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Gramsci, Pirandello e un lapsus rivelatore

Come si sa, dal 13 gennaio 1916 al 16 dicembre 1920, Antonio Gramsci è stato il critico teatrale dell’Avanti!. Ha avuto modo così di vedere, tra le innumerevoli altre, ben undici messinscene di testi di Luigi Pirandello, alcuni dei quali fondamentali per la comprensione della sua drammaturgia. Vale la pena di ricordarne i titoli: Pensaci, Giacomino; Liolà (in dialetto), Così è (se vi pare), Il Piacere dell’onestà, ‘A Birritta cu i ciancianeddi (naturalmente in dialetto), Il Giuoco delle parti, L’Innesto, La Ragione degli altri, Come prima meglio di prima, Tutto per bene e l’atto unico Cecè. Peccato che non potè assistere alla rappresentazione dei Sei personaggi nel 1921, ma in quell’anno il politico Gramsci era in altre faccende affaccendato: infatti, in quello stesso 1921, il suo giornale, “L’Ordine nuovo” sarebbe diventato quotidiano e poi ci sarebbe stata la scissione durante il diciassettesimo congresso del P.S.I, a Livorno, che avrebbe dato origine, per opera di Gramsci e Bordiga, al Partito comunista d’Italia. Negli anni immediatamente successivi, Gramsci soggiornò molto all’estero, e poco dopo il suo rientro in Italia, venne, nel 1926, arrestato e, nel 1928, condannato dal Tribunale speciale fascista a 20 anni e 4 mesi di reclusione. Morì nel 1937 poco tempo dopo essere stato rimesso in libertà non certo dietro sua domanda di grazia.
L’approccio di Gramsci a Pirandello è dunque in un certo senso un approccio privilegiato, da spettatore e non da lettore, da critico militante insomma, e va detto come, a conti fatti, siano stati i critici teatrali, da Silvio D’Amico ad Alberto Cecchi, i primi a cimentarsi in una decifrazione, anche discutibile se si vuole, ma sempre intelligente, della complessità del mondo pirandelliano.
Perché il teatro si realizza, si compie e si conclude solo nell’atto della recitazione di fronte al pubblico, non è “un prodigio che si appaga di sé”, come assai più tardi dirà un personaggio dello stesso Pirandello, il mago Cotrone, e tanto meno può essere recepito con la sola lettura del testo, del copione a stampa.
Se il teatro lo si legge e non lo si vive in comunione con gli altri spettatori in quell’evento conclusivo che è la rappresentazione, il copione teatrale fatalmente rimane un’indicazione a volte sommaria, monca e perfino incerta, per quanto l’autore possa inzepparlo di didascalie che descrivano minutamente i caratteri fisici e no dei personaggi, le scene, i costumi, i movimenti, gli atteggiamenti. Il teatro va giudicato solo ascoltandolo e vedendolo.
E forse questo spiega l’atteggiamento negativo verso Pirandello dei letterati e degli studiosi della stesso periodo nel quale Gramsci faceva il critico teatrale, da Renato Serra (il quale arrivava a negare forma d’arte al teatro) a Benedetto Croce che frequentatore di teatri certamente non era.
Scriveva Croce nel 1935, un anno prima della morte di Pirandello, quasi a consuntivo: tenendo presente il modo sorprendente e capzioso con cui i suoi drammi si presentano perfino coi loro titoli fuori dal comune, ben s’intende un giudizio che ha avuto occasione di darne il famoso industriale americano Henry Ford. “Io non sono competente”-disse il Ford-“in fatto di letteratura, però sono dell’opinione che con lui si possa fare un affare eccellente /…/ ragione per cui si è in me radicato il proposito di finanziare una sua tournée in America. Voglio dimostrare che con lui si possono guadagnare milioni. Che Croce si avvalga di questo aneddoto commerciale per demolire il teatro di Pirandello dimostra sostanzialmente la scarsissima considerazione, fino a toccare un malcelato disprezzo, che aveva per il drammaturgo. E per quanto riguarda il novelliere e il romanziere, basterà citare queste altre sue righe:
Certo, le sue novelle e romanzi offrivano una profusione di avventure e di caratteri studiati con cura e non senza ricerca di effetti cupi o grotteschi, Ma è anche vero che non avevano molta originalità di sentimento e di stile, ed erano, più che altro, una prosecuzione, alquanto in ritardo, dell’opera della scuola veristica siciliana.
A sentirsi intruppare nel verismo o naturalismo che sia, cosa che del resto Serra in precedenza aveva fatto con molta superficialità, Pirandello, e a ragione, reagisce con estrema durezza. “La mia arte non ha nessun collegamento con il naturalismo!”- proclama con autentica ira in una conferenza a New York e taccia Croce di ottusità.
Piccolissima parentesi. Se non l’ottusità, almeno l’ostinata, pervicace incomprensione continuerà a persistere fino ai nostri giorni. Nella introduzione al “meridiano” Mondadori che raccoglie tutti i saggi e gli interventi di Pirandello, il curatore, Ferdinando Taviani, ne propone un’ampia scelta. Da Gianfranco Contini che parla di “gracilità di pensiero”, di “grande abilità avvocatesca”, di “fatua metafisica” a Cesare Garboli che dichiara “ho sempre considerato Pirandello un caso di ipertrofica intelligenza media, se è lecito il paradosso: qualcosa di simile al fortunato, anonimo titolare di un brevetto, quando l’invenzione è già una merce usata da tutti” e rincara la dose asserendo che la scrittura di Pirandello è in tutto simile a quella dei verbali di polizia, per concludere con Elsa Morante che si propone addirittura di “redimerlo” dai salotti borghesi. All’elenco di Taviani si potrebbe aggiungere almeno il nome di un altro raffinato poeta e critico come Sergio Solmi, il quale asseriva, addirittura già dal 1925, che Pirandello era “tagliato su misura per la intelligenza della media e piccola borghesia italiana cui forniva con poca spesa e poco fatica di cervello, gli ultimi figurini della corrente stagione culturale”.
Chiusa la parentesi, torniamo a Gramsci, inizialmente prendendo in esame due sue recensioni che riguardano Così è (se vi pare), che è considerato uno dei suoi testi maggiori, e Liolà, che forse per il peccato originale d’essere stato scritto e recitato in dialetto siciliano (anzi, nella parlata girgentana) viene da quasi tutti i critici di allora sottovalutato. La stroncatura del Così è (se vi pare) è acuta, motivata, lunga, senza remissione, perché poggia su di una precisa e lucida idea gramsciana di teatro. Scrive: I tre atti di L. Pirandello sono un semplice fatto di letteratura, privo di ogni connessione drammatica, privo di ogni connessione filosofica: sono un puro e semplice aggregato meccanico di parole che non creano né una verità né un’immagine. L’autore li ha chiamati parabola:l’espressione è esatta. La parabola è un qualcosa di misto tra la dimostrazione e la rappresentazione drammatica, tra la logica e la fantasia. Può essere mezzo efficace di persuasione nella vita pratica, è un mostro nel teatro, perché nel teatro non bastano gli accenni, perché nel teatro la dimostrazione è impersonata in uomini vivi, e gli accenni non bastano più, e le sospensioni metaforiche devono scendere al concreto della vita, perché nel teatro non bastano le virtù dello stile per creare bellezza, ma è necessaria la complessa rievocazione di intuizioni interiori profonde di sentimento che conducano a uno scontro, a una lotta, che si snodino in un’azione. Detto ciò, Gramsci loda la “molta abilità scenografica” e la “vivacità e abilità dialogica” degli attori. Di tono completamente opposto è invece quello che scrive a proposito di Liolà. Dopo aver premesso nelle prime due righe che la commedia non ha avuto successo, afferma che si tratta forse della “migliore delle commedie che il teatro dialettale siciliano sia riuscito a creare” e prosegue spiegando le ragioni dell’insuccesso perché “non finisce secondo gli schemi tradizionali, con una buona coltellata, o con un matrimonio /…/ ma non poteva finire che così come è, e pertanto finirà con l’imporsi”. Detto ciò, passa all’esame del testo, esame che cito solo in parte: Liolà è il prodotto migliore dell’energia letteraria di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a spogliarsi delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello è un umorista per partito preso, ciò che vuol dire che troppo spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a sommergersi in una palude retorica /…/ e di molta verbosità inutile. Anche Liolà è passato per questo stadio, e allora esso si chiamava Mattia Pascal /…/ In seguito Pirandello ha ripensato alla sua creazione, e ne è venuto fuori Liolà /…/ una commedia che si riallaccia con l’antica tradizione artistica popolare della Magna Grecia /…/ di cui tanta parte è pure rimasta nella tradizione paesana della Sicilia odierna /…/ E’ un’efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la vita, è bella, il lavoro è un’opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe da tutta la materia organica. Mattia Pascal, il malinconico essere moderno, l’osservatore della vita volta a volta cinico, amaro, melanconico, sentimentale, vi diventa Liolà, l’uomo della vita pagana, pieno di robustezza morale e fisica, perché uomo, perché se stesso, semplice umanità vigorosa. La commedia, in sostanza, viene a coincidere con quell’idea di teatro che Gramsci ha esposto recensendo Così è (se vi pare).
Vorrei aggiungere due considerazioni a quanto scrive Gramsci a proposito di Liolà. La prima è che vide giusto quando parlò di “efflorescenza di paganesimo naturalistico”, non è un caso infatti che la commedia venne la seconda sera tolta dal cartellone per la violenta ostilità dei giovani cattolici torinesi capeggiati dal critico teatrale di un giornale vicino alla curia. La seconda, assai più rilevante, è quella che i critici di allora furono quasi tutti ostili, da Domenico Oliva a Domenico Lanza, a Eugenio Checchi (che dichiarò di non averci capito nulla forse per colpa del dialetto) e che nessuno di loro men che mai notò il cordone ombelicale, la connessione diretta tra il capitolo IV del romanzo “Il fu Mattia Pascal”, edito nel 1906 e la commedia di dieci anni dopo. Segno di una loro conoscenza di Pirandello semmai limitata alla sola drammaturgia pirandelliana, il che è grave dato che il rapporto tra narrativa e teatro in questo autore è strettissimo, continuo e ricco di mutamenti, variazioni, ripensamenti. Come nel caso appunto di Mattia Pascal-Liolà così acutamente notato dal critico dell’Avanti!.
Ma dalla rimeditazione su Pirandello che Gramsci fa negli anni del carcere, comprese in un capitolo a parte del volume che venne intitolato “Letteratura e vita nazionale”, emerge tra le tante almeno una straordinaria e illuminante indicazione propriamente registica, propriamente da interpretazione registico- attoriale, puntualmente disattesa dai registi negli anni successivi. Si trova nel sottocapitolo intitolato L’”ideologia” pirandelliana e direttamente discende dalle considerazioni fatte anni prima nella recensione di Liolà. Gramsci a un certo momento si domanda se i punti di vista esposti da alcuni personaggi di Pirandello, quelli considerati più filosofici, più capziosi, siano d’origine libresca e colta oppure rappresentino un qualcosa di presente nella vita stessa, nella cultura del tempo, anche in quella popolare di grado infimo. E si risponde facendo una comparazione tra i drammi in dialetto, popolari, e quelli in lingua che rappresentano un milieu borghese di tipo nazionale. “Ora pare -scrive- che, nel teatro dialettale, il pirandellismo sia giustificato da modi di pensare “storicamente” popolari e popolareschi, dialettali; che non si tratti cioè di “intellettuali” travestiti da popolani, di popolani che pensano da intellettuali, ma di reali, storicamente, regionalmente popolani siciliani, che pensano e operano così, proprio perché sono popolani e siciliani. Se questo si dimostrasse, tutto il castello del pirandellismo, cioè dell’intellettualismo astratto del teatro pirandelliano crollerebbe.
La stessa considerazione andrebbe fatta, suggerisce più o meno direttamente Gramsci, anche per le commedie borghesi, ed è chiaro qui il riferimento alla messinscena de ‘A Birritta cu i ciancianeddi, “dove” -come scrive il recensore- “ continua la rappresentazione esemplificata delle contraddizioni tra l’essere e il voler essere, tra l’apparenza e la realtà, tra l’immagine e il vero”, ebbene, malgrado tutto questo bric a brac di apparente cerebralismo, la recitazione di Angelo Musco faceva sì che “la vita fosse solo nell’interprete, che riesce a superare il tedio delle lunghe parlate”. Torno a ripetere: una precisa indicazione per registi e attori su come interpretare scenicamente Pirandello, come dirlo, come proporlo con estrema semplicità e naturalezza.
A chiarimento del popolano naturaliter pirandelliano, ripropongo una sorta di testimonianza già da me raccontata nel libro “Il Gioco della mosca”. Peppi Nicotra, scaricatore del porto del mio paese, si sposò con una giovanissima e bella ragazza, Giovanna. Una settimana dopo il matrimonio, Peppi venne arrestato perché aveva ucciso un uomo nel corso di una lite d’osteria. Fu condannato a dieci anni di carcere. Giovanna abitava in una casetta, nella periferia del paese, che Peppi aveva fabbricata con le sue mani e che aveva una finestra allato alla porta d’ingresso. Passato un anno, Giovanna cominciò a ricevere le visite notturne di diversi uomini. E di questa condotta della moglie Peppi venne informato in carcere. Scontata la pena e rimesso in libertà, tutti si aspettavano che avrebbe vendicato l’offesa uccidendo, se non gli amanti che in verità erano un po’ troppi, almeno la moglie. Invece Peppi andò a vivere in casa di sua madre come se niente fosse successo. Poco dopo si sparse la voce che aveva ripreso a frequentare, nottetempo, Giovanna, trattandola però non da moglie, ma come tutti gli altri, da compagna occasionale. E decadde dalla considerazione di tutti. Senonchè un giorno uno dei più autorevoli cittadini, anche lui frequentatore di Giovanna, volle avere da Peppi una spiegazione del suo comportamento. E quello tranquillamente rispose:
“Io a Giovanna non me la potei godere come moglie, poco tempo passò tra il matrimonio e il carcere. Quando uscii, mi tornò desiderio di lei. E una notte l’andai a trovare. Tutto qua. Però io entro dalla finestra”.
“E che vuol dire?”
“Dalla porta entrano i mariti, o no?”
“Certo. Da dove dovrebbero entrare?”
“E io invece ogni volta entro dalla finestra, come un amante. Voi che entrate dalla porta per andarla a trovare, siete i mariti, io sono l’amante.
Sono io che vi faccio cornuti a tutti”.
Venne riabilitato. Inutile dire che Peppi del suo compaesano Luigi Pirandello mai aveva inteso parlare.
Aggiunge Gramsci: In Pirandello abbiamo uno scrittore “siciliano”, che riesce a concepire la vita paesana in termini “dialettali”, folcloristici /…/ che nello stesso tempo è uno scrittore “italiano” e uno scrittore “europeo”. E in Pirandello abbiamo di più, la coscienza critica di essere nello stesso tempo siciliano, italiano ed europeo, ed è in ciò la debolezza artistica del Pirandello, accanto al suo grande significato “culturale”/…/ Questa contraddizione, che è intima nel Pirandello, ha esplicitamente avuto espressione in qualche suo lavoro narrativo (in una lunga novella, mi pare “Il Turno”, si rappresenta l’incontro tra una donna siciliana e un marinaio scandinavo, tra due “province” così lontane storicamente).
Coscienza critica, scrive Gramsci, di essere siciliano, italiano, europeo.
A metà degli anni settanta, si tenne a Cuneo un grande convegno di studi pirandelliani, al quale parteciparono filosofi, letterati e gente di teatro e il cui tema era “Pirandello e la coscienza infelice”. La coscienza critica gramsciana era diventata tout court hegelianamente infelice. Ma a metà degli anni settanta anche in Italia era già nota la lettura innovativa di Hegel da parte di Alexandre Kojève, fatta alle soglie degli anni ’40 nella parigina Ecole Pratique des Hautes Etudes, lettura che apriva le porte, tra l’altro, all’esistenzialismo, di quell’esistenzialismo che qualcuno asserì non essere altro che il “disinganno di un hegeliano”. Gramsci forse lo pensa, che quella coscienza critica sia meglio definibile come coscienza infelice, ma non osa spostare il busto di Hegel dallo scaffale filosofico a quello letterario, i tempi non sono ancora maturi. Ed è forse anche da questa mancata sostituzione dei due termini, infelice al posto di critica, che nasce il lapsus che avrete notato. Perché la lunga novella citata da Gramsci non si intitola Il Turno, ma Lontano. E’ certo la novella più ampia tra tutte le “Novelle per un anno”, ed è l’acuta, dolorosa indagine narrativa su una presenza-assenza, su un non-esserci, su un sopravvivere solo fisico in vista di un ricongiungimento che possa restituire essenza, corpo, identità e che alla fine non avverrà perché non può più avvenire. La novella venne edita per la prima volta nel 1915 in un volume che comprendeva anche il romanzo breve Il Turno già edito nel 1906. Ma non credo che sia stato solo questa contiguità delle due opere a determinare il lapsus. Già c’è da chiedersi perché Pirandello, sempre così attento nel dosaggio delle novelle che andavano a costituire le diverse raccolte in volume, abbia voluto mettere insieme questi due lavori in apparenza così distanti, tanto che lo stesso autore definisce “triste” la novella Lontano e “gajo, se non lieto” il romanzo Il Turno. In verità, a saperlo leggere, solo la superficie del romanzo appare gaia, ma appena si va in profondità, anche in poca profondità, il paesaggio cambia. La storia è quella di un padre, Marcantonio Ravì, che per fare la felicità della figlia Stellina organizza un piano, un turno appunto, che consiste nel darla prima in sposa al decrepito e ricco Diego Alcozer il quale, si badi, ha già seppellito quattro mogli, e quindi, dopo la sicura, vicina morte del vecchio, far risposare Stellina, ormai ricca, con Pepè Alletto, un nobile di provincia. Senonchè un seguito di circostanze scompaginerà il turno, dopo Diego Alcozer Stellina sarà costretta a sposare il cognato di Pepè Alletto, l’avvocato Ciro Coppa che ne farà la sua schiava. E solo dopo che l’avvocato è morto, Pepè Alletto, forse, potrà tornare a candidarsi come marito di Stellina.
In realtà, a leggerlo con gli occhi d’oggi, anche questo romanzo, come il racconto, è la storia di un’assenza contornata da troppe presenze.
L’assenza è quella di Stellina, che certo è presente di corpo con tutta la sua bellezza, ma che è completamente impossibilitata a manifestare la sua volontà di donna, di persona. Viene messa fin dall’inizio nella condizione di non poter scegliere, di non poter esprimere una qualsiasi sua volontà, è una merce di scambio, un oggetto da far passare da uomo a uomo secondo un turno prestabilito. E anche se il caso farà saltare il turno, a lei non verrà mai data voce in capitolo, dovrà sempre continuare a camminare sulla strada che le è stata segnata. Avrà certo qua e là delle piccole ribellioni, ma sporadiche, occasionali. E sempre più prenderà coscienza della sua infelicità, della sua coscienza infelice, tanto che a un certo momento manifesterà il proposito di un’assenza definitiva: quella di andarsi a chiudere in un convento.
Sono convinto che a determinare il lapsus sia stata quindi non la contiguità fisica dei due scritti ma la contiguità di due vite condizionate dall’assenza: quella di Lars Cleen, lo svedese spiaggiato a Porto Empedocle e quella di Stellina, la giovane di Agrigento, “triste cittaduzza moribonda”, come la definisce Pirandello, dalla quale si vede lo stesso mare che lo svedese Lars va a guardare passeggiando lungo il molo, nell’attesa vana di una nave che lo riporti in patria.
Solo che per scoprire il senso vero del Turno, oltre la sua apparente gaiezza, servivano occhi acuti e soprattutto capaci di guardare lontano, fino al modo odierno di leggere Pirandello.
Occhi che, per sua fortuna o disgrazia, Gramsci possedeva.

Andrea Camilleri

Lectio Magistralis in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa in Filologia Moderna, Chieti, 12 novembre 2007


 
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