Andrea
Camilleri: l'altra faccia della letteratura siciliana
di Salvatore Ferlita
«Un
critico letterario dei giorni nostri ha dichiarato che non riesce a capire come
si possa legare ad un luogo una vita, e l’opera di tutta una vita; per parte
nostra non riusciamo a capire come si possa far critica senza aver capito questo
inalienabile e inesauribile rapporto, in tutte le sue infinite possibilità di
moltiplicarsi e rifrangersi, di assottigliarsi, di mimetizzarsi, di essere
rimosso e nascosto. Nessuno è mai riuscito a rompere del tutto questo rapporto,
a sradicarsi completamente da questa condizione; e i siciliani meno degli altri».
Queste parole di Leonardo Sciascia, ricavate da un suo breve ma densissimo
saggio su Antonello da Messina, mi sembrano il punto
di partenza inevitabile da cui prendere le mosse per sviluppare un discorso su
Andrea Camilleri e i suoi legami con la Sicilia, per comprendere appieno
l’inalienabile e inesauribile rapporto che unisce lo scrittore di Porto
Empedocle alla sua terra e coglierne le possibilità infinite di moltiplicarsi e
rifrangersi, di assottigliarsi e mimetizzarsi.
«C’è una fedeltà al di fuori della quale se l’autore si mette, rischia di
essere orfano, rischia che la sua terra gli diventi matrigna»,
dichiarava lo scrittore di Favara Antonio Russello nella premessa al romanzo La
luna si mangia i morti (1963).
«Noi ci portiamo appresso – continuava Russello
– lembi di terra cielo e sangue di chi ci fece»; proprio così: Andrea
Camilleri, scrivendo i suoi romanzi, siano essi storici o polizieschi, non è
mai venuto meno a quella fedeltà, non ha mai rinunziato a quei «lembi di terra
cielo e sangue». Anzi, proprio su quei «lembi» ha poggiato tutta la sua
produzione, narrativa e saggistica.
Del resto, lo stesso Camilleri,
nella nota introduttiva a Il
corso delle cose (1978), non ha fatto misteri sulla sua incapacità
di ambientare una storia di fantasia in un luogo che non fosse la Sicilia,
ammettendo di non sapere fare altro che calare quella storia «para para
nelle case e nelle strade che conosce». «Ambientare un racconto – continua
nella stessa nota Camilleri – a Londra o a Nuovaiorca
resterà l’ambizione massima e purtroppo sempre delusa dell’autore: egli,
non possedendo la fantasia di un Verne e francamente
restìo all’aeroplano, di queste città conosce
soltanto quello di cui l’informano il cinematografo e la TV».
Della Sicilia invece, della sua Porto Empedocle in particolare, Camilleri sembra
conoscere ogni segreto. Anzi, l’autore degli Arancini
di Montalbano è come se non riuscisse a fare a meno di tradurre in
scrittura l’inarrestabile empito affabulatorio
che, alla stregua di un fiume in piena, attraversa le contrade siciliane.
Le vicende raccontate dallo scrittore empedoclino, infatti, non escono fuori
dall’isola, non superano mai lo Stretto; Leonardo Sciascia, a questo
proposito, nell’introduzione all’antologia Narratori
di Sicilia (1968), parlava di una condanna degli scrittori siciliani
a rimestare ossessivamente la loro terra, a indagarla quasi con accanimento.
Anche chi ha abbandonato la Sicilia, chi si è definitivamente allontanato da essa,
pare che non possa fare a meno di rivisitarla con la fantasia, di farla rivivere
nelle proprie pagine: «Tutti gli scrittori siciliani – scrive
dunque Sciascia – sono stati e sono legati alla rappresentazione della realtà
siciliana (qualcuno direbbe condannati) per la loro stessa vocazione al
realismo, appunto il realismo imponendo la precisa condizione di una conoscenza
indefettibile, sentimentalmente e razionalmente, in ogni loro implicazione e
vibrazione, dei modi di essere e delle categorie che lo scrittore o l’artista
assume; e d’altra parte, nel caso della Sicilia, modo di essere e categorie
presentano una tale complessità, sottigliezza e contraddittorietà, una tale
suggestione, che ogni altra realtà, ogni altra esperienza, diviene (o sembra
divenire) al paragone più povera».
Dal canto suo, Andrea Camilleri si è rivelato abilissimo nel saper rievocare il
genius
loci, «la densità dell’atmosfera siciliana», come ha scritto nel
1979 Ruggero Jacobbi, nel far rivivere i caratteri,
le passioni e le ambiguità della sua terra, evitando quasi
sempre di cadere nel bozzetto, eccezion fatta per alcuni racconti la cui
misura gli va stretta, ed elevando la sicilianità a
grande metafora della commedia umana. Una commedia umana spesso osservata
attraverso la lente d’ingrandimento dell’intrigo e dell’indagine, che ha quasi
sempre come teatro Vigàta, ossia Porto
Empedocle, e Montelusa, nome con cui spesso
Pirandello chiamava Agrigento nelle sue novelle.
Ecco, dunque, i due poli geografici dell’immaginazione di Camilleri, nei quali
la sua fantasia ogni volta si inzuppa, come scriveva
Sciascia a proposito di Pirandello, di quei fatti grotteschi, bizzarri, ma anche
pietosi, che vi accadono, e che ogni volta sono andati a infoltire quelli che
prepotentemente vivono nella sua memoria e che sono stati immortalati nelle
deliziose pagine de Il
gioco della mosca (1995), diario-testimonianza della vita di
Camilleri in Sicilia, e nella fattispecie a Porto Empedocle, le cui pagine si
vanno ad affiancare, per intenzione, per sentimento e per la salvaguardia di
memorie al servizio d’un luogo familiare, a quelle di Occhio
di capra (1982) di Leonardo Sciascia, di Museo
d’ombre (1982) di Bufalino e di L’incominciamento
(1983) di Bonaviri. Si tratta di una raccolta di «microstorie»,
di vere e proprie «storie cellulari», che funge da magico «serbatoio», dal
quale Camilleri attinge materiale per plasmare i suoi personaggi e per dar forma
alle sue storie, sprigionando inevitabilmente una notevolissima forza evocativa.
In sostanza, nelle opere di
Camilleri si configura la stessa mappa geografica tracciata da Pirandello in
gran parte delle sue novelle e in romanzi come Il
fu Mattia Pascal
e I
vecchi e i giovani. Da una parte, dunque, Porto Empedocle che, prima
di diventare comune autonomo, era una borgata di Agrigento:
la cosiddetta «Borgata Molo», come racconta la
stesso Camilleri in Biografia
del figlio cambiato (2000), che contava quasi tremila anime, la cui
vita era legata al traffico portuale di zolfo, sale, grano. La separazione da
Agrigento avverrà nel 1853: da allora, quel paesino sulla costa meridionale
della Sicilia godrà di un’amministrazione autonoma
e indipendente. Porto Empedocle quindi, come anni prima Girgenti
per Pirandello, diventa inevitabilmente per Camilleri «il luogo della
metamorfosi», per usare un’espressione cara al grande Giacomo Debenedetti,
una sorta di Spoon River
mediterranea, «elemento catalizzatore» della fantasia dello scrittore
siciliano. E come l’autore di Uno,
nessuno, centomila non ha quasi mai potuto fare a meno di «raccontare
Girgenti, e soprattutto i fatti di Girgenti»,
così Andrea Camilleri non ha fatto altro che ritornare, con la fantasia, nei
suoi luoghi d’origine; anzi, da quei luoghi Camilleri, almeno con la fantasia,
non si è mai allontanato.
Se è vero, dunque, che nelle pagine dell’autore del Re
di Girgenti, nella fattispecie nei
romanzi storici La
strage dimenticata, La
stagione della caccia e La
bolla di componenda, e nella saga del
commissario Montalbano, ritroviamo il paese di Porto
Empedocle, è anche vero che ad esso fa quasi sempre da contraltare
la città di Agrigento, che nelle opere di Camilleri diventa, pirandellianamente,
Montelusa, riconoscibilissima nelle descrizioni del
centro storico, e soprattutto della zona del Rabato,
il quartiere di cui Pirandello ha indagato, nella sua tesi di laurea, la parlata
cantilenante e pittoresca. «Alzò gli occhi, così pensando, a Girgenti
che sedeva alta sul colle con le vecchie case dorate dal sole, come in uno
scenario; e cercò nel sobborgo Rabato, che pareva
il braccio su cui s’appoggiasse così lunga sdraiata, se gli riusciva di
scorgere il campaniletto di Santa Croce, ch’era la
sua parrocchia. Aveva là preso un casalino, dove
avrebbe chiuso gli occhi per sempre…. Si rivedeva ragazzetto, trascinato per
mano dalla madre e su su per tutti quei vicoli a
sdrucciolo, acciottolati come letti di torrenti, e tutti in ombra,
oppressi dai muri delle case sempre a ridosso…».
Così Pirandello, nella novella Il
vitalizio.
Così invece Camilleri, nelle pagine dei romanzi La
forma dell’acqua e Il
ladro di merendine: «All’èbica dei
musulmani in Sicilia, quando Montelusa si chiamava Kerkent,
gli arabi avevano fabbricato alla periferia del paìsi
un quartiere dove stavano tra di loro. Quando
i musulmani se n’erano scappati sconfitti, nelle loro case c’erano andati ad
abitare i montelusani e il nome del quartiere era
stato sicilianizzato in Rabàtu.
Nella seconda metà di questo secolo una gigantesca frana l’aveva inghiottito.
Le poche case rimaste in piedi erano lesionate, sbilenche,
si tenevano in equilibri assurdi. Gli arabi, tornati questa volta in
veste di povirazzi, ci avevano
ripreso ad abitare, mettendo al posto delle tegole pezzi di lamiera e in luogo
delle pareti tramezzi di cartone». E ancora:
«Arrivato al Rabàto, il quartiere più antico di Montelusa,
andato distrutto trent’anni prima per una frana e
ora abitato nei ruderi riaggiustati alla meglio, nelle casupole lesionate e
cadenti, da tunisini e marocchini arrivati clandestinamente, si diresse per
vicoli stretti e tortuosi a piazza Santa Croce: la
chiesa era rimasta intatta tra le rovine».
Va però detto che la forza
evocativa delle pagine di Camilleri, della sua scrittura succulenta e piena di
umori, si manifesta con pienezza, offrendo le migliori suggestioni, nei
romanzi ottocenteschi, dove i meccanismi del complotto e della macchinazione e
gli ingranaggi tipici del giallo si sposano felicemente con la memoria storica.
A questo proposito, viene fatto di pensare che non
c’è rilevante protagonista dell’opificio letterario isolano, a partire da
Verga per arrivare a De Roberto, Pirandello, Brancati, Lampedusa, Consolo e
Sciascia, che nelle sue opere non si sia espresso fortemente «ragionando e
assai dubitando sulla Storia», per dirla con Domenico Porzio, e anche su
un’ipotesi di storia personale e di esperienza vissuta.
Leggere quindi i romanzi di
Camilleri ambientati nell’ultimo scorcio dell’Ottocento significa
comprendere qualcosa in più dei siciliani, dei loro destini, delle tracce che
nel loro DNA hanno lasciato secolari convivenze coi
normanni, francesi e spagnoli, come accade ad esempio con Un
filo di fumo (1980), dove, più che le parole, collocate
dall’autore sulla pagina in modo tale da creare un balletto scatenato, quasi
una sfrenata operetta, a prendere miracolosamente forma sono i gesti, gli
atteggiamenti, le movenze tipicamente siciliane.
Meglio ancora, in questo romanzo, che si inserisce
perfettamente nel solco delle opere generate dall’«avventura della zolfara»,
senza la quale, notava Sciascia, non ci sarebbe stata in Sicilia l’avventura
dello scrivere e del raccontare, allo scrittore di Porto Empedocle interessa far
vedere come i siciliani, veri e propri «tragediatori»,
in grado di fondere mirabilmente la vita e la scena, dicono quelle parole, come
compiono quei gesti. Tanto che il ricamo verbale di Camilleri, sin dall’inizio
della storia, lascia subito intravedere «sfumature, increspature,
impercettibili mutamenti di ritmo e di intonazione»:
sono queste le cose che per l’autore del Birraio
di Preston contano veramente, assieme
alla trama s’intende, e alle minime evoluzioni della vicenda raccontata.
Tutto ciò viene fuori grazie soprattutto alla totale oggettività narrativa che
Camilleri raggiunge in certe sue opere, come
La concessione del telefono (1998) o La
scomparsa di Patò (2001). In esse,
infatti, come ha già notato Raffaele La Capria, l’autore di La
bolla di componenda (1993) riesce ad
annullare l’io narrante, quasi a sopprimerlo, facendo esistere solamente i
fatti, il più delle volte irresistibili, e un linguaggio travolgente.
Certo, è presente, visibilissimo il coro di voci, l’esercito dei personaggi,
ma è come se fossero sovrastati, «amalgamati» scrive La Capria, dal loro
essere siciliani, dal momento che il vero, grande
personaggio che sta al centro della maggior parte dei libri di Camilleri, e che
si manifesta nel caleidoscopio delle voci del prefetto, del parroco, del barone,
del contadino e del mafioso, è la Sicilia e la mentalità dei suoi abitanti. Una
mentalità ruspante, che prende corpo nella dimensione polifonica delle opere di
Camilleri sopra citate, nelle quali la narrazione può essere condotta
attraverso un sapiente scambio epistolare, come avviene in parte nella Concessione
del telefono, nella sezione dedicata alle «Cose scritte»,
ossia le lettere che i commercianti isolani, i burocrati, i carabinieri, i
prefetti si scambiano, nelle quali l’autore sa abilmente riprodurre, con
effetti di estrema comicità, il linguaggio
burocratico tipico della Sicilia post-unitaria.
Basti leggere l’incipit
della terza lettera della Concessione:
«Eccellenza illustrissima e riveritissima! Il
sottoscritto Genuardi Filippo, fu Giacomo Paolo e fu
Posacane Edelmira, nato
in Vigàta (provincia di Montelusa),
alli 3 del mese di settembre del 1860 e quivi
residente in via Cavour n. 20, commerciante in
legnami, temerariamente s’azzardò, in data 12 giugno corrente anno, vale a
dire due mesi esatti orsono, di sottoporre alla magnifica generosità, alla
larga comprensione e alla paterna benevolenza di Vostra Eccellenza una supplica
onde venire informato…». Si tratta di un tono perfettamente accordato alla
situazione narrata, che fa subito capire come l’autore de La
stagione della caccia (1992) sappia nascondersi dietro alle parole
dei suoi personaggi, alle loro intenzioni, mimetizzandosi in tic linguistici, in
esilaranti scambi di accuse, ingiurie, in dialoghi
indiavolati. Come si evince dalle «Cose dette», presenti nella Concessione:
si tratta di conversazioni fitte di allusioni,
supponenze, doppi sensi, dai quali è possibile ricavare i modi di pensare e i
meccanismi celebrali tipici dei siciliani, le loro reazioni umorali, i loro
complici silenzi; sembra proprio che i personaggi di Camilleri agiscano e si
muovano con il cranio scoperchiato. Ecco un esempio:
«Sorprisa
sorprisa sorprisa!».
«Don Lollò! Vossia
qua?! O Madunnuzza santa!
Morto sono!».
«Signor Genuardi! Signor Genuardi!
Che fece, svenne? Acciuncò,
questo figlio di buttana! Ma
lo faccio arrisbigliare io!»
«Oddio… Oddio… Mi piglia a pagnittuna?»
«Sì, accussì si sveglia».
«Oddio… a botte mi vuole ammazzare?»
«Ma quali botte! Che è
questo feto?»
«Addosso mi cacai, commendatore. Prima di… mi
consente una preghiera? Posso recitare l’atto di dolore? Mio Dio, mi pento e
mi dolgo»…
Leggendo
questo dialogo, si ha come l’impressione di starsene a
teatro, e di assistere alla messa in scena di una commedia irresistibile. È
come se ad un certo punto Camilleri, valorizzando al massimo «il teatralismo
intrinseco della scrittura», per dirla con Nino Borsellino, infondesse la vita
ai suoi personaggi cartacei, che inopinatamente si sollevano come tanti
Lazzaro dalla pagina. Una pagina che si anima, che
diventa palcoscenico.
C’è un altro romanzo in cui
Andrea Camilleri riesce perfettamente a non farsi notare, a mimetizzarsi, a far
perdere le sue tracce: La
scomparsa di Patò, un libro scritto in forma di dossier, costruito a
incastro come un puzzle
di informazioni, in cui documenti, rapporti, lettere, per lo più anonime,
scritte murali vengono mirabilmente collazionati in un impasto narrativo ad alta
temperatura sperimentale.
Anche lì la mano dell’autore
è quasi invisibile, nonostante si avverta la presenza di un occhio ironico che
coglie ogni gesto, di un orecchio in grado di captare anche le minime sfumature;
insomma, ogni cosa viene amalgamata da una regia
sapiente che però non è mai invasiva.
Il tutto, come sovente accade,
volto decisamente al divertimento, in una mirabile summa
dei temi a Camilleri più cari. E questa particolare forza comica dell’arte
dello scrittore empedoclino riesce quasi sempre a
capovolgere il tono tragico che caratterizza gran parte della letteratura
isolana, quell’abitudine di tanti nostri autori a far indossare ai propri
personaggi, sotto le vesti della festa piene di lustrini e di paillettes,
i panni neri del lutto, come accade in Pirandello e in Brancati ad esempio. Una
forza comica che Camilleri, come ha scritto Enzo Siciliano, ha scovato sia nel
teatro, quello di Angelo Musco,
che nella storia dell’isola, nelle carte che quella storia contengono.
E il serbatoio per la ridda di
raggiri, intrighi, macchinazioni, congiure che prende
corpo nelle pagine di Camilleri, gli deriva dalla famosa Inchiesta
sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia 1875-1876
(pubblicata dall’editore Cappelli nel 1968). Si tratta dell’inchiesta
parlamentare del Senato, basata sulle dichiarazioni ufficiali rilasciate da
funzionari di polizia, prefetti, sindaci, una vera
miniera d’oro di fatti e informazioni. È da lì che lo scrittore empedoclino
ha ricavato la famosa risposta data all’interrogante che si
informava su possibili fatti di sangue verificatisi in un paesino
siciliano: «No. Fatta eccezione del farmacista che per
amore ha ammazzato sette persone».
Con Camilleri, dunque, è come
se la componente dolorosa e funesta di tante pagine
della nostra letteratura, che ci fa pensare a Verga, a De Roberto e a Tomasi di
Lampedusa, venisse ad un tratto disciolta grazie agli acidi corrosivi della sua
Musa. Una Musa che dà il meglio di sé in quello che può essere considerato il
capolavoro di Camilleri, Il
birraio di Preston (1995), vera e propria
opera buffa dal ritmo indiavolato, nella quale prendono corpo magistralmente le
attitudini sperimentali dello scrittore empedoclino, il suo saper scomporre i
tempi narrativi e far germinare, da una storia cellulare, un vasto reticolato di
storie minime, che si intrecciano splendidamente;
un’opera buffa dal superbo impianto polifonico, nella quale, come ha scritto
Gianni Bonina, sono contenute «le crisalidi» che felicemente germineranno
nelle opere successive.
Ma
la vera forza dei libri di Camilleri, il vero motore ‘mobile’
dell’intera sua produzione narrativa, che lega indissolubilmente i personaggi
e le loro storie all’universo siciliano, è il linguaggio.
Lo stesso autore, in appendice a
Il
corso
delle cose, aveva confessato il suo idiosincratico
rapporto con la lingua italiana, al punto tale da ammettere che, nella prima
stesura del libro, le parole adoperate non gli appartenevano interamente: «Me
ne servivo, questo sì, ma erano le stesse che trovavo pronte per redigere una
domanda in carta bollata o un biglietto d’auguri. Quando
cercavo una frase o una parola che più si avvicinava a quello che avevo in
mente di scrivere immediatamente invece la trovavo nel mio dialetto o meglio nel
“parlato” quotidiano di casa mia. Che
fare? A parte che tra il parlare e lo scrivere ci corre
una gran bella differenza, fu con forte riluttanza che scrissi qualche pagina in
un misto di dialetto e lingua. Riluttanza perché non mi
pareva cosa che un linguaggio d’uso privato, familiare, potesse avere valenza extra
moenia. Prima di stracciarle,
lessi ad alta voce quelle pagine ed ebbi una sorta d’illuminazione:
funzionavano, le parole scorrevano senza grossi intoppi in un loro alveo
naturale».
Ecco com’è nato il
sorprendente impasto linguistico di Andrea Camilleri:
da un’insofferenza nei confronti della lingua di tutti i giorni, e da un
recupero della pronuncia natia. Una pronuncia che annulla la distanza tra il
parlare e lo scrivere, e che distilla sapientemente gli umori più terragni
dell’isola, in un concerto polifonico dove il burocratese
dei funzionari e degli impiegati si alterna al
barocco di politici e di ecclesiastici, al dialetto dei popolani, al gergo
allusivo dei mafiosi.
Un linguaggio, quello di
Camilleri, in grado di riprodurre, per dirla ancora con Siciliano, «il
discorrere fra galantuomini nei vecchi circoli di paese, dove l’avvocato o il
pretore o il medico o il barone farcivano di sapori e lemmi dialettali il loro
italiano ora ironico, ora sprezzante», e di evocare, sorprendentemente, le
sfumature e i chiaroscuri della Sicilia, terra ricca di colpi di teatro, di
aneddoti, prodiga di ammiccamenti e controversie sottilissime.
Un impasto
linguistico di siciliano autentico, siciliano reinventato,
italiano storpiato, che miracolosamente si fa capire da tutti.
Un modo d’esprimersi inconsueto ed efficace, che, come si è visto, non vuole
fare più i conti con la lingua italiana della comunicazione. Per Camilleri,
infatti, il problema della letteratura consiste essenzialmente nella messa a
punto di un nuovo linguaggio, nel quale l’autore, in
quanto parlante, spesso scompare dinanzi alla cosa per lasciar parlare la
cosa stessa, per far sì che la parola sia la cosa stessa. Tutto ciò ha
facilitato enormemente quella ricerca dell’oggettività narrativa che, una
volta raggiunta, fa di Camilleri il grande romanziere
che è.
E in questo senso, il romanzo più
rappresentativo dell’intera sua produzione è sicuramente La
mossa del cavallo (1999), ambientato verso la fine dell’Ottocento nella
campagne e nei paesi della provincia di Montelusa,
tra Zammùt, Caltabellotta,
Comitini e Cianciana,
laddove «i reati di sangue, aperti o per mandato, per risse improvvise o per
vendette meditate, e le grassazioni e l’abigeato, e i sequestri di persona
sono continui e innumerevoli, frutto della miseria, della selvaggia ignoranza,
dell’asprezza delle fatiche che abbrutiscono, delle vaste solitudini arse,
brulle e malguardate». Una
Sicilia dell’interno, quella de La
mossa del cavallo, abbandonata da Dio e dagli uomini, arida, riarsa.
Al centro del romanzo, troviamo la figura di Giovanni Bovara, ispettore capo ai
mulini di Montelusa, un siciliano che parla genovese
e che sarà testimone dell’uccisione di un prete. Proprio
Bovara, inviso manco a dirlo al potere mafioso, verrà accusato
dell’omicidio, in un drammatico, kafkiano rovesciamento dei ruoli. Ma
l’integerrimo ispettore capo, che sa il fatto suo, reagisce ricorrendo a
una mossa imprevista, quella del cavallo appunto, grazie alla quale riuscirà ad
affermare la propria estraneità al misfatto. Una mossa che consiste
nell’abbandonare la lingua italiana e il dialetto genovese e nel recuperare il
dialetto natale, nel riappropriarsi della parlata ancestrale,
originaria, e con essa, soprattutto, della mentalità dei siciliani, del loro
modo di ragionare. È la lingua, dunque, la grande
metafora di questo romanzo storico; un romanzo che è, soprattutto, una
straordinaria dichiarazione di poetica in atto, un vero e proprio manifesto
programmatico.
Ma
qual è, viene a questo punto da chiedersi, la genesi del linguaggio reinventato
da Camilleri? Certo, il suo impasto linguistico rappresenta una
assoluta novità, distante com’è dalla ricerca linguistica quasi
archeologica di Vincenzo Consolo, dal groviglio di dialetti e lingua colta di
Stefano D’Arrigo, dal barocchismo di Gesualdo Bufalino,
dal suo viluppo verbale liberty e decadente, dal futurismo lessicale di Antonio Pizzuto.
Eppure, senza le ossessioni espressive degli autori appena
citati uno scrittore come Camilleri non sarebbe immaginabile. E però la
lingua messa a punto dall’autore del Birraio
di Preston affonda le sue radici
essenzialmente in due testi: La
paura di De Roberto, come ha sospettato Natale Tedesco, un racconto
ambientato in una trincea del ’14, dove si trovano soldati provenienti da
tutta Italia, in una situazione di estrema difficoltà,
in cui ognuno può lasciarci la pelle, e dove tutti i sentimenti, le sensazioni,
gli stati d’animo, le reazioni di fronte all’assoluto che è la morte, da
quei soldati vengono espressi e manifestati nei loro dialetti di origine.
E poi, di fondamentale
importanza, la traduzione del Ciclope
di Euripide effettuata da Luigi Pirandello nel 1918 e
quasi mai citata dagli studiosi che hanno indagato la produzione di Camilleri.
Un testo che lo scrittore di Porto Empedocle conosce a memoria, per averlo messo
in scena più volte in Sicilia, a Tindari, a
Taormina, a Siracusa, a Segesta e ad Agrigento, come
lui stesso racconta ne L’ombrello
di Noè (2002), e che puntualmente rivive, come ha scritto Mauro
Novelli nel saggio intitolato L’isola
delle voci e inserito nel Meridiano Mondadori che raccoglie i romanzi
e i racconti con al centro il commissario Montalbano, «attualizzata e
articolata, nella tastiera linguistica percorsa da Camilleri nella propria
narrativa”.
Il poema satiresco euripideo,
nella versione dialettale confezionata da Pirandello, ha lentamente agito,
macerando nella testa dell’autore della Strage
dimenticata, fino a produrre i suoi superbi frutti. In esso
si trova, da un lato, il dialetto del Ciclope, che è una specie di massaro
con la sua parlata splendidamente contadina; dall’altro, il dialetto di
Ulisse, che si muove in un livello di eleganza rusticana.
L’eroe omerico, infatti,
assomiglia a un villano impettito che voglia darsi
delle arie colorando il suo discorso di screziature borghesi, e assumendo in
certi casi quasi un accento di superiorità, denunziato soprattutto dalla
fonetica italianizzante. Un dialetto borghese, quello di Ulisse,
che attinge abbondantemente alla lingua comune e che, per questo motivo, provoca
frizioni umoristiche e grottesche, accentuate spesso dal vocabolo vernacolare
in foggia fonetica italiana o dalla parola italiana trascritta con fonetica
dialettale. Irresistibile poi si rivela l’impatto tra il tentativo di far
propria l’aulica leziosità dell’espressione italianizzante e la componente
vernacolare di certi vocaboli.
Basti prendere in considerazione
le parole con cui Ulisse, combinando insieme vocaboli e atteggiamenti sintattici
della lingua e del dialetto, compare sulla scena: «Amici, / per favuri,
vulissivu ‘nsignàricci
/ quarchi deflussu
d’acqua pi smorzàrinni / la
siti che nn’avvampa, e – peracasu
- / quarchedunu di vàutri
voli vìnniri / quarchi provista
a nàutri navicanti?».
Sono versi, questi, che sembrano
scritti direttamente da Camilleri, e che subito richiamano alla memoria le frasi
farneticanti e sconnesse di Catarella, personaggio
abnorme della fantasia dello scrittore empedoclino. Ma
andiamo avanti nella lettura del Ciclope:
«Sceccu! Quest’otri,
appena la sdivachi / si rifà china, subbitu
da sé”, e ancora: “Nni voi prima assaggiari
/ un sorsellinu?», oppure: “T’ha ‘nfilatu
per beni / il cannarozzu?”, e poi: «Se
dicu una bucìa?».
Ci si trova, dunque, di fronte a
una lingua ridicola, a una specie di caricaturale italiano sicilianizzato;
in sostanza si tratta di una lingua maccheronica, che crea situazioni altamente
comiche.
E se, accanto alle parole di
Ulisse, si collocano quelle di Catarella, si
potrà subito notare una certa, innegabile, comunanza:
«Tre giorni passati cercarono proprio lei di lei, dottori, lei non c’era, però
io me lo scordai a farle referenza»; oppure: «Dissero pure macari
che la finzione funerea la facevano giovedì matino alli
nove»; e ancora: «Mi scusasse, signori gimello
Arturo, ma se il dottori è come qualmenti
in casa, ci lo dici che ho bisogno di parlaricci? »,
e se ciò non bastasse: «Vossia
l’acconosce il loco indovi
che ci teneva il suo officio…».
L’appuntato Catarella,
in quanto esilarante e irresistibile invenzione
linguistica, è una diretta filiazione dell’Ulisse di Euripide sub
specie dialettale. Mentre la parlata del Ciclope, che sprigiona una
buona dose di espressività popolaresca, la
ritroveremo in bocca a Zosimo e agli altri personaggi del Re
di Girgenti (2001), dove il vernacolo
settecentesco, abbondantemente storpiato, si mescola con la lingua degli autori
del siglo
de oro in un libro ariostesco, dalla
vertiginosa germinazione fantastica. In esso lo
scrittore di Porto Empedocle ricrea con vera sapienza l’universo contadino
siciliano, e precisamente agrigentino,
riallacciandosi a uno scrittore come Serafino Amabile Guastella,
autore di Le
parità e le storie morali dei nostri villani, vero capolavoro della
letteratura isolana, popolato di tante figure come Michele Zosimo, e con alcune
punte barocche nella scrittura che inevitabilmente nelle pagine di Camilleri si
moltiplicano all’infinito. Da non trascurare poi l’influenza esercitata su
Camilleri da parte di Francesco Lanza, prosatore
veloce ed elegante, i cui Mimi
è come se rivivessero nell’epopea
demotica, nell’epica picaresca narrata da Camilleri. I personaggi che agiscono
ne Il
Re di Girgenti infatti, a partire da
Zosimo, hanno poco di bucolico, e sono animati dal gusto per la beffa, lo
scherno, dal gioco sottile dell’intelligenza. Addirittura, la fine che farà
Zosimo sembra per certi versi richiamare
la farsa blasfema dei cristi contadini che si consuma nei paesini siciliani il
Venerdì santo, descritta con ironia e umore beffardo da Francesco Lanza.
Immutati rimangono poi i topoi
geografici della cosmogonia camilleriana, con Montelusa
e Vigàta al centro, e poi Fiacca e contrada Crasto,
già presente nel romanzo Il
cane di terracotta.
Come si è visto dunque, la
lingua inventata da Camilleri affonda le sue radici in questa Sicilia terragna,
arcaica, che gli viene mediata tramite il filtro pirandelliano
della traduzione del Ciclope,
e che quasi sempre denuncia la necessità di identificare più concretamente gli
spazi delle azioni, di calare i personaggi e gli eventi in luoghi e tempi
specifici, sebbene parzialmente immaginari.
Facendo poi un salto temporale
di più di un secolo, si arriva alla Sicilia dei nostri giorni, scenario delle
avventure del commissario Salvo Montalbano nei romanzi polizieschi tutti editi
dalla casa editrice Sellerio, La
forma dell’acqua (1994), Il
ladro di merendine (1996), La
voce del violino (1997), La
gita a Tindari (2000), L’odore
della notte (2001), Il
giro di boa (2003) e nelle raccolte di racconti pubblicate da
Mondadori Un
mese con Montalbano (1998), Gli
arancini di Montalbano (1999) e La
paura di Montalbano (2002). Montalbano è stato definito uno degli
investigatori più «autentici»
che la letteratura poliziesca abbia prodotto: armato
di buon senso, dotato di un ottimo fiuto, il commissario di Vigàta
è uno sbirro di nascita, che ha nel sangue l’istinto della caccia e che si
nutre di «buone, talvolta raffinate letture».
Sa chi è Antonio Pizzuto, come si evince dal
racconto intitolato Miracoli
a Trieste (Un
mese con Montalbano), un «questore, capo dell’Interpol,
che di nascosto traduceva filosofi tedeschi e classici greci», «il più grande
scrittore d’avanguardia che noi abbiamo avuto»; Montalbano, inoltre, divora
i libri di Sciascia, assapora le poesie di Virgilio Giotti,
conosce Jan Potocki,
autore del Manoscritto
trovato a Saragozza.
È allergico alle armi e alle sirene, e conosce bene la natura dei siciliani e
le contraddizioni della sua terra, una Sicilia immediatamente riconoscibile, con
le sue ferite ancora sanguinanti, come la mafia, l’abusivismo edilizio, la
corruzione politica. C’è sempre la cittadina di Vigàta
al centro delle vicende narrate da Camilleri, che non ha perso la sua vocazione
al delitto e all’imbroglio. Eppure, accanto ai cadaveri, alle connivenze, alle
magagne e agli imbrogli con cui Salvo Montalbano, da poliziotto anti-istituzionale
com’è, allergico alle promozioni e sensibile alle
insubordinazioni, deve fare spesso i conti, troviamo il mare che divide la
Sicilia dall’Africa, il fascino dei luoghi, i piatti saporiti preparati da
Adelina con religioso raccoglimento, le abbuffate nelle trattorie tipiche. E poi
i membri della squadra del commissariato di Vigàta,
da Fazio ad Augello a Catarella, umanissimi antieroi
dei quali Camilleri esaspera tic e manie, riuscendone
a cavare una notevolissima forza ironica e più spesso comica, senza per questo
snaturare la propria passione civile, di ascendenza indubbiamente sciasciana, o
infrangere del tutto le regole del giallo.
E c’è da dire che, come nei
romanzi ambientati nella Sicilia di fine Ottocento Camilleri, non descrive mai
un mondo statico, immobile, ma al contrario in continua evoluzione, con
personaggi e luoghi che sono soggetti al mutamento, a
inevitabili anche se spesso impercettibili modificazioni, così nei polizieschi
con al centro la figura del commissario Montalbano ogni cosa, come ha scritto lo
stesso Camilleri, muta, «si modifica nel tempo», al contrario di quello che
accade nei gialli di Simenon. E, di romanzo in
romanzo, è cambiato soprattutto il tono dello stesso autore, il quale
è passato dall’ambientazione annacquata e rarefatta dei primi gialli, ad una
più contigua al nostro tempo, più vicina alle urgenze della cronaca e agli
ultimi guasti della storia, con al centro tutto quello che è capitato al G8. E
così come è cambiato il tono della scrittura di
Camilleri, si è visibilmente esacerbata la sua ostilità nei confronti del
governo di centrodestra, preso di mira con arguzia e somma ironia soprattutto
nelle sue ultime fatiche.
Anche nei romanzi e nei racconti
di cui il commissario Montalbano è il personaggio principale dunque, alla fine
è sempre la Sicilia la vera protagonista, coi suoi
paesaggi incantevoli, non di rado però stuprati dalla violenza e
dall’abusivismo, coi suoi personaggi memorabili, con i suoi odori forti e le
atmosfere fascinose.
Una Sicilia che sulla pagina si
materializza, come si è visto precedentemente,
grazie soprattutto alla lingua di Camilleri, a quell’amalgama succulento, che
ultimamente però, nella raccolta di racconti La
paura di Montalbano e nell’ultimo romanzo Il
giro di boa, ha risentito di quella che è stata una vera e propria
svolta nel processo di invenzione linguistica di Camilleri, ossia Il
re di Girgenti. Da
qui una patina arcaicizzante che si avverte nella scrittura dell’autore
empedoclino, quasi un furore nell’uso del dialetto, che ha reso forse un po’
più ostica la lettura. Addirittura, nell’ultimo romanzo di Camilleri, Il
giro di boa, il commissario Montalbano, avendo perso i freni
inibitori, si rivolge alla sua Livia parlando quasi
esclusivamente in dialetto. Il siciliano, in tal modo, che prima occupava solo
poche zone fisse dell’idioletto del commissario e
dei suoi uomini, come ha recentemente notato Vittorio Coletti,
viene ora ad occupare quasi tutti i piani della narrazione. È, questo, un
elemento di novità, rispetto ai romanzi del ciclo di Montalbano; lo stesso
Camilleri aveva affermato che «quando scrivo un Montalbano, io controllo anche
il linguaggio, non lo estremizzo mai, mi astengo dalle sperimentazioni
linguistiche alle quali indulgo volentieri nei romanzi storici; e questo lo
faccio per non sovraccaricare il lettore di altre
difficoltà oltre quelle della trama». Se si legge la raccolta di racconti La
paura di Montalbano o il romanzo Il
giro di boa, ci si accorge che le cose non stanno più così. E
lo stesso autore, da me sollecitato in un’intervista, ha preso atto di questo
cambiamento di direzione: «Il
re di Girgenti rappresenta una vera e
propria svolta nel mio processo di invenzione
linguistica. Devo fare una certa fatica per non tornare a
determinati moduli di scrittura messi in atto nell’ultimo romanzo. C’è
ora nella mia testa, quando mi metto a scrivere, “qualcosa che stinge” come
si dice a proposito della biancheria messa in lavatrice; me ne
accorgo continuamente, ma non posso farci nulla».
Per concludere,
in queste pagine si è cercato di prendere in considerazione Andrea Camilleri in
rapporto al suo «essere siciliano, come personaggio e come artista», come
scriveva Leonardo Sciascia a proposito di Antonello da Messina; al suo essere
siciliano «come uomo insomma la cui vita, la cui visione della vita, il cui
modo di esprimere nell’arte la vita, sono irreversibilmente
condizionati dai luoghi dagli ambienti dalle persone tra cui si trova a nascere
e a passare l’infanzia, l’adolescenza», per dirla ancora con Sciascia.
Nelle opere dello scrittore di Porto Empedocle, questo inevitabile
condizionamento esercitato dai luoghi, dagli ambienti e dalle persone è
consustanziale a ciò che viene narrato, è imprescindibile da esso. Anche se va
detto che, partendo da questo viscerale rapporto con la sua terra, l’autore di
L’odore
della notte nei suoi romanzi, soprattutto in quelli storici, ha
voluto «alimentare – come ha scritto Natale Tedesco – i segni della
diversità, sottolineare le differenze, rinsanguare e ricostituire l´identità
siciliana (un´identità impura perché riconosce il diverso, plurale, dove
rientra nel Re di Girgenti anche l´uso della lingua
spagnola), quella che permette agli scrittori siciliani di disegnare come una controstoria
del processo unitario di omologazione».
Solo così Andrea Camilleri è riuscito
a mostrare l’altra faccia della letteratura siciliana: una faccia che la lente
del pessimismo di tanti scrittori aveva deformato, trasformando il sorriso
ironico dei siciliani in un ghigno beffardo, in un’espressione maligna. A
questo proposito, è come se Camilleri avesse annullato la distanza che, secondo
Vitaliano Brancati, separa da tempo immemorabile i
siciliani orientali da quelli occidentali. I primi, capaci di
ironia, di comicità grossolana: la loro caratteristica più marcata
sarebbe quella di «sapere essere insieme personaggi e autori di commedie». I
siciliani della parte occidentale dell’isola, invece, si distinguerebbero per
la mancanza di ogni capacità di sorriso, e per la
loro naturale propensione a ragionare, a elucubrare. Nelle opere dello scrittore
empedoclino, i cavilli, le sottigliezze, «l’io e il non io», entrati come
scriveva l’autore di Paolo
il caldo dalla porta occidentale dell’isola e filtrati dalle opere
di Pirandello, convivono perfettamente con «l’inganno, la buffoneria e il
comico», arrivati in Sicilia dalla sua porta orientale. In una parola,
Camilleri non ha fatto altro che rivoltare come un guanto la tradizione
letteraria isolana: e di questo bisogna rendergliene
atto.
(da La Sicilia di
Andrea Camilleri. Tra Vigàta e Montelusa, Kalós, 2003)
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