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I volti di via Margutta

Quando, nel 1949 arrivai a Roma dal mio paese in Sicilia perché avevo vinto il concorso per allievo-regista all’Accademia d’arte drammatica, a farmi in un primo momento da guida alla città che conoscevo in modo superficiale fu un aiuto regista di Orazio Costa, Alfredo, di qualche anno pił grande di me, assiduo frequentatore di quel mondo rumoroso, variopinto e magmatico di pittori, scultori, musicisti e artisti di tutti i tipi che gravitava in piazza del Popolo e pił precisamente tra i tavolini del caffè Luxor. Il Luxor, l’attuale Canova, allora era pił piccolo e non aveva il giardino, si presentava come un locale dall’arredamento un po’ vecchiotto, ma accogliente.
Era il gran luogo d’incontro. Dalle vicinissime via Margutta e via del Babbuino vi convergevano i pittori che avevano in quelle due strade i loro studi-abitazione; Ciccio Trombadori scendeva a piedi da villa Borghese, traversava l’arco di piazzale Flaminio e si dirigeva verso il caffè non tagliando piazza del Popolo, ma costeggiandola (al ritorno invece veniva a prenderlo una botticella, sempre alla stessa ora, per risparmiargli quei pochi metri che la pigrizia gl’impediva di fare), e qui s’incontrava con altri artisti. Il novanta per cento di questi incontri finivano a urlate e insulti della malavita. Ma non scadevano mai nella rissa. Spesso muoveva verso il Luxor anche Vincenzo Cardarelli che abitava dalle parti di via Principessa Clotilde, sempre freddoloso, in piena micidiale estate s’intabarrava con cappotto, sciarpa, cappello e guanti. Una volta, era il 30 di luglio, con un sole da infarto, un camionista che veniva dal Corso (allora anche i camion potevano circolare per le strade del centro) vedendo in mezzo alla piazza Cardarelli in tenuta dolomitica, in un attimo venne preso da un eccesso di follia, fermò il camion, scese in mutande, si gettò lungo disteso davanti al poeta e si mise a piangere battendo i pugni per terra e chiedendogli: «Come fai a resistere, maledetto?»
A noi allievi dell’Accademia, il presidente Silvio D’Amico, ci costringeva, dentro la scuola, a indossare un’apposita tuta col logo dell’Accademia. Era una tuta marrone, molto comoda. Un po’ per pigrizia, un po’ perché spesso lavoravamo nel vicino teatrino di via Vittoria, io questa tuta finivo per tenermela addosso anche fuori. Fu così che un giorno, mentre bevevo un cappuccino al Luxor, mi si avvicinò un frequentatore abituale che mi domandò il perché di quella tuta dallo strano colore. Io gli dissi dell’Accademia, gli spiegai che ero un allievo regista.
Allora lui si presentò: era Mario Mafai. Io, che ero un appassionato delle sue «Demolizioni», per poco non mi sentii male. Non so perché, gli feci molta simpatia. Dopo qualche giorno, era sera inoltrata, mi chiese se volevo fare due passi. Accettai con entusiasmo. E così ho avuto il privilegio, indimenticabile, di alcune passeggiate notturne con lui. Mi fece «vedere» una Roma diversa, o almeno da una diversa angolazione.
Fu Mafai a rivelarmi, casualmente, il doppio volto di via Margutta. Allora, la via appariva pił appartata che oggi, una via dall’aspetto pił francese che italiano, poco animata, molto silenziosa. In un certo senso, una strada ovvia, senza niente di speciale se non il fatto che ospitava molti studi di artisti. Tra l’altro, non era stata ancora inventata l’annuale esposizione delle opere in strada. Sbagliavo a non pormi la domanda sul perché tanti artisti avessero proprio scelto quella strada per andarci a lavorare. E’ un po’ come la storia di quando vedi, passando in macchina, un bel numero di camion fermi davanti a un’osteria di nessuna apparente pretesa: puoi stare sicuro che lì, al di là dell’apparenza, si mangia benissimo. C’è sempre un perché un certo posto viene scelto come luogo ideale da gente come artisti, camionisti, commessi viaggiatori. Quella volta avevo accompagnato Mafai a trovare un suo amico del quale ora non ricordo il nome. Era un’ora prima del tramonto. Entrammo in un portone comunissimo, facemmo non so pił quante rampe di scale, poi la scala si cangiò in una stretta scaletta ammattonata che portava a una specie di soffitta adattata ad appartamento.
Mafai bussò e l’amico venne ad aprire. Venendo dal buio delle scale e del pianerottolo, quando la porta si spalancò, accecai per l’intensità delle luce che m’investì.
Credetti che stessero girando un film e che quella era la luce dei proiettori. Non era così, non si trattava di luce artificiale. Era la luce del sole che, battendo contro la vetrata di una porta finestra che dava su un terrazzino, incendiava la stanza. Mentre Mafai parlava col suo amico, uscii sul terrazzino. Fu una rivelazione, una stupefacente scoperta. Quella parte posteriore della strada s’arrampicava dai palazzi lungo il costone inferiore di villa Borghese fino ad arrivare ai piedi di palazzo Medici, ed era tutta un aereo intreccio di scalette, di terrazze, di terrazzini, di altane, di minuscoli tasselli di verde, di orti, di giardinetti, un vero e proprio paese sospeso nell’aria, un paese che allegramente esponeva panni colorati da asciugare, cavalletti con sopra tele ancora incompiute, tavolini già adorni del fiasco di vino per la sera imminente, uno o due persone che zappavano, bambini che si rincorrevano gridando, signore che facevano la calza sedute su sedie impagliate, signori che leggevano comodamente allungati sulle sdraio. Quando tornammo su via Margutta quel mondo brulicante di vita non solo scomparve, ma la sua stessa esistenza diventò insospettabile, nascosta, e in un certo senso protetta, com’era dalle anonime facciate delle case. Ma qualche anno appresso scoprii che via Margutta aveva aspetti ancora pił segreti e inquietanti. Verso la fine degli anni Sessanta facevo il produttore per conto della Rai. Dovevamo girare la riduzione televisiva di un racconto di Conrad e il regista si era incaponito a volere, come comparse, dei malesi autentici. Non sapendo a chi rivolgermi, pregai un capocomparsa di Cinecittà di darmi un qualche aiuto. «Li vuoi veramente autentici?» - mi domandò. Risposi di sì, chiedendomi nello stesso tempo come si facesse a distinguere un malese doc da uno taroccato. Allora il capocomparsa mi disse che non avevo altra strada all’infuori di quella di rivolgermi a una certa persona il cui nome era Namura. E mi diede il suo numero di telefono.
M’avvertì anche di non chiamarlo «signore», ma «doctor», titolo al quale teneva moltissimo. Telefonai, mi rispose una voce maschile in un italiano stentato: «Qui  doctor Namura che parla». Gli spiegai la situazione, gli dissi che mi occorrevano una quindicina di malesi doc, uomini e donne, vecchi e giovani, da scegliere tra un gruppo naturalmente pił numeroso. «Doctor Namura no problem» - disse - «Bastano quaranta?». Allora gli spiegai che doveva venire in via Teulada con i suoi quaranta malesi. Mi rispose che questo era assolutamente impossibile, dovevamo andare il regista e io a casa sua. Non potevo che accettare, mi diede appuntamento per il giorno dopo, ma alle nove di sera, nel suo appartamento, in via Margutta.
Aggiunse che ci avrebbe aspettato davanti al portone.
Arrivammo e lui era già lì, il regista e io avemmo l’impressione di trovarci davanti a uno di quei giapponesi cattivi dei film di James Bond. Lo seguimmo ansimanti per sei piani senza ascensore, facemmo una scaletta angusta, entrammo in una sala molto grande munita di porta finestra, insomma una replica di quando ero andato con Mafai in via Margutta. Solo che l’abitazione del doctor Namura era quasi al buio, una fioca lampada centrale serviva solo a non farci inciampare su tre o quattro strati di tappeti. Ci sedemmo attorno a un tavolo rotondo e il doctor Namura ci offrì il tè. Poi affrontò la questione della paga e alla cifra che io gli offrii a comparsa fece un misterioso sorriso orientale rilanciando una cifra quattro volte superiore alla mia. La trattativa fu lunga e laboriosa, durò circa due ore anche per le lunghe e pensose pause del doctor. Alla fine, quando fummo d’accordo, il doctor Namura lanciò un fischio lacerante e modulato, da pecoraio. La porta finestra si spalancò e comparvero due malesi seminudi ognuno con un pugnale in bocca che ci guardarono ferocemente. Il regista e io restammo atterriti. Anzi, restai solo io perché il mio amico regista d’un balzo guadagnò la porta e scomparve gił per le scale. «Vanno bene così?» - domandò serafico il dottor Namura. Mi prese per un braccio e mi portò nel terrazzo che era collegato da una scaletta di legno con una specie di prato incolto. Fece un altro fischio e dai cespugli cominciarono ad apparire silenziosi e minacciosi malesi. Quanti erano? Certamente più di quaranta. I giardinetti, gli orti, le terrazze pullulavano di malesi. Possibile che via Margutta nascondeva in sé una succursale di Mompracem? Ma dove li aveva trovati tutti quei malesi il doctor Namura e perché voleva che la scelta fosse fatta praticamente al buio?
Forse perché non tutti erano malesi doc e qualcuno era invece romano o napoletano truccato con un po’ di nerofumo?
Feci rapidamente la mia scelta, salutai il doctor Namura che pretendeva una somma esorbitante per la mediazione, e me ne andai.
Ma via Margutta doveva riservarmi una sorpresa veramente inquietante. Il regista del racconto di Conrad era un mio fraterno amico. Si chiamava Bollini e ci vedevamo praticamente tutti i giorni. Un pomeriggio mi raccontò per sommi capi un soggetto che stava elaborando, il giorno dopo me lo raccontò di nuovo chiarendo a se stesso e a me altri sviluppi e particolari. A un certo punto della sua elaborazione venne fuori un personaggio importante, un pittore morto anni avanti che la storia cominciasse e che aveva abitato in via Margutta. «Come lo chiamo questo personaggio?» - mi domandò. «Chiamalo per ora Tagliaferri» - risposi. Avevo detto quel nome quasi per scherzo, Alberto Tagliaferri, che allora era vivo e vegeto, condivideva lo studio con il mio amico scultore Angelo Canevari. Senonché, quando il soggetto prese corpo e si passò alla sceneggiatura (alla quale Bollini lavorò con la collaborazione di altri), il nome di Tagliaferri rimase.
Nella sceneggiatura venne indicato un preciso numero civico alla casa di via Margutta dove si immaginava che Tagliaferri aveva il suo studio: era il risultato di un primo sopralluogo fatto da Bollini che pensava che l’ingresso di quel palazzo a quel numero aveva tutte le caratteristiche indispensabili per meglio rendere l’idea di un mistero esistente tra quelle mura. Il regista D’Anza fu invece di diverso parere, per girare scelse un altro portone, sempre di via Margutta, ma fece sostituire il vero numero civico con quello indicato nella sceneggiatura. Lo sceneggiato televisivo, che era intitolato «Il segno del comando», andò in onda e conobbe un grosso successo. Venne anche pił volte replicato. Qualche anno dopo, il mio capostruttura alla Rai mi chiamò per dirmi che c’era una signora che voleva parlare di un problema connesso a questo sceneggiato con qualcuno dei responsabili. Di quelli che in qualche modo c’erano stati coinvolti solo io ero presente in direzione, anche se in realtà non avevo partecipato a niente, sapevo solo tutto quello che era avvenuto durante la lavorazione perché Bollini di tanto in tanto me ne informava. Mi trovai di fronte a una signora anziana, molto distinta, civilissima. Mi disse di chiamarsi Tagliaferri e di essere tornata in Italia dopo decenni trascorsi in Argentina. Aveva visto l’ultima replica del «Segno del comando» e aveva una lamentela da fare. Anzi, chiedeva se era possibile cambiare qualche scena per le eventuali repliche. Le spiegai che era impossibile e le domandai il perché di quella richiesta. Mi disse che vedendo sullo schermo televisivo quel portone di via Margutta con quel preciso numero civico aveva provato uno strazio indicibile, perché in un appartamento di quella casa inquadrata dalla macchina da presa, una trentina d’anni prima era vissuto, aveva lavorato e aveva posto fine tragicamente alla propria esistenza il suo unico figlio: il pittore Tagliaferri.

Andrea Camilleri

(Pubblicato su La Repubblica (ed. di Roma), 6 novembre 2005)


 
Last modified Wednesday, July, 13, 2011