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Andrea Camilleri: dalla semiotica psicologica alla fenomenologia dell'anima

Innanzitutto un caldo benvenuto a tutti, a tutte le autorità presenti, al Magnifico Rettore, agli illustri colleghi, signore e signori. Oggi ho avuto l’onore di pronunciare questa laudatio per il conferimento della laurea honoris causa a un grande autore della letteratura italiana contemporanea: Andrea Camilleri, uno scrittore che ho tanto letto, ma anche tanto visto. E con questo non mi riferisco soltanto alla serie televisiva dedicata al commissario Montalbano, il personaggio più noto prodotto dalla penna di Camilleri, ma anche a quelle dedicate al commissario Maigret e al tenente Sheridan, con le quali sono praticamente cresciuto e delle quali Camilleri è stato sceneggiatore e regista.
Questa laudatio, ovviamente, non ha la pretesa di fornire una valutazione letteraria o anche soltanto sociologica dell’opera di Camilleri. Entrambi questi obiettivi sono superiori alle mie competenze di semplice appassionato e di storico della filosofia. Ma c’è qualcosa che pervade l’intera opera di Camilleri e che mi interessa in modo particolare: il concetto di anima; e certo non da una prospettiva religiosa, ma da una prospettiva laica e filosofica. E il concetto di anima della tradizione filosofica equivale oggi al concetto di mente, che è ovviamente l’oggetto principale dell’indagine psicologica. Nelle sue opere l’anima non riguarda soltanto gli uomini ma è una sorta di anima mundi, di anima del mondo. Attenzione con questo non si vuol attribuire a Camilleri una fede spiritualistica. La sua fede è piuttosto naturalistica: l’anima per lui non è qualcosa di estraneo al mondo, ma è un evento del mondo simile a tutti gli altri eventi del mondo. La sua è una prospettiva empiristica con suggestioni materialistiche. L’anima è concepita come un fascio di impressioni le cui componenti razionali sono soltanto una parte del tutto. La sua concezione dell’anima è figlia di quella crisi della razionalità che ha attraversato tutta la cultura di primo Novecento. Nelle sue pagine sentiamo chiaramente l’eco di Musil, Svevo, Joyce, Pirandello, Beckett, che proprio Camilleri mette per la prima volta in scena in Italia, e ovviamente Simenon. E di questo panorama culturale ritroviamo anche alcuni tratti caratteristici come la “morte di Dio” di memoria nietzscheana e la consapevolezza esistenzialistica – soprattutto di marca francese – della fragilità della condizione umana. L’uomo è solo in parte un animale razionale. Anzi per questa cultura la razionalità potrebbe anche essere un obiettivo da non perseguire a tutti i costi. In quel periodo pittura, musica, letteratura e teatro convergevano tutti verso questa problematica, verso una marcata diffidenza nei confronti delle strutture della ragione. L’opera di Camilleri fa ancora parte di questo orizzonte culturale con la differenza che per essa la crisi della razionalità è consolidata; è ormai un’acquisizione, che sembra convertire in positivo la carica negativa di questa consapevolezza. Il nichilismo, che prima raccontava la tragicità dell’esistenza e il malessere dell’uomo, diventa invece in Camilleri la condizione indispensabile del riscatto dell’individuo rispetto alla realtà e alla storia, l’unico modus vivendi in grado di sopportarne il peso. Gli uomini raccontati da Camilleri rappresentano proprio questi uomini “nuovi”, degli antieroi non riducibili ad una mera comprensione razionale e dotati di un sano scetticismo che li protegge da ogni fanatismo e li aiuta a campare. La loro anima non è rappresentabile in una forma sistematica. Anzi le impressioni che la determinano fanno a volte a calci tra di loro. Camilleri dà grande dignità alla contingenza, all’occasionalità dell’agire umano rispetto alla dura coscienza della necessità storica o del dovere morale.
L’anima la ritroviamo stratificata a più livelli nelle scene di Camilleri: nella realtà, nella lingua, nella storia. La realtà rappresentata nelle sue opere è qualcosa di indipendente dalla volontà degli uomini, ma non è uno scenario di nature morte, bensì uno scenario animato, teatrale, sempre in movimento. L’allestimento prevalente riguarda la Sicilia, e la sicilianità è un riferimento costante dell’opera di Camilleri. Per lui l’essere siciliano non deve per forza coincidere con un’accettazione fatalistica degli eventi. Nella sua opera si respira sempre un pacato ottimismo, rotto soltanto dalla dea sfortuna, proprio quella che accompagna la nostra vita di tutti i giorni. La Sicilia è la realtà e la sicilianità è il modo – attenti: cangiante nel tempo, ma sempre riconoscibile – di vivere questa realtà. Io direi che il realismo di Camilleri è un realismo di natura espressionistica. Esiste una realtà indipendente da noi, ma questa vive e si colora della sfera emotiva della persona che la osserva e che la vive effettivamente. E’ straordinario come nei romanzi di Camilleri si dispieghino diverse realtà, a seconda dei diversi stati emotivi dei personaggi, che alla fine si incastrano in un puzzle – ovvero la realtà oggettiva – la cui composizione alla fine non dipende nemmeno più dall’autore che ne ha saputo ordire il disegno. Questa simbiosi, in forma di puzzle espressionistico, tra la realtà oggettiva e la sfera soggettivo-emotiva è a mio parere una delle grandi chiavi di lettura della produzione di Camilleri. Non solo il famoso Montalbano, ma anche gli altri protagonisti dei suoi romanzi sono interessati a scovare, a osservare le emozioni che accompagnano quella realtà più che la realtà stessa nel tentativo di stabilire quel gioco prospettico che l’ha determinata. I fatti sono espressioni di sentimenti e non soltanto la loro causa: l’interazione tra le due sfere è continua.
Camilleri ci racconta la vita e per farlo si appoggia più alle emozioni che ai ragionamenti. Non che Camilleri non sia un difensore della ragione: nei suoi gialli la ricostruzione della scena del crimine è puntuale e viene ripercorsa quasi ossessivamente dal protagonista. Ma, come ho accennato prima, Camilleri è un autore che ha ruminato e digerito la crisi della razionalità. La sua narrazione prende spunto da fatti, suggestioni storiche motivate non sempre da istanze razionali. Così anche nelle indagini di Montalbano – non me ne voglia l’autore se faccio riferimento sempre al suo personaggio più famoso – la miccia che orienta verso la soluzione del giallo non è mai frutto della ragione, ma di un’emozione guidata dalla ragione. L’intuizione di Montalbano non è mai il frutto di un calcolo razionale come accade per esempio con Sherlock Holmes, ma viene occasionata da uno stato d’animo, da un’emozione – rabbia, compassione, pietà ecc. – e procede almeno apparentemente secondo una consequenzialità un po’ strampalata, anche questa fatta di sensazioni, emozioni e non soltanto di ragionamenti. Il calcolo delle ipotesi in Camilleri si alimenta per intuizioni e queste sono prodotte da impeti emotivi, da una sorta di empatia, di complicità passionale del protagonista con le emozioni che hanno provocato il fatto o misfatto oggetto della sua indagine.
Il rapporto di Montalbano con la buona tavola è uno dei tanti esempi di quanto sia importante la componente emotiva-passionale nell’agire dell’anima. L’obiettivo non è la mera nutrizione, ma il mangiare bene, che è un rito per chi lo consuma, ma anche per chi lo produce, si pensi alla preparazione degli arancini che dura due giorni. Ma il mangiare bene non è soltanto soddisfazione di un desiderio e momento di relax, è anche e soprattutto momento di riflessione. Montalbano non ama avere commensali e quando li ha impedisce loro di parlare. Il mangiare bene diventa pensare, è una specie di ruminare proprio come lo intendeva Nietzsche. La fisicità si mescola con il pensiero.
Proprio la presenza estesa nella produzione di Camilleri di questa cultura materiale (il buon vino, la buona tavola, lo sport ecc.) - che tra l’altro è segno inconfondibile non solo di sicilianità, ma anche di italicità - mostra la materialità dell’anima che Camilleri persegue nella sua scrittura. Ed è proprio per questa sua natura materiale che il corpo la può indagare. Se anima e corpo fossero sostanze completamente diversi, il comportamento non potrebbe rivelarci le emozioni e queste non potrebbero rivelarci l’anima attraverso un percorso fenomenologico di disvelamento delle sue forme che ci appaiono e che al tempo stesso ce la nascondono. Ma queste apparenze per Camilleri non sono accidentali, ma fanno parte anch’esse della natura dell’anima.
Il cane di Terracotta è uno dei tanti esempi della natura emotiva della narrazione di Camilleri. Montalbano viene distratto da un caso importante riguardante il traffico di armi perché la sua attenzione viene attratta da un caso del passato che ha poco valore per il presente, se non per lui e per pochi altri: la morte e il seppellimento di due innamorati. Camilleri si dichiara autore di romanzi storici, anzi civili, ma dice giustamente che il giallo è una palestra ottima per qualsiasi autore che voglia imparare a scrivere perché c’è uno schema da seguire. Come dimostra di nuovo il Cane di Terracotta il giallo è il modo per tenere insieme tutti i romanzi che Camilleri sa narrare e suggerire all’interno dello stesso contesto narrativo. La trama è inflessibile, ma il protagonista si perde nei mille rivoli della vita quotidiana; e ognuno di questi rivoli genera la sua propria storia. Camilleri ama definirsi un “cantastorie” e infatti ogni suo libro giallo è l’intersezione di storie diverse, non sempre necessariamente connesse allo schema principale. Ci sono romanzi costanti – come il rapporto di Montalbano con il collega Augello o con la fidanzata Livia – e romanzi legati all’occasione del racconto. Il pathos del lettore viene continuamente e sapientemente spostato da Camilleri dal giallo ai romanzi in esso contenuti o viceversa, secondo una dinamicità che consente di aprire scene narrative diverse all’interno della scena principale.
La narrazione di Camilleri è una narrazione che procede a strati. Prendiamo di nuovo ad esempio il commissario Montalbano. E’ la sua squadra che fa il lavoro di manovalanza, che ricerca le informazioni e che in qualche modo copre la goffaggine del commissario nelle cose pratiche. Mentre Montalbano mette insieme gli indizi che gli permettono di risolvere il caso affidandosi all’istinto, a un’emozione piuttosto che a un calcolo. Ciò che noi ammiriamo in lui sono le sue capacità cognitive, la sua capacità di penetrare nella mente degli altri attori. C’è una grande affinità tra il romanzo poliziesco e la storia della filosofia. Rainer Specht, un mio maestro diceva sempre a lezione che un buono storico della filosofia deve essere innanzitutto un buon detective: deve scovare chi ha prodotto un’idea, quali complici ha avuto nel produrla, qual era il contesto al momento della sua produzione. I ragionamenti controfattuali utilizzati da Montalbano sono esattamente gli stessi di quelli usati nella ricerca filosofica.
Sulla lingua che esprime questa realtà Camilleri ha lavorato molto e direi anche in modo maniacale. La lingua rappresenta il punto d’incontro tra la realtà oggettiva e la sfera soggettivo-emotiva e perciò deve saper trasmettere non soltanto i significati, ma anche le emozioni e queste sono soggettive com’è soggettiva la tradizione di ognuno che le esprime. A Camilleri ha certamente giovato la competenza acquisita nei diversi modi di comunicazione: la narrazione, il teatro e la televisione. Ma soprattutto il teatro. La lingua di Camilleri è una lingua che si affina nel teatro, soprattutto con l’insegnamento di Orazio Costa all’Accademia e nella straordinaria esperienza di lavoro vissuta con Eduardo De Filippo.
I colori della realtà di Camilleri sono determinati dalla lingua e mi riferisco ai dialetti inventati da lui per narrare le sue storie. La lingua descrive la realtà e facendo questo si lascia interpretare dal sistema emotivo-razionale dell’attore. I colori della realtà di Camilleri sono pennellati con le strutture linguistiche che fungono da cerniera tra la soggettività e la realtà. In un saggio famoso del 1772 dedicato al tema dell’origine del linguaggio Johann Gottfried Herder scriveva che in una lingua sono sedimentati il sangue e le membra di un popolo. Mi sembra che per Camilleri valga lo stesso. La lingua è la chiave di accesso alla realtà perché già contiene i codici per interpretarla. La lingua è la cerniera tra una realtà indipendente e a volte anche ostile e il complesso razionale-emotivo del soggetto che vede e parla di questa realtà. Per Camilleri il linguaggio è un fenomeno con una precisa collocazione spazio-temporale e sono proprio le coordinate di spazio e di tempo ad avvicinare la lingua a una realtà che ha la medesima collocazione spazio-temporale. Una concezione purtroppo obsoleta dell’ermeneutica dice che per comprendere un’autore bisogna pensare le stesse cose che ha pensato lui. Bene Camilleri crede che l’uso del dialetto nella scrittura e nella lettura ci consenta proprio questa immedesimazione preventiva nel contesto oggetto della narrazione. La conoscenza della lingua offre una sorta di precomprensione senza la quale sarebbe impossibile afferrare il senso profondo della realtà e delle storie che l’attraversano.
Ma nell’opera di Camilleri la lingua è importante anche per un altro aspetto: essa contribuisce all’evolversi dell’azione e alla produzione dei personaggi. Camilleri non descrive i personaggi, non ci racconta le loro credenze e il loro stato emotivo. Questi elementi risultano tutti dal fare, dal comportamento degli attori dei suoi romanzi. I suoi personaggi nascono dallo svilupparsi dei dialoghi che hanno una loro logica interna e contingente e non sono una semplice deduzione da una descrizione preliminare del loro carattere e della loro mente. Noi possiamo capire la mente di un personaggio soltanto dal suo comportamento e in modo particolare dal suo comportamento linguistico. Segni naturali e segni arbitrari determinano sempre il significato delle scene dei romanzi di Camilleri. La lingua non ha soltanto una funzione descrittiva, ma anche e soprattutto una funzione performativa. E’ un atto, un fare. E la lingua nelle sue opere contribuisce insieme all’autore a dar forma al romanzo, che nel farsi acquisisce una sua vita propria, indipendente dal suo stesso autore. Una prospettiva questa in cui è facilmente riconoscibile anche il tema pirandelliano dei personaggi orfani del loro autore.
Comunque per Camilleri è soltanto dal segno che possiamo risalire a quel complesso di significati che costituisce la nostra mente. Il comportamento, e in particolare il comportamento linguistico, rappresenta l’unico mezzo per arrivare a determinare la mente dei protagonisti. La filosofia di Camilleri si presenta come una ricerca fenomenologia dell’anima che parte dai segni naturali, cioè il mondo delle cose fisiche, e dal linguaggio, ovvero il mondo dei segni arbitrari. Ma il suo obiettivo è sempre quello di voler afferare ciò che c’è dietro tutti i segni e che li riempie di significato, ovvero l’anima. Proprio la lettura dei segni costituisce l’accesso ai labirinti della mente e la bussola per potersi orientare in essi.
Sarebbe stato legittimo credere che la forte localizzazione linguistica avrebbe penalizzato la diffusione dei suoi libri e infatti proprio Camilleri ricorda spesso che Sciascia, scettico riguardo alle sue scelte linguistiche, gli chiese: “ma chi ti leggerà?”. L’incredibile successo ottenuto ha mostrato che la sua scelta, invece, è stata una scelta giusta. Le ragioni del fenomeno Camilleri sono certamente tante, ma una di queste credo sia proprio la presenza dell’anima nella sua opera. I nostri tempi, pervasi da un consumismo nichilistico e caratterizzati da una depressione dei valori, hanno bisogno proprio di più anima e di un autore come Andrea Camilleri che sappia raccontarcela.

Luigi Cataldi Madonna

Laudatio in occasione del conferimento della Laurea Specialistica Honoris Causa in Psicologia Applicata, Clinica e della Salute (indirizzo Psicologia Applicata all’Analisi Criminale) ad Andrea Camilleri, L'Aquila, 3 maggio 2007


 
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