond Chandler ricordava che un giorno inviò a una rivista specializzata un suo racconto che conteneva questa frase: "Smontò dalla macchina, traversò il marciapiede inondato di sole, finchè l'ombra del tendone sopra l'ingresso gli tagliò il viso come un tocco d'acqua gelida". Ebbene, non ci verso, l'editor inesorabilmete gli cassò la storia dell'acqua gelata, gli spiegarono che quella metafora rallentava l'azione, perché in un poliziesco la descrizione dell'ambiente distruggeva il ritmo. E' stato Hammett- aggiunge Chandler- a cominciare a ribaltare quel diffuso convincimento, le sue altissime qualità di scrittura dimostrarono come l'ambiente fosse il necessario humus di ogni vicenda poliziesca. Insomma, in molti romanzi americani avvenne allora ciò che in parte stava avvenendo nei romanzi di Simenon e cioè il costituirsi della narrazione- per usare le parole di Todorov- "non già attorno a un procedimento di presentazione, ma attorno all'ambiente rappresentato, attorno a personaggi e atteggiamenti particolari; in altre parole, la sua caratteristica costitutiva è tematica". Todorov individua un preciso punto di svolta del romanzo poliziesco, svolta che comporta almeno due conseguenze. La prima è che Chandler potrà finalmente scrivere che al suo personaggio la faccia venne tagliata dall'ombra del tendone come una lama d'acqua ghiacciata senza che nessun solerte editor cancelli più la frase. La seconda è che il delitto e la sua soluzione possono passare in secondo piano perché in primo viene portato l'ambiente e i personaggi che in esso vivono. E su questa via maestra il romanzo poliziesco arriva ai giorni nostri sicchè, tanto per fare un solo esempio, per capire la realtà e complessità della società multietnica di Marsiglia è meglio leggersi qualche romanzo di Jean-Claude Izzo che qualche supponente trattato sull'argomento. Per tornare al romanzo di Quatrano, se il suo palazzo di giustizia risulta essere come un normale ministero, anche i personaggi che vi circolano sono gente comune, qualcuno anzi più comune degli altri. E questo è un altro punto a favore del libro. Lo stesso protagonista, quello che conduce l'indagine, il Pm dottor Francesco Cardarelli, viene lapidariamente definito da Carla, sua ancora segretaria ma ex amante, "uno stronzo". Certo, la definizione può essere stata suggerita a Carla da puro risentimento femminile, dato che il suo superiore ed ex amante è ormai prossimo al matrimonio con una

collega, ma anche ammesso questo bisogna pur riconoscere che il dottor Cardarelli non brilla certo per particolari scatti intuitivi e ha notevoli cadute di gusto. E', diciamola tutta, un uomo senza qualità. Salviamolo un tantino: è un uomo senza particolari qualità. Del resto in tutto il romanzo non c'è un personaggio, maggiore o minore, che sia di assoluta trasparenza o di rigido rigore morale. Ne emerge una sorta di paludosa quotidianeità, una serie di eventi tragici o ridicoli illuminati tutti da una uniforme luce grigia. Il romanzo si svolge a Napoli, ma non è certo scritto sulla falsariga di una folcloristica napoletanità. A questo punto però mi sorge un dubbio. E cioè che io mi stia approfittando di voi per portarvi dalla mia parte, sul campo della mia personale lettura del romanzo di Quatrano. Torno a mettermi in riga. "La verità è un cane" è un abilissimo romanzo giallo, sorprendente per essere il primo dell'autore, che si avvale di una struttura assai ben congegnata, una struttura non lineare ma che si forma per concatenazioni di elementi e dove ogni elemento aggiunto apre apparentemente una strada nuova all'indagine. Voi potrete ribattere che in fondo questa è la struttura di ogni giallo che si rispetti. D'accordo, ma Quatrano ha l'abilità narrativa di far sì che ogni nuovo evento appaia come quello risolutore. Insomma l'autore gioca col lettore a gatto e topo, basti dire che un capitolo, per la precisione l'ottavo, recita "Dove si copre, si scopre e si ricopre" e un altro, il decimo, definisce il suo contenuto " dove prosegue il racconto, ma ancora non si spiega niente". Il tutto in perfetta coerenza con il titolo, "La verità è un cane". Si tratta di una battuta del "Re Lear"" di Shakespeare, la quale dice pressappoco che la verità è come un cagnetto che viene cacciato fuori di casa mentre un altro cane può starsene tranquillamente accucciato accanto al caminetto a impestar la compagnia. E infatti qui la verità è contenuta in una lettera spedita da Napoli a Nizza. Solo che tanto il mittente quanto il ricevente non si sono mai conosciuti né hanno mai sentito parlare l'uno dell'altro. E quindi la lettera non avrà alcuna conseguenza sulla falsa verità che rimane a casa come il cane shakespeariano. A impestar la compagnia. Perché, come dice l'ultima di copertina, si tratta, più che di un giallo, di un'orribile farsa, durante la quale colpevoli e innocenti, accusati e accusatori coopereranno, tutti, perché trionfi la menzogna in nome della verità". E noi, in Italia, il far trionfare la menzogna in nome della verità siamo riusciti a elevarlo a livello d'arte. E anche questo tipo di finale si aggiunge alle altre qualità del

libro. Perché nei gialli classici, quelli storici, tradizionali, l'investigatore riuniva in una stanza tutti i probabili colpevoli e, coram populo, svelava il nome dell'assassino spiegando il modo del delitto e i suoi moventi. Oppure il colpevole, individuato, veniva immancabilmente arrestato. Mmagari dopo una sparatoria. O si suicidava. Oppure ancora l'investigatore, come nel caso di qualche Maigret, individuava il colpevole ma preferiva non farlo colpire dai rigori della legge. Comunque sia, una soluzione al lettore veniva sempre offerta. Poi capitò il caso, nel nostro paese, di un autore che al suo giallo non volle dare una soluzione forse perché tutto consisteva nella strepitosa ambientazione. Mi riferisco a Carlo Emilio Gadda e al suo "Pasticciaccio". Oppure al lettore vennero offerte, di uno stesso caso, diverse plausibilissime soluzioni. Mi riferisco a "Rosaura alle dieci" di Marco Denevi, autore argentino di scuola borgesiana. Oppure, come ne "La promessa" di Durrenmatt, il lettore sa chi è l'assassino e che fine ha fatto, mentre l'investigatore, che su quell'indagine si giocherà l'esistenza, non lo saprà mai. Questa offerta da Quatrano è dunque una notevole, coerente e intelligente soluzione. Al passo coi tempi. Un ultima brevissima notazione e ho finito. Si tratta di un consiglio ai lettori. Quello cioè di leggere questo libro non tutto di un fiato ma gustandoselo pagina appresso pagina. La corposa fluidità della scrittura di Quatrano merita veramente di essere sciolta lentamente per meglio gustarla, come si fa con una caramella.

Grazie.

Andrea Camilleri - domenica 25 maggio 2003,libreria Feltrinelli di via del Babuino (in Roma).






Last modified Wednesday, July, 13, 2011