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Letteratura e storia. Il caso Camilleri






Palermo celebra la lingua nuova


Un convegno accademico l'8 e il 9 marzo per fare il punto su una vicenda letteraria che ha dell'incredibile. E per studiare l'opera di un autore che ha plasmato un originale linguaggio e creato il genere del novel storic

L'ultimo tragediatore parla la lingua nonna
Promosso da Sellerio a Credem, il convegno siciliano ha rivelato un autore moderno e innovativo.
La sua vera rivoluzione e` stata l'esaltazione del linguaggio e la sua natura mimetica: non solo la trama, ma anche l'idioma dev'essere realistico

Nella dotazione di Camilleri acquista sempre maggiore peso la pedulliana «arma del comico», connotativa della vocazione più schiettamente ultimonovecentesca. In Camilleri l'ésprit comico rigenera il pirandelliano «sentimento del contrario» in un risentimento del conformismo dentro il quale l'umorismo – nella sua scala di valori puntata fino al sardonismo, passando per la satira e il dileggio – viene brandito come strumento di censura e di cesura: al potere costituito nell'un caso, al proprio coinvolgimento nell'altro. Il convegno dell'8 e 9 marzo a Palermo (voluto da Sellerio, Credem e università) ha fissato una linea di orizzonte sulla quale ingradare Camilleri. E se un pannello è stato piantato, necessario alla veduta d'insieme della sua opera, questo è giustappunto l'elemento comico, che è principio normativo della commedia, nella cui chiave di matrice teocritea la rappresentazione della realtà sottende la sua irrisione e involge quindi la sua sconfessione. Così, mentre Nino Borsellino ha potuto osservare che nei romanzi storici di Camilleri «agisce il teatro comico», l'italianista spagnola Blanca Muniz ha precisato che il potere teme storicamente proprio la commedia e le sue impertinenze versicolari: perché, possiamo specificare noi, non c'è bachtinamente mezzo di critica che sia più apotropaico dell'allegoria, ancor più quando è tramata di echi carnascialeschi. In un quadro dove il comico, come è stato osservato, è «il dispositivo del rivoluzionario», Natale Tedesco ha dunque precisato che «Camilleri non è scrittore esotico né penitenziale, ma scrittore che carnevalizza la letteratura sapendo di dare fastidio a chi vuole una letteratura quaresimale». Nunzio La Fauci ha ritenuto di individuare in questa voce quella del «tragediatore», il modello più aggiornato del mimo greco. Il quale, con la satira aristofanesca, menippea e plautina, mette capo a una intemerata capacità politica, carica com'è della forza di intridere la realtà con i colori del linguaggio preso dalla parlata comune. A disturbare il manovratore non è quanto viene detto ma il come. Questa espressività matura nel tempo fino a quando, in età barocca, la stagione che segna il primato della lingua sulla parola, ovvero della forma sul contenuto, il concettismo decreta l'affermazione dell'ingegno a detrimento dell'intelletto, l'arguzia sulla grevità, la retorica sulla grammatica. E Silvano Nigro ha colpito nel segno individuando in Camilleri una malcelata e malvista anima barocca: «A furia di calarsi in tale dimensione Camilleri ha risolto preterintenzionalmente la morte di Zosimo, involato con un aquilone, nei modi indicati dalle metafore di Tesauro nel suo Cannocchiale aristotelico, giocato sui casi di morte dei sovrani, che risultano simili alla trovata reinventata da Camilleri». La fantasia barocca pastorizza dunque inconsapevolmente un Camilleri letterato «arguto» nella cui coscienza si depositano non solo i grumi della tradizione classica ma anche i succhi del retaggio manzoniano, che a Palermo sono stati secreti uno per uno da Ermanno Paccagnini, riuscito a rintracciare le tante connessioni che da Camilleri, con la mediazione di Sciascia, rimandano a Manzoni in un procedimento di acquisizione delle comuni sollecitazioni: l'ironia e l'indignazione – al punto che Sergio Valzania ha sorpreso nel Re di Girgenti il senso di una «critica letteraria», cioè una riscrittura, dei Promessi sposi. «Camilleri – ha detto Paccagnini – ha praticato nel Re di Girgenti un pastiche giocando con tante carte: annalistica, novellistica decameronesca, Legenda aurea, oralità popolare». Sul lato della pronuncia linguistica, il complesso dei conferimenti presenti soprattutto nel Re di Girgenti, il mastodonte dell'opus camilleriano, ha suggerito alla canadese Jana Vizmuller-Zocco il nome di «singlossia», l'opposto della disglossia, che pure, per la diversificazione dei piani linguistici, presiede l'estetica di Camilleri.
E' a questa altezza del dibattito che è caduto in taglio il tema del dialetto, snodo strategico della vicenda camilleriana. Ancora la Vizmuller-Zocco ha notato che due lingue diverse se non possono convivere nella società, dove una prevale sull'altra, possono invece farlo in un individuo. E in questo senso, in Camilleri l'italiano non è da addensare in posizione antitetica al dialetto ma da organizzare in un sistema di sincronie che tiene connotazioni eterogenee nelle quali un entusiasta Angelo Guglielmi ha potuto cogliere la natura di una convenzione, attribuendo a Camilleri una doppia consapevolezza: «Sa che gli urge una lingua e mette in campo un'ipotesi di scrittura saldamente scorretta e opportunamente indebitata col dialetto; e sa inoltre che il romanzo è la lingua in cui è scritto: il plot è solo il traliccio su cui la lingua si distende». Guglielmi riconduce questo approccio alla pratica teatrale esercitata dallo scrittore, provvidenziale per «trattare le parole come attori, mettendole in piedi e lasciandole parlare».
Se dunque è la lingua il fatto nuovo dell'esperienza camilleriana, essa è però declinata più sul terreno dell'italiano che del dialetto, ciò che designa il rilievo ortonimo nel paesaggio sperimentalista di autori tutti licenziati dalla scuola del Gruppo 63: in Camilleri è il dialetto al traino dell'italiano secondo un procedimento che riflette l'idiomazia siciliana. La quale è infatti sempre tentata dall'italiano: paradossalmente il parlante siciliano, nella lingua d'uso, quando vuole farsi sentire o capire ancor meglio, si esprime in italiano; o almeno si sforza di farlo. Cosa ha dunque fatto Camilleri? Ha reso il linguaggio più mimetico e realistico della narrazione, da un canto privilegiandolo e da un altro individuando l'esatto spirito idiolettico siciliano sul quale ha intonato la propria corda narrativa, che se è apparsa ex choro è stato in virtù appunto di questa sua spinta innovativa. Tale acquisizione permette di spiegare perché oltre ai personaggi anche il narratore e l'autore implicito si esprimono ad orecchio, quello che, perché autentico, restituisce l'ambiente accendendolo di punte icastiche.
La scelta di termini dialettali quando nulla giustifica l'omissione del corrispettivo italiano (per esempio «trasiri» per entrare) si legittima alla luce di una rivoluzionaria accezione narratologica: l'italiano sicilianizzato anziché il siciliano italianizzato, distinzione deducibile dal premio di una pronuncia sull'altra. Nel primo caso il siciliano, contastorie istruito, si rifugia nel dialetto quando perde la proprietà dell'italiano o trova questo meno efficace; nel secondo il siciliano, contastorie ignorante, si rinserra comunque nell'italiano, pure al prezzo di anacoluti e allitterazioni. Camilleri concepisce una fusione dell'uno nell'altro calco, ma dando conto che solo i suoi personaggi entrano in qualche modo, non sempre e non tutti, nel gorgo del siciliano italianizzato mentre il narratore e l'autore implicito sottostanno alla prima guazza, quella che rende l'italiano la lingua di partenza, la lingua che è prima pensata, poi parlata e, solo quando inciampa, tradotta. Camilleri l'ha detto più volte: «Sono uno scrittore italiano nato in Sicilia». Uno scrittore che allo sguardo ha preferito l'udito, l'usta alla vista, e che si è creato un catalogo di funzioni sensoriali ordinandole secondo una gerarchia di percezioni rovesciate, in capo alla quale troneggia la parola; di più: ha fatto della sinestesia la figura cardinale, prevalente anche sulla tradizionale metafora, che è pressoché assente nel suo dettato.
Se le cose stanno così, ha fatto bene La Fauci a scomodare Contini per parlare di «plurilinguismo» in riferimento a una «molteplice unità» che distingue l'opera di Camilleri, dove l'italiano – si badi: l'italiano e non il dialetto – fa non già da lingua madre quanto addirittura da «lingua nonna». «Il vero protagonista dei libri di Camilleri – ha detto La Fauci – è lui stesso e il successo che ha raggiunto è giustificato da meriti formali, ciò che era la grande ambizione degli avanguardisti»: esaltare il romanzo non per la fabula ma per la lingua. Camilleri c'è riuscito scommettendo su un'intuizione: scrivere come si pensa consente un più compiuto e spiccato effetto di realtà, il barthesiano effet de réel, qui perseguito a titolo pieno, stilistico e narratologico. Angelo Morino, il consulente per lo spagnolo del Re di Girgenti, ha parlato di «ossessione» di Camilleri, perché deciso a tenersi nel glutine della verosimiglianza portando a braccetto storia e letteratura – tanto che Gioacchino Lanza si è divertito a rintracciare i punti di identità tra personaggi del Re di Girgenti e figure storiche. Quando questa corrispondenza viene stabilita, il risultato è di abitare le sfere dell'epica, sicché Blanca Muniz ha parlato di «disposizione ritmica di tipo epico», strada sulla quale ci raggiungono in fretta gli argomenti della lingua e dell'elicitazione politica. Blanca Muniz ha perciò gemellato il Carvalho di Montalbán e il Montalbano di Camilleri, fratelli d'inchiostro in ciò, che «entrano in sintonia con percezioni inconfessate volendo sfuggire al groviglio dell'esperienza quotidiana e cercare una lingua che li salvi», in linea con la lezione del Gadamer secondo il quale «ogni incontro con le cose è di natura linguistica».
Allora, tra epica e storia è la prima cui indulge Camilleri, perché sa, come ha sottolineato Valzania, che «la storia non dice la verità, ma una verità», dimodoché essa assume il carattere della versione diventando per questa via letteratura. Due storici avveduti come Francesco Renda e Salvatore Lupo non hanno avuto difficoltà a concedere che la letteratura ha spiegato la storia meglio degli storici e che è stata la letteratura a sollevare la questione meridionale e fare conoscere il Risorgimento. Paradossalmente il maggiore riconoscimento a Camilleri (storico con gli scarponi chiodati, la mano mai ferma e gli occhi sulla storia fatta dai libri più che sui libri di storia; narratore che, come ha detto Guglielmi, «prende il mondo per il collo e lo costringe a confessarsi») è venuto a Palermo proprio dagli storici siciliani più rigorosi del momento. Ai quali è risultato evidente che il Camilleri più riconoscibile non è il serial auctor di Montalbano ma il gerofante del novel storic, il genere nel quale l'invenzione incrocia la storia e di cui lo scrittore siciliano ci appare l'ultimo fuochista.

di Gianni Bonina - Stilos, supplemento letterario de La Sicilia, 19.3.2002

Intervista. Quando scrivo il lettore non c'e`

Camilleri, come si trova nelle vesti del caso dopo essere stato per anni in quelle dell'emergente prima e successivamente del fenomeno?
«Meglio essere un caso che un fenomeno, termine che da noi ha un senso fuorviante: quella persona è un fenomeno, si dice di chi è un po' sbalestrato. Per le verità non mi riconosco in nessuna categoria perché più che nelle etichette mi trovo bene nei contenuti.»
Nel convegno di Palermo ha mostrato visibile imbarazzo, lo stesso che tradiva Sciascia quando veniva pubblicamente celebrato: un atteggiamento di ritrosia, di ritegno, il pudore del successo.
«Non è vero che il successo non conti. Conta enormemente. Ma è la dimensione del successo che crea disagio. Un successo commisurato a quanto una persona fa andrebbe benissimo: quando Elvira [Sellerio, ndr] mi telefonava dicendomi "Sai Andrea, siamo riusciti a vendere quindicimila copie", io toccavo il cielo con un dito. E' il successo smisurato che imbarazza.»
E lei è imbarazzato?
 «Molto. E anche infastidito.»
Beh, perché si difende dal pubblico.
«Io preferirei che invece di venire a chiedermi l'autografo la gente pensasse a quello che sta leggendo.»
E' stato scritto da una sua esegeta che la sua scrittura è progressivamente cambiata con il successo.
«E' un'opinione di chi l'ha espressa e che è falsa. Una scrittura si modifica nel corso degli anni. Pensi a Manzoni: scrive Fermo e Lucia, poi scrive due edizioni successive dei Promessi sposi modificando anche la scrittura. E' forse il successo ad abbagliarlo? Sono considerazioni di basso conio. La scrittura si modifica perché si scrive. Il fenomeno, ti dicono i quantisti, non è osservabile perché si modifica all'atto stesso dell'osservazione. Figuriamoci allora come cambia la scrittura all'atto dello scrivere.»
Allora può essere fondata la teoria secondo cui lei ha messo alla prova il suo lettore modello educandolo alla sua scrittura? Più lui comprendeva più lei modificava la sua scrittura.
«Senta, voglio dire una cosa definitiva e voglio dirla a Stilos, perché è fondamentale dirlo a un giornale serio: non ho mai presente il lettore quando scrivo. Nella strategia della scrittura io stabilisco un confronto solo con me stesso e il lettore è un terzo escluso.»
E' dunque contrario alla lezione dei tragici greci che scrivevano per il pubblico.
«Fermo. I tragici greci scrivevano per il teatro; scrivevano per una comunicazione diretta. Non scrivevano romanzi, ma tragedie, che veniva interpretate da attori attraverso i quali trasmettevano il loro messaggio, Il mio messaggio è invece trasmesso attraverso la pagina scritta, che è un'altra cosa.»
Nell'ultimo libro, Le parole raccontate, lei ha detto che ha lasciato il teatro per raggiunti limiti d'eta, richiedendo il teatro energia fisica. Adesso dice che la letteratura le permette di confrontarsi solo con se stesso, perché non deve rispondere a nessuno. E' dunque stata una scelta?
«Diciamo che la letteratura mi consente di non avere mediazioni in teatro. Una tua idea deve superare il vaglio di più figure: il regista, lo scenografo, il datore di luci, il costumista, gli attori. Devi quindi cercare di conservare questa tua idea nella scrittura.»
Nella sua opera ci sono anche depositi plautini? Il modello è omologo: una tresca che crea un guazzabuglio, una serie di peripezie e infine uno scioglimento che a volte è palinodico e a volte anche moralistico.
«Probabilmente. Io ho fatto Plauto in teatro. E quando fai una cosa in teatro, dai vita e respiro a un personaggio, qualcos'altro per forza ti rimane dentro. La scrittura è un processo di automodificazione complessa, che deduce benefici anche dalla recitazione».

di Nicola Adragna - Stilos, supplemento letterario de La Sicilia, 19.3.2002

Il discorso. Mi sono sottoposto allo studio di me stesso e cosi` mi sono ritrovato
Pubblichiamo un'ampia sintesi dell'intervento conclusivo di Camilleri al convegno di Palermo dell'8 e 9 marzo

Non ho nulla di scritto, il che rappresenta un rischio enorme per gli ascoltatori, perché l'età mi porta a divagazioni a coda di porco spaventose dalle quali mi è difficilissimo uscire una volta che ci sono entrato dentro. Mi scuserete. Queste due giornate di studio hanno avuto un tema sbagliatissimo, perché dovevano essere non «su» ma «di» Camilleri: mi sono dovuto infatti sottoporre allo studio di me stesso attraverso le parole degli altri, la qualcosa è una fatica del diavolo, perché oltretutto non ho avuto neppure la soddisfazione di dire «questo lo sapevo già», essendoci stata sempre qualcosina di nuovo in ogni relazione. Più che un caso, il mio è un fungo: «il fungo Camilleri» potrebbe essere un altro bel titolo per un convegno, giacché sono venuto fuori negli ultimi tre anni all'improvviso. Ma, amici miei, è dal '48 che stampo e pubblico. Nel '48 un signore che si chiama Giuseppe Ungaretti decide di pigliare tre poesie mie e di pubblicarle in un'antologia della prestigiosissima collana «Lo Specchio» di Mondadori. Mando racconti a «L'Ora» di Palermo e me li vedo pubblicati senza che mi conoscano neppure, oppure me li pubblica «L'Italia socialista» di Aldo Garosci di Roma in terza pagina. Io mando messaggi in bottiglia da Porto Empedocle, provincia di Agrigento, e questi messaggi da qualche parte arrivano. E prima ancora del '48 c'è il Premio Libera Stampa di Lugano con una giuria che ha Gianfranco Contini, Carlo Bo, Giansiro Ferrata. E' il '47: 370 giovani autori mandano da tutt'Italia le loro produzioni e ne vengono scelti dodici. Ci sono anch'io. Mai vista una giuria così profetica: premia tutti i nomi della letteratura a venire. Non sbaglia un colpo: Pier Paolo Pasolini, che ha un anno più di me, Andrea Zanzotto, uno che diventerà prete, Davide Maria Turoldo. L'unico «traditore» sono io che arrivo quarant'anni dopo, ma tutti gli altri si sistemano subito dopo. Il mio è stato perciò un lungo cammino, che solo formalmente è stato interrotto dal teatro. Formalmente, perché il teatro è stato per me una grandissima scuola di scrittura. E' stato detto in questo convegno che spesso e volentieri i personaggi li faccio parlare prima ancora di descriverli. E in realtà io dico questo al mio personaggio: «Vieni avanti, parla: ti fabbrico secondo come mi hai parlato, secondo le cadenze e il tono, le inflessioni e la voce». Dopodiché, se ne ho voglia, gli do un aspetto fisico, ma in genere preferisco lasciare libero il lettore di farsi da sé un'immagine. Io gli metto a disposizione i dati.
Dicevo della scuola di scrittura che è stato il teatro: ricordo che gli allievi dell'Accademia dove insegnavo regia mi dicevano sempre: «Ma quante volte ce l'ha raccontate queste storie, professore!». Perché, io le storie che ho scritto le ho sempre raccontate, me le lavoravo di classe in classe. Ho tenuto saldo un filo che non si è mai rotto e che è arrivato a queste due giornate, che sono state fondamentali per me, benché siano arrivate tardi, come tutto nella mia vita – senza nessun rimpianto. Giornate importanti perché, vedete, un uomo che va avanti negli anni diventa sempre più solitario: gli amici vengono richiamati ad altro servizio e va a finire che quelle tre, quattro persone, Dante Troisi, Ruggero Jacobbi, Niccolò Gallo, alle quali con piena fiducia potevo rivolgermi e chiedere «che ne pensi di 'sta cosa?» – trovandole magari teneramente feroci nei miei riguardi – non ce l'ho più. Posso avere solo la lucida distanza che mia moglie riesce a cogliere quando scrivo e di cui non finirò mai di esserle grato. Ma da quando ho cominciato a pubblicare mi pare di sprofondare sempre più in un abisso senza fondo: tendo l'orecchio per sentire il tonfo e non lo sento. Ecco che allora arrivano queste due giornate e il tonfo finalmente lo sento. Lanza Tomasi ha detto una cosa bellissima: che è difficile parlare con l'autore seduto in prima fila che ti sta a guardare. E' come parlare davanti alla salma. Oggi, dopo un esame autoptico di tale intensità, orrore, la salma parla. E vorrebbe dire alcune cose.
Ho già rilevato che non c'è stata una sola relazione inutile. Dove e quando io potrò utilizzare le cose utili che ne ho ricavato non lo so. L'essenziale è che ci siano state. E la prima questione di cui vorrei parlare è il debito grosso con Manzoni. Dopo che una scuola voleva adottare il mio Birraio di Preston in sostituzione dei Promessi sposi, gli ho scritto una lettera su La Stampa per dirgli che me ne sono innamorato a 32 anni leggendolo per i fatti miei tre o quattro volte. E' quindi naturale che io faccia delle citazioni non accorgendomene e chiami un personaggio col nome di Minzoni. C'è stato il traduttore tedesco che ha detto di essersi servito del Simplicissimus per tradurmi. Io il Simplicissimus l'ho letto a dodici anni! Era un libro pubblicato da Salani e stava nella biblioteca di mio padre. E lo stesso Le feu di Barbusse, che è stato citato dalla traduttrice francese come libro di paragone, è stato per me un altro romanzo formativo. In questi due giorni ho dunque scoperto che i miei fili si riannodano oggi.
Un'altra questione da discutere è l'uso del dialetto. Nel teatro ho sempre tenuto presente Shakespeare che dice: «Il mio uomo è attore e tutto il mondo è teatro». E' una frase da me messa in scena interamente nella creazione della mia scrittura. E' stato bene osservato che il punto di partenza per me è la parlata piccolo-borghese: e in realtà quando torno a Porto Empedocle è in questo modo che parlo con i miei amici superstiti, un misto di siciliano e italiano che appartiene al parlato contadino. Da bambino sono stato un attento ascoltatore di Minicu, un narratore di cose straordinarie, che è molto presente dietro il mio Re di Girgenti, un vero contadino che insegnava la virtù della pelle del serpente per «stagnare u sangu» contro i tagli della falce o come cercare una certa erba medicamentosa.
Ai miei allievi chiedevo sempre quale fosse la bibliografia della loro regia, cioè che letture avessero fatto, che spettacoli avessero visto. Perché quando metti in scena la riduzione pirandelliana in dialetto del Ciclopu di Euripide devi fare i conti con molteplici piani linguistici, fra cui la versione catanese del testo, perché destinato agli attori della compagnia di Musco. Il ciclope è un contadino e Pirandello lo fa esprimere in stretto vernacolo. Poi arriva Ulisse, che ha fatto il militare a Cuneo e vuole parlare in italiano e dice: «Per favuri, vulissivu 'nsignaricci quarchi deflussu d'acqua pi smorzarinni la siti chi nn'avvampa» Nel Birraio di Preston la signora che ha avuto il marito marinaio e si esprime con le stesse parole mi viene tutta da Pirandello. Da lui ho imparato a lavorare su più piani linguistici. Un'altra cosa. Nel Re di Girgenti non è stata la singolarità del fatto ad attrarmi, perché sapevo che non era singolare. E' stata nella civiltà degli irochesi che ho trovato le tre righe che riguardano Zosimo. E' così. Gli irochesi, ovvero i contadini siciliani, l'occupazione delle terre nel dopoguerra, la loro generosa storia. E ho scritto il romanzo perché mi permetteva di scrivere di un sogno che mi auguro che continui.
Un'ultima cosa che voglio dire riguarda l'impegno politico nella mia scrittura. Ho ricevuto la lettera di uno che diceva di avere raccolto voci negative e di aver letto tutti i miei libri: «Non riesco a capire perché lei venga indicato come un uomo di sinistra» mi ha scritto. Ma come aveva letto i miei libri? Cosa aveva letto?

Stilos, supplemento letterario de La Sicilia, 19.3.2002

Camilleri in Francia
Contro il centralismo viva la parlata di Lione


L'argot ripescato come sfida al monolinguismo parigino. Come per "La stagione della caccia" e "Un filo di fumo", anche per "Il re di Girgenti" si annuncia una traduzione che tra scavare e inventare preferisce la fedelta` idiomatica: quella della provincia lionese

Camilleri in francese: un work in progress
Parte del recente convegno di Palermo sul caso Camilleri è stata dedicata ai problemi della sua traduzione in francese, inglese, spagnolo (castillano e catalano) e tedesco, presenti quattro traduttori: Stephen Sartarelli per l'inglese, Moshe Kahn per il tedesco, Serge Quadruppani e la sottoscritta per il francese, con rispettivi interventi ai quali purtroppo non fu fatto seguire un dialogo tra traduttori e con il pubblico. Ovviamente emerse una cosa: l'italiano di Camilleri costringe le lingue che lo vogliono tradurre a creare opportuni e inconsueti spazi all'interno di sé. Tutto il problema sta nel come farlo, su quali criteri, in funzione di quale stato della lingua di arrivo, con quali obbligate eppur torturanti preferenze. E con un continuo dilemma: bisogna costringersi a restare all'interno delle proprie risorse linguistiche riscoprendole all'occasione, oppure ci si può concedere margini di deformazione e invenzione (fonetica e/o morfologica), fermo restando che Camilleri rarissimamente, se non mai, inventa parole di sana pianta ma sfrutta con gusto un suo patrimonio dialettale, letterario e biografico? Premetto che nel campo della traduzione, non solo ogni autore sta a sé ma pure ogni libro, e la strategia va ripensata di volta in volta anche perché la ricezione di un'opera si iscrive nella durata. Tanto per intenderci, il lettore italofono de Il re di Girgenti non è lo stesso del suo antenato che nel 1978 lesse il molto più timido, dal punto di vita della sperimentazione linguistica, Corso delle cose redatto sin dal 1968 e pubblicato senza clamore dieci anni dopo. E di ciò hanno preso atto l'autore stesso e la sua editrice nella ristampa selleriana de Un filo di fumo quando ripropongono con «sottile divertimento» il glossario dell'edizione garzantiana del 1980, ormai «diventato superfluo». Anche le traduzioni si costruiscono sul sostrato di quelle precedenti come dimostrano le ritraduzioni periodiche dei grandi libri della letteratura mondiale. Perciò queste mie riflessioni sono da considerare iscritte in una dinamica in atto, che dialoga sia con le scelte degli altri traduttori (si consideri che la ricezione dell'opera di Camilleri in Francia è affidata a niente meno che cinque case editrici e quattro traduttori diversi) sia con la mia propria pratica.
Il mio proposito qui è di chiarire perché, riguardo al dilemma scavare/inventare, ho dato la preferenza, nella traduzione de La stagione della caccia e di Un filo di fumo, alla prima soluzione. Non senza rammarico, ho scrupolosamente tenuto a bada le tentazioni della libera inventività la quale porta pur con sé il rischio di sfociare in un angusto e narcisistico idioletto. Nel caso specifico del francese poi, questo rischio è moltiplicato da una limitatissima elasticità, di gran lunga minore rispetto a quella, non diciamo nemmeno della lingua di Camilleri, ma dell'italiano tout court. Fondamentalmente questa poca duttilità linguistica ha due ragioni :  lo scrupolo accademico e il centralismo linguistico, entrambi potentemente sorretti dagli ideali di matrice illuministica di chiarezza, universalità e uguaglianza.
Lo scrupolo accademico consiste in una fortissima esigenza di rispetto della norma, sintattica (le famigerate fautes de français), ortografica (il nostro è Paese dove è possibile fare appassionare la gente con gare nazionali di dettato…), lessicale (basti pensare all'obbrobrio che suscitano i neologismi). In altre parole, il codice linguistico francese è ferreamente strutturato e le devianze mai pacifiche. Ulteriore elemento di vigilanza è reperibile nel fatto che il non usare un francese corretto fu a lungo - e temo purtroppo lo sia ancora - un alimento alla mai sopita xenofobia francese. Non si dimentichi che nel francese, lingua di colonizzatori, esiste il modo di dire parler petit nègre (letteralmente "parlare piccolo negro"), anzi p'tit nègre, per una persona che non sia in grado di maneggiare correttamente sintassi coniugazioni e fonemi. Come scrive il romanziere francofono di Costa d'Avorio, Ahmadou Kourouma: «Sono p'tit nègre. Non già perché io sia black e caruso. No! Perché parlo male il francese. Così è. Anche se si è grandi, vecchi, arabi, cinesi, bianchi, russi, perfino americani; se si parla male il francese, si dice quello parla p'tit nègre, si è p'tit nègre lo stesso. Lo vuole la legge del francese di tutti i giorni». Perfino il divario tra lingua scritta e lingua parlata è pudicamente sorvegliato (si badi che qui parliamo di letteratura: ad essere in ballo è il parlato letterario, non il parlato della strada). Per cui bisognerà tener presente tale importanza psicologica del padroneggaire la lingua, anche orale, quando si cercherà di tradurre gli scarti linguistici di Camilleri  rispetto alla norma dell'italiano nazionale, i quali sono di natura dialettale e non grammaticale o ortografica, tranne eccezione come alcuni biglietti scritti da personaggi analfabeti o quasi in Concessione del telefono o La scomparsa di Patò. Prova a contrario dell'imperante rispetto del codice in francese è la ricchezza anche letteraria dell'argot al quale ricorsero e ricorrono autori in rottura di consenso accademico come Céline, e numerosi  autori di gialli.
Per quanto poi riguarda il centralismo linguistico, il contesto è quello identitario di un sentimento nazionale forte, espressosi nei dettami dell'Académie française per cui le parlate delle province (come cadenza, come lessico), bollate di rozzezza e goffaggine, non accesero a dignità di veicolo culturale extraregionale (come invece fu ed è il caso delle lingue regionali in Italia: tanto per intenderci la Francia non ha né Goldoni né De Filippo né Massimo Troisi). Eppure un patrimonio linguistico regionale dei francesi c'è, presente in particolare nel mondo rurale, vale a dire, fino al secondo dopoguerra, la stragrande parte del Paese, solo che è in gran parte inconscio. Si tratta quindi di recuperarlo a fini non folcloristici ma espressivi. Almeno è quanto ho tentato di fare per La stagione della caccia e Un filo di fumo, riscoprendo grazie al plurilinguismo disinibito di Camilleri una mia personale memoria di patois, per usare la spregiativa parole francese, vale a dire in termini linguistici più nobili, la parlata franco-provenzale di Lione i cui lessemi e modi di dire energici non avevo mai usato, ma tante volte sentito in bocca a persone della mia famiglia e del mio paese.
Si trattò quindi per me di coniare spudoratamente un francese meticcio, non inventandolo contrariamente a Louis Bonalumi per La bolla di componenda che conia parole francesi anche gustosissime, o Serge Quadruppani che a piccolissime dosi inventa un vocalismo solo suo (paradigmaticamente: pirsonne invece di personne) ma attingendo a una parlata, dal francese accademico trascurata e disprezzata, eppure piena di vitalità. Con un altro vantaggio poi e non di minor conto: fare finalemente a meno dell'argot che, in quanto lingua dell'emarginazione non è fonte linguistica originaria dell'infanzia, e tuttavia troppe volte resta l'ancora di salvezza dei traduttori per i brani dialettalizzati.
È chiaro che lì ho imboccato una strada poco frequentata anche se non proprio deserta. Si pensi a Henri Barbusse ne Le feu, versione francese formato romanzo de La paura di De Roberto, o a Jean Giono. La scelta poi del lionnese non fu motivata solo dall'essere di già patrimonio mio, ma per altri tre motivi: l'esistenza di un ricco lessico, morfologicamente ben distinto da quello francese; l'assenza di deformazioni fonetiche troppo distanti dalla norma dell'eleganza e etnicamente caratterizzate, evocanti in particolare arabi o africani francofoni e infine l'esistenza di una tradizione scritta. A differenza della situazione linguistica tedesca gustosamente esposta da Moshe Kahn, dove difficilmente si può sfruttare un dialetto di Germania per sostituirlo al dialetto di Camilleri in quanto troppo connotato per il lettore tedesco, la parlata di Lione produce un effetto straniante non facilemente e sistematicamente riconducibile ad una precisa regione di Francia.
Chi non si è convinto si rassicuri : sto rimettendo tuto ciò in questione per affrontare la mia nuova traduzione camilleriana, quella de Il Re di Girgenti  la cui diversa impostazione linguistica mi obbliga a ripartire daccapo. Sperando di cuore di trovare modi per offrire ai lettori francesi qualcosa dell'ormai sfrenata immersione dialettale alla quale Camilleri sottomette i suoi consenzientissimi lettori italiani.
Dominique Vittoz insegna italianistica all'università di Lione. Ha pubblicato saggi su Guido Morselli, Aldo Busi, Marcello Fois, Erri De Luca nonché sul giovane cinema italiano. Ha tradotto Niccolò Ammaniti e Marcello Fois. Di Andrea Camilleri ha tradotto per Fayard La concessione del telefono, Il gioco della mosca, La stagione della caccia, Un filo di fumo e sta preparando Il re di Girgenti e Il corso delle cose.

di Dominique Vittoz - Stilos, supplemento letterario de La Sicilia, 19.3.2002
 
 


L´ULTIMA PAROLA Un convegno a Palermo sulla lingua dello scrittore
Uno stile canagliesco per tradurre Camilleri in America

Elvira Sellerio nel costruire il convegno di due giorni dedicato al caso Camilleri che si è appena concluso a Palermo, ha pensato bene di dare largo spazio ai traduttori perché Camilleri, nonostante il taglio fortemente siciliano delle sue storie, è un caso internazionale, anche se la diffusione della sua opera è ancora diseguale. Solo ora, ha detto per esempio il traduttore americano, Stephen Sartarelli, arriva al pubblico statunitense il commissario Montalbano e se avrà successo verranno tradotti anche gli altri romanzi.
Ma come tradurre il siciliano in inglese? In America non vi sono veri dialetti, ammesso che sia lecito usarli. C´era la possibilità di scegliere un gergo tipico degli italoamericani e che come tale ha una sua popolarità, ma sarebbe stato un tradimento troppo forte, una volgarizzazione dell´originale. Così il traduttore, che tra l´altro sta lavorando da vent´anni alla versione inglese di Horcynus Orca di D´Arrigo, ha cercato di riprodurre la lingua di Camilleri, magari mantenendo alla lettera qualche espressione idiomatica. La traduttrice francese, Dominique Vittoz, ha raccontato che in Francia le parlate regionali vengono per tradizione considerate inferiori al francese parigino e dunque letterariamente impraticabili. Eppure,in questo caso, e andando controcorrente, è a quel sostrato che ha dovuto rivolgersi per cercare di rendere un po´ di "colore locale" che appunto suonasse tale all´orecchio dei francesi.
Anche il traduttore tedesco, Moshe Kahn, ha rinunciato ad usare un dialetto tedesco come equivalente del siciliano mentre in diversi casi ha usato un tedesco arcaico per tradurre l´italiano arcaico di certe espressioni burocratiche.
I traduttori non sono soltanto dei traghettatori di cultura. Spesso il loro è un lavoro veramente eroico: sono oscuri scrittori-supplenti notava Marcello Sorgi. Quando non sono scrittori tout-court. Per tradurre Steinbeck, Pavese si attribuiva ampia libertà in "stile canagliesco".

La Repubblica 11.3.2002


Il convegno
Troppo eros, Camilleri e il tedesco va kaputt
I traduttori dello scrittore hanno chiuso le giornate di studi il convegno

Insomma, è o non è un grande scrittore Andrea Camilleri? Per due giorni questa domanda ha fatto il giro delle bocche dei critici e degli studiosi radunati per il convegno "Il caso Camilleri", che si è concluso ieri pomeriggio, dopo un'intensa tavola rotonda. Dagli interventi che si sono susseguiti emerge che Camilleri non è di certo una «mezza calzetta, per dirla con lo scrittore. Di questo avviso è sembrato Nunzio La Fauci, che ieri mattina ha condotto un'originale analisi linguistica delle pagine di Camilleri, definito «nonno tragediatore». Paolo Mauri, invece, partendo da una disamina del ruolo del dialetto nella letteratura del Novecento, ha messo in evidenza anche il piacevole e riuscito «riciclo postmoderno» che di Pirandello e Sciascia ha fatto Camilleri.
L'incursione nell'universo delle traduzioni ha fatto registrare un'impennata. «Tra i romanzi come tra i vini, ci sono quelli che viaggiano bene e quelli che viaggiano male», scriveva Calvino a proposito della riuscita di certe traduzioni. Ma come viaggiano i romanzi di Camilleri? Non sono tutti rose e fiori, nel senso che una semplice traduzione del dialetto nella lingua di arrivo rovinerebbe tutto. «Il dialetto non va tradotto, ma trattato nei suoi diversi livelli», dice Moshe Kahn, il traduttore tedesco di alcuni romanzi di Camilleri che, nel suo intervento, ha esposto anche le difficoltà incontrate per riprodurre in tedesco il linguaggio erotico di Camilleri: «Il tedesco - ha precisato Kahn - non è affatto una lingua erotica. Per me è stata un'operazione disgustosa, perché la mia lingua ambienta sempre le cose più esplicite nella zona anale, per cui ho dovuto fare un trapianto dei riferimenti in altre zone». Dominique Vittoz, traduttrice francese, si è lanciata invece in una dura, puntuale e antipatriottica requisitoria contro il rigido centralismo che in fatto di lingua vige in Francia, in forza del quale il patrimonio linguistico regionale è stato quasi spazzato via, perché corrotto e subalterno. Per tradurre bene Camilleri, ha concluso la Vittoz, occorre recuperare la parlata francoprovenzale di Lione, che conserva ancora risorse intatte, utili per creare un francese meticcio in grado di rendere le sfumature del camillerese. Ma cosa provano invece i lettori francesi, quando si trovano tra le mani una nuova avventura di Montalbano? A rispondere a questa domanda è stato Serge Quadruppani, traduttore e scrittore. «Per un francese leggere Camilleri è innanzitutto una soddisfazione dei sensi, che proviene da quella mistura di odori e sapori di cui è pieno un romanzo».
E Camilleri? «In questo convegno ho imparato tante cose di me che non sapevo - ha detto alla fine lo scrittore - Direi però di smetterla di parlare di "caso Camilleri" perché pubblico poesie dal 1948. Mandavo i miei messaggi in bottiglia da Porto Empedocle a Palermo e il giornale "L'Ora" pubblicava i miei racconti pur senza conoscermi».

di Salvatore Ferlita - La Repubblica 10.3.2002
 
 


DUE GIORNI DI CONVEGNO ANALIZZANO A PALERMO IL «CASO LETTERARIO» DEGLI ULTIMI ANNI
«Si parla di questo fungo venuto fuori dal nulla: ma io vengo stampato dal `48, quando Ungaretti mi pubblicò tre poesie»
«Successo tardivo: come tutto nella mia vita»

PALERMO «DUE giornate che arrivano tardi, come tutto nella mia vita. Senza rimpianti». Con quest´annotazione Andrea Camilleri, ieri pomeriggio ha chiuso il convegno («Letteratura e storia. Il caso Camilleri») che gli hanno dedicato l'Università di Palermo, la casa editrice Sellerio e il Credem. Lo scrittore si è proposto ai presenti senza reticenze, con la disarmante franchezza di chi non ha scheletri nell´armadio. E, dopo una trentina di relazioni, fra cui quelle dei suoi traduttori, ha sfoderato l´arma dell´ironia, per nulla al mondo volendo rinunciare, neppure stavolta, alla sua «agrigentinità». Così nell'intervento finale (definito «Considerazioni a margine» dagli organizzatori) ha ricordato che uno dei relatori, Gioacchino Lanza Tomasi, soprintendente del San Carlo di Napoli e figlio adottivo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, aveva manifestato la propria difficoltà nel parlare di un autore che sta lì ad ascoltare, seduto in prima fila. «E mi ha chiamato salma. Bellissimo! Oggi, orrore, la salma parla. E a chi non sa se io sia una mezza calzetta o un grande dico che alla salma non interessa per niente». Non soltanto autore di best sellers, ma pure uomo di teatro che sa come conquistare la platea, Camilleri ha dato libero sfogo alla sua consueta sincerità e con un impeto d'orgoglio, che non era semplice vanità, ha rivendicato l´ultra cinquantennale milizia fra i letterati: «Si parla di questo fungo che negli ultimi tre anni viene fuori dal nulla. Ma, amici miei, è dal 1948 che stampo, che pubblico cose. Da quando un signore che si chiamava Giuseppe Ungaretti pubblicò tre mie poesie». Quindi la memoria sui primi scritti per il quotidiano L´Ora di Palermo e per l´Italia Socialista diretta da Aldo Garosci («Mandavo messaggi in bottiglia da Porto Empedocle...») e sui primi compagni del suo ormai lungo cammino («Pasolini aveva un anno più di me») con i quali fu premiato in Svizzera («Loro sfondarono subito, io dopo quarant´anni»). Nell'aula magna della Facoltà di lettere, dove il convegno si è chiuso, il professor Gianni Puglisi ha annunciato che l´Università di Milano conferirà a Camilleri all´inizio di maggio la laurea honoris causa in lingue e letterature straniere. Lo scrittore commenta: «Ringrazio per la laurea. È un risarcimento. Sono stato un pessimo studente e ora mi premiano». Appena, poi, un accenno all'impegno politico a sinistra che considera evidente nella sua scrittura. Il «caso Camilleri» nelle quattro sessioni di lavori, venerdì e ieri, ha visto un'analisi linguistica sull'ampio ricorso al dialetto siciliano e anche sulla tecnica del giallo. E se Angelo Guglielmi ha paragonato Camilleri a James Joyce, Marcello Sorgi, direttore della Stampa (coautore di La testa ci fa dire) l'ha descritto come un intellettuale «discontinuo rispetto a quanti sgomitano». Ha ricordato che Camilleri gli ha confidato di non esser fra quelli che chiamavano Leonardo Sciascia Nanà, per esibire l´intimità con lui. «Insomma non voleva apparire suo amico soltanto per occhio di mondo», ha osservato Sorgi.
Michela Sacco nella tavola rotonda conclusiva richiama l´interesse «sul trauma storico del Risorgimento tradito, comune in tanti intellettuali siciliani» e sulla zona grigia tra mafia e politica, ben presente nei testi di Camilleri dei quali rammenta il gioco dei sottintesi e «le indagini sulla ricerca di verità che nessuno vuole legalizzare, come diceva Sciascia». Camilleri ha citato Manzoni e I promessi sposi che ha confessato di aver odiato da studente e di aver letto tre volte da adulto, per poi trarne ispirazione. Anche il condirettore della Stampa, Gianni Riotta, fa riferimento a Manzoni, dando merito a Camilleri di una «complessa operazione linguistica e politica realizzata semplicemente con la macchina da scrivere, seguendo l'idea di una cultura democratica che viene dal Manzoni, fatta per i lettori e non per l´Accademia».

di Antonio Ravidà - La Stampa 10.3.2002

 
 


Il «caso Camilleri» è chiuso

«Tornerò a scrivere, e ancora a scrivere finchè potrò! Sono soddisfatto di questi due incontri a Palermo che mi hanno visto attivo protagonista insieme a personaggi illustri che hanno parlato delle mie opere. L'occasione è stata utilissima per illuminarmi su cosa sto facendo».
Con queste parole ieri mattina, nella giornata conclusiva dedicata ad Andrea Camilleri, lo scrittore, in presenza di parecchi traduttori provenienti dalla Spagna, da New York, dalla Francia e da Zurigo ha salutato Palermo.
Ma cosa caratterizza Andrea Camilleri? Molti si chiederanno qual è il segreto del suo successo... In pochi anni è diventato un vero e proprio caso letterario: è riuscito ad imporre il dialetto siciliano nell'alta letteratura del terzo millennio.
«Non c'è pagina in cui non ci sia la presenza viva di Camilleri – ha detto il professore Nunzio La Fauci – la sua lingua è privata, familiare. Ogni lettore riesce ad entrare a casa dell'autore».
«Nessuno meglio di lui – ha proseguito Antonino Buttitta, preside della facoltà di lettere e filosofia, che ha ospitato l'incontro – può rappresentare la nostra isola e la nostra cultura. Riteniamo che oggi Camilleri a parte le sue rinomate qualità di scrittore, sia coerentemente rappresentativo della Sicilia, soprattutto per la sua grande creatività».
«Il Caso Camilleri», come è stato denominato il convegno è stato dunque risolto e può essere consegnato alle patrie lettere.

di Alessandra Galioto - La Sicilia 10.3.2002
 
 


Il convegno
Tutte le facce di Camilleri sotto la lente dei critici

Il maestro guarda con gli occhi sbavaluciati la Vucciria di Guttuso. Si leva i capizzuna (redini, metafora di occhiali), stropiccia le occhiaie e riguarda. Mentre esce gli sfugge un «mah». Quando gli chiediamo di chiarire il significato di quell'espressione così risponde: «Mah, e non solo in siciliano, vuol dire mah, cioè non mi persuado, non capisco». U quatru lo lascia perplesso. Siamo nel trecentesco palazzo Steri, già sede del tribunale dell'Inquisizione, Andrea Camilleri sta prendendo un po' d'aria dopo un'eruzione di cinque ore di parole pronunciate dai critici per celebrare la sua opera. In questa colata di elogi (estrema beffa in un luogo dove si celebrava l'autodafé) però manca qualche salutare camilleriano «mah» (ad esempio sulla ripetitività della struttura narrativa, sulla iper produzione, sul suo compiacimento per il pur apprezzabile impasto linguistico) che nulla avrebbe tolto alla sua grandezza di scrittore ma molto avrebbe aggiunto.
Nella prima delle due giornate nel segno di Camilleri (oggi il convegno si trasferisce alla facoltà di Lettere) il checkup della sua opera non evidenzia alcun malessere. "Il caso Camilleri", come si intitola il convegno organizzato dalla casa editrice Sellerio e dalla facoltà di Lettere, quindi è già risolto (ma Montalbano continuerebbe a indagare ancora) per essere consegnato alle patrie lettere. Il dibattito comunque, per niente monocorde nelle articolazioni, è stato ricco di suggestioni, riferimenti, analogie. Proviamo a coglierne gli aspetti più interessanti.
La storia - Nonostante l'antico vezzo di Camilleri di non considerarsi uno storico, più di un relatore ha sottolineato le grandi verità storiche sviscerate dallo scrittore empedoclino.
Salvatore Lupo, storico di mestiere, arriva perfino all'abiura sostenendo che la Storia non esiste ma esistono le storie e per la loro rivelazione la letteratura è più vera di qualsiasi ricerca d'archivio. E con un paio di esempi stende i suoi colleghi: la fantasia di un estremista come Franchetti comunica la questione meridionale meglio di qualsiasi studio serio o serioso sull'Ottocento. Così come il Risorgimento siciliano di Romeo è pressoché muto se raffrontato alla sua rappresentazione letteraria nel Gattopardo di don Fabrizio. Proprio l'erede di Giuseppe Tomasi, Gioacchino Lanza, sottolinea la complessità dello sfondo storico nei romanzi di Camilleri, tanto più vero quanto più inventato, magari sulla scia di un input originario. Poi il musicologo pesca nel suo blasone quando trova nel "Re di Girgenti", il cardinale Traina, suo avo. Quest'opera a suo dire colma un vuoto di conoscenza sulla Sicilia del Seicento, barocca, agiografica e distante. Ancora invenzione come verità.
Il barocchismo - È Salvatore Nigro a sostenere l'effluvio barocco di Camilleri. Come se le parole, per dirla con il rettore Giuseppe Silvestri, «immagazzinate in una diga per tutta una vita all'improvviso avessero trovato una falla da cui fuoriescono copiose e inarrestabili». E gli trova nobili progenitori; il più importante il Serafino Amabile Guastella delle "Parità morali".
La lingua - Nigro parlando della lingua reinventata nell'impasto tra dialetto e italiano, trova un precursore in Edoardo De Filippo traduttore in un napoletano seicentesco della "Tempesta" scespiriana. L'americana Jana VizmullerZocco rimarca la coesistenza, con pari dignità, di siciliano, italiano e sprazzi di spagnolo. Un impasto pacifico e creativo. Una nuova lingua che il lettore non sempre capisce ma sempre ne trova il senso. Una via di salvezza contro una globalizzazione senz'anima che comincia la sua aggressione proprio destrutturando le parole.
Montalbano - Per molti studiosi la forza del commissario di Vigata sta nel suo non essere istituzionale. Nino Borsellino, Piero Dorfles e Beppe Benvenuto puntano sull'anticonformismo di Montalbano, che va fino in fondo a dispetto dei bavagli che le gerarchie vogliono mettergli. Mentre Maigret indaga solo per il piacere di indagare, lo "sbirro" siculo lo fa per arrivare alla verità, per restituire dignità a chi ha sbattuto la testa contro i bastioni del potere. Costi quel che costi.
La sicilianità - Antonio Calabrò e il sardo Giuseppe Marci provano a decifrare il concetto di identità. Che in Sicilia assume più facce di un prisma. Come qualcuno ha scritto, un torinese (milanese, trentino fate voi) ogni mattina si guarda allo specchio per vedere se i capelli sono a posto, se l'aspetto è buono. Il siciliano, invece, per vedere se si rassomiglia. In questa metafora ci sta tutto il nostro narcisismo, la nostra inconcludenza.
Manzoni - Al dibattito prendono parte anche Nino Buttitta («Un grande scrittore come Camilleri si riconosce dal linguaggio»), il preside Giovanni Ruffino («Ridà dignità al dialetto dopo che è stato in ostaggio della cultura mafiosa»). Infine, Angelo Guglielmi lo paragona al rivoluzionario Joyce, mentre Ermanno Paccagnini si diverte a ritrovare nell'opera di Camilleri le tantissime citazioni manzoniane.

di Tano Gullo - La Repubblica 09.3.2002

 
 


La beatificazione di Camilleri

Si racconta che anni fa, quando lo sceneggiatore e regista televisivo Andrea Camilleri bussava alle porte delle case editrici, provocasse un fuggi fuggi generale, c'era persino chi saltava dalle finestre. Tutti evitavano come la peste quel siciliano che non solo aveva il vizio di scrivere, ma aveva anche la presunzione di usare un linguaggio infarcito di incomprensibili sicilianismi, con personaggi usciti dalla Sicilia più prevedibile... si narra anche che, rassegnato, abbia pubblicato qualche libro a sue spese...
Ora tutto è mutato, ciò che prima sembrava un difetto è diventato un pregio, ciò che disgustava delizia. E ieri nella prima delle due giornate dedicate al caso Camilleri, a Palazzo Steri a Palermo, si sono sprecate le iperboli per esaltare le virtù del creatore del commissario Montalbano.
Angelo Guglielmi ha paragonato Andrea Camilleri da Porto Empedocle a James Joyce da Dublino, uno dei padri della letteratura moderna, come se bastasse impastare dialetto siciliano e sintassi italiana per ricreare il flusso di coscienza, il libero gioco di associazioni linguistiche e lessicali di «Ulisse». Come se non ci fosse differenza tra Martoglio e lo scrittore irlandese.
Sergio Valzania, in un empito di commossa esaltazione, ha cominciato con Tucidide, poi è passato a Ranke, e infine è approdato a Manzoni. L'autore dei «Promessi sposi» ha fatto anche una figura meschinella, perché per tutta la vita ha riscritto lo stesso romanzo sforzandosi di adeguarlo alla parlata toscana, mentre Camilleri spazia liberamente dal siciliano all'italiano, dal genovese al romanesco, e di romanzi ne scrive uno o due l'anno, qualche volta, se si applica, anche di più.
Nulla attira gli adulatori più del successo. Le nuove leggende narrano di una casa editrice milanese che ha offerto a Camilleri, in cambio dell'esclusiva, un assegno in bianco. Ma lui no, resta fedele al primo amore, Sellerio, anche se si concede qualche avventura. Tanto nella società del consumo, il suo nome è un marchio di garanzia, può scrivere e vendere ciò che vuole. La sua firma vale milioni, lo sanno bene gli editori che se lo disputano. Ora che l'hanno beatificato, vale anche di più.

di Salvatore Scalia - La Sicilia 09.3.2002

 
 


Il dialetto rivalutato

Il siciliano utilizzato nei suoi libri da Andrea Camilleri, padre-creatore, tra l'altro, del commissario Montalbano, non solo ha ridato vita a uno straordinario dialetto ma lo ha posto al centro di un vero e proprio dibattito culturale.
In pochi anni, ormai lo sanno tutti, è diventato un caso letterario grazie ai suoi intricati "gialli". Così ad Andrea Camilleri, creatore del commisario Montalbano, Palermo dedica due giorni di incontri.
Camilleri è in fondo lo scrittore che è riuscito a imporre il dialetto siciliano nelle quote alte della letteratura a cavallo del terzo millennio. Camilleri, lavorando sulla storia così come sul giallo più classico (riveduto e adatto al suo personale gusto), ha da una parte dato dignità di lingua al siciliano, dall'altra avvicinato un pubblico amplissimo all'anima popolare della Sicilia, quella che da intellettuale Camilleri rappresenta magistralmente.

Camilleri, caso letterario da studiare all'Università
Il tributo di Palermo al "suo" scrittore Palermo- Seduto in prima fila nel trecentesco Palazzo Steri, sede del rettorato dell'Università palermitana, che organizza il convegno con la casa editrice Sellerio, Andrea Camilleri (autore di tanti fortunati romanzi, tra i quali "Il ladro di merendine", IL birraio di Preston", "La gita a Tindari", "Il corso delle cose", "La scomparsa di Patò", "Gli arancini di Montalbano", e l'ultimo "Il re di Girgenti") ha ascoltato in religioso silenzio gli interventi di docenti, intellettuali, giornalisti. A seguire la "festa per il nonno" c'erano anche la moglie, una delle tre figlie, Mariolina, e i nipotini, Francesco e Silvia, di otto e sei anni.
Dopo le prime due ore, nell'intervallo, nello splendido portico del palazzo Steri già sede del Tribunale dell'Inquisizione, Camilleri si "è concesso" a giornalisti e lettori. Mentre cercava di prendere un po' d'aria, il pubblico l'ha letteralmente sommerso di richieste di autografi: c'è abituato, del resto. I lettori, venuti anche in gruppo da ogni parte della Sicilia, hanno salutato l'"eroe letterario".
Il docente catanese Salvatore Nigro, tra i relatori, ha sottolineato l'importanza della lingua usata da Camilleri che ha definito:"Un
dialetto inventato baroccamente. Una lingua che fa pensare a quella "Tempesta" shakespeariana tradotta da Edoardo De Filippo".
Il commissario di Camilleri, famoso anche per il suo modo di rispondere o di presentarsi ("Montalbano sono"), è stato messo ai "raggiX" in più di un intervento. Piero Dorfles l'ha definito un "poliziotto anti-istituzionale, un personaggio che indaga a modo suo e a questo sembra legata la struttura del successo dei libri di Camilleri".
Montalbano sarebbe "un teorico del giallo", secondo il giornalista Beppe Benvenuto, che ha ricostruito la genesi del poliziotto, il cui nome è legato al cognome dello scrittore catalano Montalban, come lo stesso Camilleri, appassionato anche di Sciascia ("da cui tutto mi divide e tutto mi unisce"), Gogol, Brancati e Gadda, ha più volte ammesso.
Il convegno, inaugurato dal rettore dell'Università di Palermo, Giuseppe Silvestri, e moderato dal preside della facoltà di Lettere e Filosofia, Giovanni Ruffino, proseguirà oggi e sarà concluso da "Considerazioni a margine" fatte dallo stesso Camilleri.
Il critico Angelo Guglielmi, parlando durante il convegno, ha paragonato lo scrittore di Porto Empedocle a James Joyce. "Il dialetto che utilizza - ha detto Guglielmi - è una sua invenzione che può usare soltanto lui.
A differenza di Manzoni che impose una scrittura universale alla quale tutti avrebbero dovuto rifarsi, quella di Camilleri è una lingua inutilizzabile da altri. E' un vero scrittore moderno come Joyce. E se a volte non capisco le parole dialettali ne riesco, sempre e comunque, a coglierne il reale senso che, non per forza, è quello logico".
Sulla questione legata alla "sicilianità" si è pure soffermato il direttore editoriale del "Sole 24 ore", Antonio Calabrò, che ha parlato dell'"identità siciliana" di cui Camilleri sa dare lezione. Sulla più recente produzone letteraria di Camilleri hanno, poi, parlato Ermanno Paccagnini, Jana Vizmuller e Gioacchino Lanza Tomasi, soprintendente del "San Carlo" di Napoli e figlio adottivo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che ha dedicato il suo intervento al rapporto tra realtà e invenzione nel "Re di Girgenti".

La Voce di Crema 09.3.2002
 
 


Il convegno. Vita, opere e miracoli di un asso pigliatutto

"Letteratura e storia. Il caso Camilleri" è il titolo del convegno organizzato dal dipartimento dei Beni culturali dell'Università di Palermo, in collaborazione con la casa editrice Sellerio; vi parteciperanno storici, critici e studiosi provenienti dall'Italia e dall'estero, assieme ad alcuni traduttori dei libri dello scrittore siciliano. Al centro degli interventi dei relatori l'ultima fatica di Camilleri, "Il re di Girgenti". «È un ottimo libro - precisa Salvatore Silvano Nigro, ordinario di Letteratura italiana a Catania e promotore della manifestazione - che si inserisce a pieno titolo nel solco della tradizione picaresca. Si tratta di un romanzo vero, per niente discontinuo, che coniuga insieme la tragedia e la favola».
Il convegno avrà inizio venerdì alle 9 a Palazzo Steri, in piazza Marina. Interverranno lo storico Salvatore Lupo, Silvano Nigro, Antonio Calabrò, Marcello Sorgi, Nino Borsellino, Piero Dorfles, che parlerà di "Montalbano e altri poliziotti antiistituzionali", e Beppe Benvenuto. Alle 15,30 interverranno invece Gioacchino Lanza Tomasi, Jana VizmullerZocco, Giuseppe Marci, Ermanno Paccagnini, che svelerà la trama complessa di rimandi che soggiace alle pagine di Camilleri: «"Il re di Girgenti" è pieno di citazioni manzoniane - afferma il critico letterario del "Corriere della Sera" - ma già nell'ultimo Montalbano l'autore aveva dichiarato il suo amore per "La colonna infame"». E ancora Sergio Valzania, Carmelo Occhipinti e Angelo Guglielmi, che si soffermerà sulla nuova lingua inventata da Camilleri, «non riconducibile a uno schema dato, sotto la quale si celano ricordi di altre scritture, come quelle di Gadda, Pasolini, Meneghello». Sabato il convegno si sposterà nell'aula magna della facoltà di Lettere, dove si susseguiranno gli interventi di Nunzio La Fauci, Moshe Kahn, Dominique Vittoz, Serge Quadruppani, Blanca Muniz, Stephen Sartarelli e Paolo Mauri, responsabile delle pagine culturali di "Repubblica": «Un convegno del genere di certo non è una cosa usuale, ma è innegabile che l'attenzione della critica attorno allo scrittore agrigentino stia aumentando sempre più. I lettori per i suoi libri impazziscono, ma senza dubbio a Camilleri non si può imputare di essere uno scrittore facile. Per questo occorre chiedersi da dove venga Camilleri, e se nel suo caso si possa parlare di scrittura postmoderna».
Nel pomeriggio di sabato, alle 15,30, avrà luogo una tavola rotonda, alla quale prenderanno parte, tra gli altri, Gianni Riotta, Francesco Renda, Natale Tedesco, Michela Sacco Messineo; le conclusioni a margine saranno dello stesso Camilleri.

di Salvatore Ferlita - La Repubblica 06.3.2002

 
 


Il «caso Camilleri», critici a confronto
A Palermo il convegno su uno straordinario fenomeno letterario. Come i romanzi storici (e in dialetto siciliano) diventano best seller

ROMA. Nel solco del romanzo storico, tra l'impegno dell'intellettuale e la necessità di riflettere sul fenomeno Camilleri. Da qui, tre pareri, tre punti di vista di studiosi e giornalisti che saranno sviluppati nel corso di un convegno in programma a Palermo l'8 e il 9 marzo intitolato «Letteratura e storia. Il caso Camilleri». Nino Borsellino, docente dell'Università La Sapienza di Roma ritiene che il lavoro di Camilleri «prosegua nel solco del romanzo storico, con una variante magico-favolistica, la storia che sconfina quasi nell'antropologia, e uno studio che va sempre all'essenza delle condizioni dell'uomo».
Uno studio «non di stampo manzoniano anche se Manzoni è molto presente». Quello del romanzo storico non è l'unico solco nel quale si inserisce lo scrittore siciliano. Marcello Sorgi, direttore de «La Stampa» e autore del lungo colloquio proprio con Camilleri «La testa ci fa dire», ne sottolinea lo specifico impegno di intellettuale ricordando una annosa controversia proprio tra intellettuali siciliani: «Per alcuni l'impegno deve essere quello di occuparsi della realtà vicina, per altri questo non è vero. Camilleri, a ragione, sostiene la prima tesi, anche se è capitato vederlo prendere posizione; spesso viene tirato in mezzo». E rimanda agli esempi di Gentile e Pirandello, iscrittisi al Partito Fascista quando il declino del regime era già avanzato.
Paolo Mauri, responsabile delle pagine culturali de «La Repubblica», riconosce invece a Camilleri il merito di essere riuscito in «una operazione delicata: fare letteratura popolare con ingredienti colti, perchè lui è colto, manovrando in maniera da diventare popolare». Frena, invece, rimandando al futuro, su una valutazione complessiva dell'autore siciliano: «E' esploso tanto repentinamente che c'è stato poco tempo per riflettere criticamente; superato lo stordimento del fenomeno, che toglie un po' di acqua alla critica, potremo valutare con più calma».
Pareri difformi anche su «Il re di Girgenti», uno degli argomenti principali della due-giorni. Incasellato nella scia del romanzo storico, con la particolarità delle «notevoli varianti legati alla creatività anche teatrale di Camilleri», Borsellino tralascia Verga e De Roberto, per partire da «un repertorio di narrazioni con al centro la storia, che comincia con il '700 siciliano citando lo Sciascia de «Il consiglio di Egitto» e della controversia liparitana, il Fabrizio Salina di Tomasi di Lampedusa e, più recentemente, Bufalino e Consolo.
Per Sorgi «Il re di Girgenti» è «il libro più completo, quello al quale ha lavorato di più e più rispondente al carattere e alla indole di Camilleri». E puntualizza: «Al fondo del suo animo c'è uno spirito rivoluzionario». A chi gli fa notare che il finale del libro è tragico non si scompone: «E' normale per uno scrittore siciliano».
Tanta curiosità per Paolo Mauri che giudica il libro «non la cosa migliore» dello scrittore, «riuscita al settanta, all'ottanta per cento». Mauri fa un passo indietro e pone un punto interrogativo più generale: «La ragione per cui Camilleri usa il dialetto oggi, quando la rivoluzione linguistica ha portato l'italiano sulla bocca di tutti ed avviato il declino dei dialetti». Ma gli riconosce un merito importante: «E' riuscito dove altri non sono riusciti, a individuare un tratto di storia d'Italia degli ultimi anni» anche se «rappresenta una Sicilia che c'è e non c'è, forse quella di ieri, dell'altro ieri». Al convegno, organizzato dall'Università di Palermo, oltre a Borsellino, Mauri e Sorgi, interverranno alcuni dei traduttori dello scrittore, e, tra gli altri, Angelo Guglielmi, Salvatore Nigro e Gianni Riotta.

Il Tirreno 03.3.2002





Last modified Wednesday, July, 13, 2011