La musica nei libri di Andrea Camilleri
"La musica che mi ha seguito per tutta la vita è il jazz. Per quanto riguarda la musica classica, non la conosco molto. O meglio la conosco quel poco che basta per servirmene nei libri. Per esempio, per ciò che riguarda Mozart nel "Birraio di Preston", quella pagina nasce da un’esperienza personale. Mi capitò di trovarmi nelle stesse condizioni del falegname mentre facevo la regia televisiva a Bologna del "Flauto magico" di Mozart. Ascolto musica moderna, ma non leggera, mi piacciono Berg, soprattutto il suo Wozzeck, e Schönberg, ma anche Giacinto Scelsi, di cui cerco di decrittare il senso delle cose. Lo ammetto ho gusti rognosi, che non sono quelli di Montalbano. Amo la musica, ma non mi sento un grande cantante.” Andrea Camilleri. "Dopo manco cinco minuti che l’orchestra sonava e i cantanti cantavano, a mia sicuramente mi principiò una febbre àuta. U cori mi batteva forti, ora sentiva càvudo càvudo ora friddo friddo, la testa mi firriava. Didopu, come si fossi addiventato un palloneddro di acqua saponata, di quelli liggeri e trasparenti che i picciliddri fanno per jocu con una cannuzza, accominzai a volare. Sissignura, a volari. Cillenza, mi deve crìdiri: volava! E prima m’apparse il triatro da fora, poi la piazza cu tutte le persone e l’armàla, po’ la citate intera ca mi parse nica nica, poi vitti campagni virdi, li sciumi granni do Nord, li deserti gialli ca dìcino che ci sono in Africa, poi tutto il mondo istesso vitti, una palluzza colorata come a quella che c’è dintra a l’ovo. Dopu arrivai vicino a u suli, acchianai ancora e mi trovai in paradisu, con le nuvole, l’aria fresca pittata di blu chiaro, quarche stella ancora astutata. Poi la musica e lu cantu finero, io raprii gli occhi e vitti che dintra o triatro era arrimasto solo. Non aveva gana di nèsciri di fora, ancora dintra di mia sentiva la musica. Pigliai sonno e m’arrisbigliai, svenni e arrivenni, arrisi e chiangii, nascii e murii, sempre con quella musica che sonava dintra di mia. U jornu dopu, che ancora pativo di febbre, spiai al signor Marsan d’insignarmi a sonare il flauto, e lui lo fece. Questo è quanto, cillenza. Dopu quella jurnata io vado a sentiri musica e òpire, piglio macari il trenu e cerco, cerco sempre senza truvare mai." "Che hosa cercate?" domandò il prefetto che senza rendersene conto si era alzato in piedi. "Una musica, cillenza, che mi facesse provare la stessa felicità, ca mi facissi vìdiri com’è fatto u cielu." "Il Birraio di Preston", pag.171
"Il cane di terracotta" Sellerio editore, XII ed. 1998 pag.65 "Poi, picca a picca, gli può tornare a mente qualche dettaglio che ha visto, registrato nella memoria, ma messo da parte come cosa che non è importante. Faccio qualche esempio: una finestra aperta o chiusa, una rumorata, che so, un fischio, una canzona, una seggia spostata, un’automobile ch’era dove non doveva essere, una luce che s’astutava.. Cose così, dettagli, particolari che finiscono con l’avere importanza estrema". pag.100 "Mi perdoni, certamente lei ignora il tenore della telefonata". "Non solo non ignoro il tenore, ma conosco anche il baritono, il basso e la soprano!". pag. 148 Il retrobottega era un meraviglioso cafarnao di grammofoni a tromba, macchine da cucire preistoriche, presse da ufficio, quadri, incisioni, vasi da notte, pipe. pag. 219 Montalbano spense il televisore, si mise a fischiettare la numero otto di Schubert, l’"Incompiuta". Gli venne benissimo, azzeccò tutti i passaggi.
pag. 249 Arrivarono alla piana verso le tre e mezzo, che di cominciare la gara manco se ne parlava, c’era però un frastuono assordante prodotto principalmente dai motori e dalle motociclette, una cinquantina, che venivano provati e riscaldati e dagli altoparlanti che trasmettevano a tutto volume musica fracassona. pag.258 Era un grandissimo tenore, acclamato in tutto il mondo. Quella sera doveva cantare al teatro dell’Opera del Cairo, quello vecchio ancora non andato a fuoco, sapeva benissimo che da lì a qualche tempo le fiamme se lo sarebbero mangiato. Aveva domandato a un inserviente d’informarlo appena il signor Gegè avesse occupato il suo palco, quinto da destra del secondo ordine. Era in costume, avevano finito di dare un ritocco al trucco. Sentì il "Chi è di scena?". Non si mosse, arrivò trafelato l’inserviente a dirgli che il signor Gegè - che non era morto, questo si sapeva, se n’era scappato al Cairo - ancora non s’era visto. Si precipitò in palcoscenico, taliò in sala attraverso una piccola apertura nel sipario: il teatro era stracolmo, l’unico palco vuoto era il quinto da destra del secondo ordine. Allora pigliò una decisione immediata, tornò in camerino, si spogliò del costume e si rivestì dei suoi abiti, lasciando intatto il trucco, una lunga barba grigia, folte e bianche sopracciglia. Nessuno l’avrebbe più riconosciuto e quindi non avrebbe più cantato. Capiva benissimo che la sua carriera era finita, che avrebbe dovuto arrangiarsi per sopravvivere, ma non sapeva che farci: senza Gegè non poteva cantare. Si svegliò in un bagno di sudore. Aveva combinato a modo suo un classico sogno freudiano, quello del palco vuoto.
"Il ladro di merendine" Sellerio editore, XI ed. 1998 pag. 50 "Pronto? Montalbano sono. Mi chiama per favore il dottor Pasquano?" "Aspetti all’apparecchio" Ebbe il tempo di cominciare a canticchiare "E te lo vojo dì/che so stato io.."
E te lo vojo di’ / che so’ stato io so’ quattr’anni che / me tengo ‘sto segreto e te lo vojo di’ / ma nun lo fa’ sape’ nun lo di’ a nessuno / tiettelo pe’ tte pag.145 "Mah, non c’è urgenza. Del resto dopo le dichiarazioni alla TV del dottor Augello.." "Mimì?!" gridò e gli parse di star cantando la Bohème.
pag.193 In macchina, verso l’ufficio di Valente, cantò a gola spiegata. "Guarda come dondolo, guarda come dondolo, col twist…"
pag.209 Il commissario scostò la manuzza che teneva il tesserino, raprì la porta, trasì. L’altro lo seguì. "Sono il colonnello Lohengrin Pera" fece il soprammobile. Il commissario si fermò di colpo, come se gli avessero premuto il ferro tra le scapole. Si voltò adascio, squatrò il colonnello. I genitori dovevano avergli dato quel nome per risarcirlo in qualche modo della statura e del cognome.
pag.224 Dato che non ce la faceva a stare addritta, il nano, appuiandosi ora a una seggia ora a un muro, tentava di cantare Celeste Aida.
"La voce del violino" Sellerio editore, 1997. pag. 24 La signora Clementina gli porse un foglio di carta a quadretti. Il Maestro usava inviare alla signora, il giorno prima del concerto, il programma scritto a matita. I pezzi di quel giorno erano la "Danza spagnola" di Sarasate e lo " Scherzo-Tarantella op.16" di Wieniawski. Quando il concerto ebbe termine, la signora Vasile Cozzo attaccò la spina del telefono, compose un numero, poggiò la cornetta sul ripiano e si mise ad applaudire. Montalbano si associò di cuore: non capiva niente di musica, ma era certo di una cosa e cioè che Cataldo Barbera fosse un grande artista.
pag.90 Il dottore taliò a lungo, poi isò una mano, pigliò il vecchio astuccio del violino, lo raprì, mostrò al commissario lo strumento che c’era dintra, lo richiuse, lo rimise a posto, chiuse la vetrinetta. "A occhio e croce mi pare non manchi nulla". "La signora suonava il violino?". "No. Né il violino né qualsiasi altro strumento. Era di suo nonno materno, di Cremona, faceva il liutaio. E ora, commissario, se crede, mi racconti tutto". pag.111 Durante il sopralluogo col dottor Licalzi nella villetta c’era stato qualcosa, una parola, un suono, come dire, dissonante. pag.128 "Si, ma che c’è di offensivo? C’è il Milite Ignoto…" "…l’Anonimo veneziano" rincarò Montalbano che stava cominciando a scialarsela. pag.157 "Patazùn, patazùn, patazùn, zun zun zuzù" faceva Zito. "Nicolò?" "Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta.." Zito aveva intonato a gran voce l’inno nazionale.
pag. 176 "Guardi qua. E’ il programma del concerto di domani che il Maestro Cataldo Barbera mi ha fatto avee poco fa". (…) Il commissario ripigliò a taliare il foglio. "Programma: G. Tartini, Variazioni su un tema di Corelli; J.S. Bach, Largo; G. B. Viotti, dal Concerto 24 in mi minore".
pag.179 Quella matina il commissario s’appresentò in ufficio vestito di un completo grigio, camicia azzurro pallido, cravatta di colore smorzato, scarpe nere. "Mi pari un figurino" fece Mimì Augello. Non poteva dirgli che si era combinato così perché aveva un concerto per violino solo alle nove e mezza. Mimì l’avrebbe pigliato per pazzo. E con ragione, perché la facenna era tanticchia da manicomio. pag. 180 Alle nove e mezza spaccate, il Maestro Barbera attaccò. E dopo manco cinque minuti il commissario principiò a provare una sensazione stramma che lo turbò. Gli parse che a un tratto il suono del violino diventasse una voce, una voce di fìmmina, che domandava d’essere ascoltata e capita. Lentamente ma sicuramente le note si stracangiavano in sillabe, anzi no, in fonemi, e tuttavia esprimevano una specie di lamento, un canto di pena antica che a tratti toccava punte di un’ardente e misteriosa tragicità. Quella commossa voce di fìmmina diceva che c’era un segreto terribile che poteva essere compreso solo da chi sapeva abbandonarsi completamente al suono, all’onda del suono. Chiuse gli occhi, profondamente scosso e turbato. Ma dentro di sé era macari stupito: come aveva fatto quel violino a cangiare così tanto di timbro dall’ultima volta che l’aveva sentito? Sempre con gli occhi chiusi, si lasciò guidare dalla voce. E vide se stesso trasìre nella villetta, traversare il salotto, raprire la vetrinetta, pigliare in mano l’astuccio del violino.. Ecco cos’era quello che l’aveva tormentato, l’elemento che non quatrava con l’insieme! La luce fortissima che esplose dintra la sua testa gli fece scappare un lamento. "Macari lei si è commosso?" spiò la signora Clementina asciugandosi una lacrima. "Non ha mai suonato così". pag.182 Dintra c’erano una vetrina con cinque violini; un complicato impianto stereo; una scaffalatura metallica da ufficio con impilati cd, dischi, nastri; una libreria, una scrivania, due poltrone. Sulla scrivania stava appoggiato un altro violino, evidentemente quello che il maestro aveva appena adoperato per il concerto. "Oggi ho suonato col Guarnieri" fece a conferma il Maestro indicandolo. "Ha una voce impareggiabile, celestiale". Montalbano si congratulò con se stesso: pur non capendoci niente di musica, tuttavia aveva intuito che il suono di quel violino era diverso da quello già sentito nel precedente concerto. "Per un violinista avere a disposizione un gioiello simile è, mi creda, un autentico miracolo". (…) "Vede, quel violino apparteneva alla povera signora Licalzi". Il commissario sentì che tutti i nervi gli si tendevano come corde di violino, se il Maestro lo sfiorava con l’archetto, avrebbe certamente suonato. "All’incirca due mesi addietro" contò il maestro barbera "stavo esercitandomi con la finestra aperta. La signora Licalzi, che passava casualmente per la strada, mi sentì. S’intendeva di musica, sa? Lesse il mio nome sul citofono e volle vedermi. Aveva assistito al mio ultimo concerto, a Milano, dopo mi sarei ritirato, ma nessuno lo sapeva". pag.183 "Bene, questa bella e gentile creatura, parlando del più e del meno, mi disse che aveva ereditato un violino da un bisnonno che faceva il liutaio a Cremona. Aggiunse che da piccola aveva sentito dire, in famiglia, che quello strumento valeva una fortuna, ma lei non ci aveva dato peso. (…) Appena vidi il violino, mi creda, sentii qualcosa esplodere dentro di me, provai una forte scossa elettrica. Era alquanto malridotto, ma bastava poco a rimetterlo in perfetto ordine. Era un Andrea Guarnieri, commissario, riconoscibilissimo dalla vernice colore ambra gialla, di straordinaria forza illuminante". Il commissario taliò il violino, sinceramente non gli parse che facesse luce. Lui però a queste cose di musica era negato. "Lo provai" disse il Maestro "e per dieci minuti suonai trasportato in Paradiso con Paganini, con Ole Bull…". "Che prezzo ha sul mercato?" spiò il commissario che di solito volava terra terra, in paradiso non ci era mai arrivato. "Prezzo?! Mercato?!" inorridì il Maestro. "Ma uno strumento così non ha prezzo!" "Va bene, ma a voler quantificare"… "Che ne so? Due, tre miliardi". Aveva sentito bene? Aveva sentito bene. "Feci presente alla signora che non poteva arrischiarsi di lasciare uno strumento di tale valore in una villetta praticamente disabitata. Studiammo una soluzione, anche perché io volevo una conferma autorevole alla mia supposizione, e cioè che si trattasse di un Andrea Guarnieri. Lei propose che lo tenessi qui da me. Io però non volevo accettare una simile responsabilità, ma lei riuscì a persuadermi, non volle neanche una ricevuta. Mi riaccompagnò a casa e io le diedi un mio violino in sostituzione, da mettere nella vecchia custodia. Se l’avessero rubato, poco male: valeva qualche centinaio di migliaia di lire. Il mattino appresso cercai a Milano un mio amico, che in quanto a violini è il più grande esperto che ci sia." (…)
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"Venga di là" fece Cataldo Barbera. "Non c’è bisogno, maestro. Solo pochi secondi. Questa è la custodia che conteneva il Guarnieri?" Il maestro la tenne in mano, la taliò attentamente, la restituì. "Mi pare proprio di sì". Montalbano raprì la custodia e, senza tirarne fora lo strumento, spiò: "E’ questo lo strumento che lei ha dato alla signora?". Il Maestro fece due passi narrè, tese una mano avanti come per allontanare maggiormente una scena orribile. "Ma questo è un oggetto che io non toccherei nemmeno con un dito! Si figuri! E’ fatto in serie! E’ un affronto per un vero violino!". Ecco la conferma di quello che la voce del violino gli aveva rivelato, anzi aveva portato a galla. Perché l’aveva inconsciamente registrato da sempre: la differenza tra contenuto e contenitore. Era chiara macari a lui, che non ci capiva di violini. O di qualsiasi strumento, se era per questo. "Tra l’altro" proseguì Cataldo Barbera "quello che io ho dato alla signora era sì di modestissimo valore, ma somigliava di molto al Guarnieri". "Grazie. Arrivederci". Principiò a scinniri le scale. "Che me ne faccio del Guarnieri?" gli spiò a voce alta il Maestro ancora strammato, non ci aveva capito niente. "Per ora se lo tenga. E lo suoni più spesso che può". pag. 191 Il commissario raprì il portabagagli, pigliò l’astuccio col violino da pochi soldi. "Tu ritornatene al commissariato" ordinò a Giallombardo. Attraversò l’atrio dell’albergo che pareva una stampa e una figura con un professore d’orchestra. pag. 196 "Un giorno Michela, a Vigàta, si incontra con un celebre solista di violino che vive qui ritirato. I due si fanno simpatia e la signora rivela al Maestro di possedere un vecchio violino ereditato dal bisnonno. Credo per gioco, Michela lo mostra al Maestro e questi, a prima vista, si rende conto di trovarsi davanti a uno strumento di grandissimo valore, musicale e pecuniario. Qualcosa che supera i due miliardi. Quando Michela torna a Bologna, racconta all’amante tutta la storia. Se le cose stanno come dice il Maestro, il violino è vendibilissimo, il marito di Michela l’avrà visto una volta o due, tutti ne sconoscono il vero valore. Basterà sostituirlo, mettere dentro la custodia un violinaccio qualsiasi e Guido finalmente è fuori per sempre dai suoi guai. pag. 196 A questo punto il nostro protagonista raccoglie qualche informazione sul Maestro di cui gli ha parlato Michela. Scopre così che non solo è un grande interprete a livello internazionale ma che è anche un conoscitore della storia dello strumento che suona.
pag. 209 Nota dell’autore - In questa quarta indagine del commissario Montalbano entrano in ballo dei violini. L’autore, come il suo personaggio, non è abilitato a parlare e a scrivere di musica e di strumenti musicali (per qualche tempo osò, tra la disperazione dei vicini, tentare di studiare il sax tenore) quindi tutte le informazioni le ha tratte dai libri che S.F. Sacconi e F. Farga hanno dedicato al violino. "Un mese con Montalbano" Mondadori editore. VI ed. Luglio 1998. pag.67
Dal racconto "Amore" - "Mentre da Montelusa venivamo a Vigàta in macchina, si mise a cantare sottovoce. Gli è sempre piaciuta l’opera lirica, lui stesso ha un bel timbro, canterellava "Tu che a Dio spiegasti l’ali". Io ero aggelato, pensavo fosse lo choc."
pag.80 Dal racconto "Una gigantessa dal sorriso gentile" - Ma quando Mariuccia, in pudica sottana nera e senza occhiali (automaticamente se li levava ogni volta che si spogliava), niscì dal paravento e, con la pelle rosso foco per la vrigogna, si posizionò sul lettino, nel cuore del cinquantino Landolina si scatenò una delirante sinfonia che nessun compositore dotato di senno si sarebbe mai azzardato a comporre, a momenti di centinara e centinara di tamburi al galoppo subentrava il volo alto di un violino solitario, all’irruzione di un migliaro di ottoni si contrapponevano due liquidi pianoforti. Tremava tutto, anzi vibrava il dottor Landolina quando posò una mano su Mariuccia e subito, mentre un organo maestoso iniziava il suo assolo, sentì che il corpo della ragazza vibrava all’unisono con il suo, rispondeva al ritmo della stessa musica. pag.202 Dal racconto "Il patto" - "Non perdiamoci nel conteggio dei colpi" intervenne il dottor Pasquano. "Sono stati cinque, d’accordo, ma ha macari sparato al busto di Wagner, che è di bronzo, la pallottola ha rimbalzato e ha pigliato in piena fronte il professore, ammazzandolo." "Gli arancini di Montalbano" Mondadori editore. I ed. Settembre 1999. pag.56
Dal racconto "Il gatto e il cardellino" - Sotto la doccia, il commissario intonò con tutto il fiato dei polmoni "O toreador ritorna vincitor".
pag. 337 Dal racconto "Gli arancini di Montalbano" - Figurati la faccia di quelli della Mobile se avessero sentito la cassetta! C’era un’esecuzione speciale della Sinfonia n.1 di Beethoven che Livia gli aveva registrato a Genova.
"La gita a Tindari" Sellerio editore, II ed. 2000. pag. 9 Gli arrivò la friscatina di uno che caminava sulla spiaggia. A quell’ora, certamente qualcuno che andava per travaglio a Vigàta. Il motivo friscato gli era cognito, ma non ne ricordava né il titolo né le parole. Del resto, che importanza aveva? Non era mai riuscito a friscare, manco infilandosi un dito in culo. "Si mise un dito in culo/ e trasse un fischio acuto/ segnale convenuto/ delle guardie di città"… Era una fesseria che un amico milanese della scuola di polizia qualche volta gli aveva canticchiato e che gli era rimasta impressa. E per questa sua incapacità di friscare, alle elementari era stato la vittima prediletta dei suoi compagnucci di scuola che erano maestri nell’arte di friscare alla pecorara, alla marinara, alla montanara, aggiungendovi estrose variazioni. pag. 35 E allura, doppo che avivano messo la musica che a momenti mi spaccavano le grecchie, l’astutavano e principiava un’autra musica! Una sinfonia! Zùnchiti zùnchiti zùnchiti zù. Il letto che sbatteva contro il muro e faciva battarìa! (…) pag.206 Montalbano balzò in piedi. "Mimì! Mimì!" gridò. E s’interruppe, perché gli parse di stare cantando la Bohème.
pag.219 La caponatina! Sciavuròsa, colorita, abbondante, riempiva un piatto funnùto, una porzione per almeno quattro pirsone. Erano mesi che la cammarera Adelina non gliela faceva trovare. Il pane, nel sacco di plastica, era fresco, accattato nella matinata. Naturali, spontanee, gli acchianarono in bocca le note della marcia trionfale dell’Aida. Canticchiandole, raprì la porta-finestra doppo aver addrumato la luce della verandina.
pag.270 Andata via Ingrid, rimase assittato nella verandina. Dal porto niscivano i pescherecci per la pesca notturna. Non voleva pinsare a nenti. Poi sentì un suono armonioso, vicinissimo. Qualcuno fischiettava. Chi? Si taliò torno torno. Non c’era nessuno. Ma era lui! Era lui che stava fischiettando! Appena ne ebbe coscienza, non ci arriniscì più. Dunque c’erano momenti, come di sdoppiamento, nei quali sapeva macari fischiare. Gli venne di ridere. "Il corso delle cose" Sellerio editore, IV ed. 2000
pag.17 "Qualcuno si salva" fece con prudenza Pasquale, ancora calato a seguire il percorso della sua palla. "Nessuno." "Manco mio fratello?" domandò Vasalicò, appoggiando la stecca sul panno del bigliardo. "Tuo fratello dirige la musica" confermò calmissimo Masino. pag.30 Quando poi il corteo aveva ripreso la sua faticosa salita al camposanto (…) Vito, spinto anche dalle note della lenta marcia intonata dalla banda municipale in alta uniforme, si era perso dietro una sua curiosa fantasia pag.72 Immobili col sole che spaccava, cinque tamburinari venuti da Masàra, la testa riparata da uno sgargiante fazzoletto annodato alla nuca, battevano una lunga e rullante cadenza araba: avrebbero continuato così, tutto il pomeriggio e la sera, percorrendo strade vicoli piazze, per annunziare la festa del giorno appresso. Il paese era calato, alle tre di doppopranzo, nel sordo letargo di certe giornate africane, sicuramente, all’indomani, si sarebbe trovato un velo di sabbia rossa del deserto sui balconi. Gli scuri inserrati per ripararsi dalla canicola, Vito non ce la faceva ad appisolarsi, ed era inutile dare la colpa ai tamburi. pag. 93 "Entriamo dentro" fece con un certo nervoso il giovane "con questa camurria di tamburi non vi sento più" "No" disse don Pietro "buttagli invece mille lire e digli se si fermano tanticchia sotto il balcone. Mi piace sentire la tammuriniàta" pag. 107 San Calogero allora aveva avuto una buona pensata: aveva afferrato capre, muli e cavalli, li aveva legati insieme e aveva aperto la sfilata suonando alla disperata un tamburo. pag.116 Alla comparsa del santo un urlo si era levato dalla folla " e che ficimu? Nu scurdamu? Ebbiva San Calò!" che alle orecchie di S.E. dovette suonare terrorizzante nella sua incomprensibilità e nel suo furore come il grido di guerra dei turchi ai primi crociati, quindi i quindici tamburinari scelti, nella stessa tenuta degli scaricatori, attaccarono di gran gana. pag.119 Tre tirarono fuori il mitra e si misero a correre davanti ai preti sparando in aria, uno si mise a suonare la tromba che pareva Armstrong, quattro o cinque, a modo loro, i tamburi, gli altri pigliarono a fare fantasia, ballando e cantando, dopo avere coperto i nastri di dollari.
"Un filo di fumo" Sellerio editore, VI ed. 1998 pag. 9 …un bel dì vedremo levarsi un fil di fumo sull’estremo confin del mare. E poi la nave appare… L. Illica - G. Giacosa, Madama Butterfly. Atto II, parte prima.
pag.70 Per esempio, a Garibardo, che magari lui era venuto trent’anni prima a contare chiacchiere e tabacchiere di legno, glielo avevano cantato latino: "Vulemu a Garibaldi/ cc’un pattu: senza leva!/ Ca s’iddu fa la leva/ canciamu la bannera!" * E com’era finita? Erano dovuti partire per la leva e la bandiera non si era più potuta cangiare. Nella miniera Trasatta, che era all’origine dell’odio eterno di don Ciccio Lo Cascio per don Totò Barbabianca, Paolino Praticò che aveva finito di mangiare prima degli altri il suo muffoletto accompagnato da sette olive, si appoggiò con le spalle a un rialzo del terreno e si mise a fare la sua consueta cantatina: "Travagliu di la sera a la matina,/ sugnu pejo di un cani a la catina"
pag. 118 Dietro al chierichetto c’era la banda municipale al gran completo che suonava la sinfonia della Gazza ladra di Rossini, dietro ancora Padre Imbornone con altri due chierichetti che l’imbalsamavano d’incenso.
pag. 119 Qui si fermò, e mentre la banda intonava il "Salve regina", Matteo Savatteri, capomastro, salito su di una scala, murò nella parte più alta della colonna, proprio ai piedi della Madonnuzza, la tavoletta di ramo di Fonzio Vassallo. (…) La banda municipale, che aveva quasi esaurito tutto il suo repertorio, aveva appena attaccato "Tu che a Dio spiegasti l’ali" passando proprio sotto la finestra..(…)
pag.136 "Vulemu a Garibaldi": la canzoncina, pubblicata da Antonino Uccello nel suo "Risorgimento e società nei canti popolari siciliani" suona così: Vogliamo Garibaldi / con un patto: senza leva! / Che se lui mette la leva / cambiamo di bandiera.
"La strage dimenticata" Sellerio editore, VI ed. 1999 pag.26 "Ch’è friddu stu dammusu, è comu un gniazzu / ca acqua spanni da tutti li mura" (com’è fredda questa cella, è come un covile / che getta acqua da tutti i muri); oppure: "’nfami cu fabbricau sti riani / tutti a lu scuru comu l’addannati" (infame chi ha fabbricato queste fogne / tutti al buio come dannati); e ancora "sugnu ammoddu comu na liama" (sono in acqua come la canapa) e via di questo passo, non c’è insomma canto anonimo di carcere (io li sto citando dal libro di Antonino Uccello, "Carcere e mafia nei canti popolari siciliani") che nell’Ottocento non lamenti l’umidità nella quale è costretto a campare il condannato. pag.31
"A li dudici jnnaru quarantottu / spincì la testa du Palermu afflittu / misi focu a la mina e fici bottu, / cu grolia ha vinnicatu lu sò grittu: / di vecchiu ch’era, accumparìu picciottu, / spinci la mano cu lu pugnu strittu, / lenta a Burbuni un putenti cazzottu: / - Tinìti, Majstà, vi l’avia dittu! - Vi l’avia dittu cu la lingua sciota, / vi la pigghiasti pri n’a smafarata; / lu dodici jnnaru lu dinota / ca era pronta la grannuliata. ( Il dodici gennaio quarantotto / alza la testa Palermo l’afflitto / mise fuoco alla mina e fece botto / con gloria ha vendicato il suo diritto / da vecchio ch’era, giovane divenne / alza la mano con il pugno stretto / affibbia al Borbone un potente cazzotto: / - Prendete, Maestà, ve l’avevo detto! - / Ve l’avevo detto chiaramente / la credevate una smargiassata / il dodici gennaio ve lo dimostra / che era pronta la grandinata…) Il canto popolare, che riporto dal libro di Antonino Uccello, "Risorgimento e società nei canti popolari siciliani", ha perciò tutte le ragioni di vantarsi.
pag.61
Perché il nodo stava tutto qui: persone quei galeotti in tutta coscienza non potevano dirsi e dunque - dato che il più carnetta e carogna degli sbirri era pur sempre un essere umano - il conto non poteva in nessun modo pareggiare, era come voler dare un fischietto e avere la pretesa di farsi regalare, in cambio, un pianoforte. "La bolla di componenda" Sellerio editore, X ed. 1999. pag.72 "..in opere pubbliche che nel giorno stesso della loro ufficiale inaugurazione risultavano fatte con la ricotta e miseramente si accasciavano davanti a sindaci complici con tanto di fascia tricolore e a bande municipali quantomeno perplesse.." "Il gioco della mosca" Sellerio editore, V ed. 1998 pag. 33 Accolto dalle note di "Giovinezza" suonate da una volenterosa orchestrina, arrivò il federale e subito, sbrigativamente com’era nello stile dei gerarchi dell’epoca, diede inizio alle danze, andando ad invitare una donna del popolo.
pag.43 Filama - (…) Significa calunnia. Dalle mie parti il venticello rossiniano si muta in questa aerea rete di filame la cui invisibilità non significa mancanza di resistenza: anzi, possono diventare più forti di un cavo d’acciaio.
pag.68 Sono parole, quelle che sto citando, applicate a un suono, al fischio breve e modulato con il quale gli empedoclini, i "marinisi", si chiamano e si riconoscono. E’ una specie di inno nazionale miniaturizzato, appena fuori dalla cinta delle nostre case perde senso, è un fischio come un altro: non certo però per i "marinisi". pag.80 Stavo mettendo in scena una commedia di Nino Martoglio trasformata in opera lirica da un maestro catanese, Sangiorgi, e avevo con me un bravissimo attore(...)
"Il birraio di Preston" Sellerio editore, XVII ed. 1999 pag.17 "C’è un fantasima che fa tremare tutti i musicanti d’Europa!" proclamò a gran voce il cavaliere Mistretta dando contemporaneamente una forte manata sul tavolino. Era per tutti chiaro che dicendo musicanti intendeva riferirsi ai compositori di musica. pag. 20 " Sto parlando di Uogner! Della sua musica da Dio! Del fantasima della sua musica che scanta tutti gli altri musicanti! Quella musica sulla quale tutti, oggi o domani, dovranno rompercisi le corna!" "Questo Uogner mai lo intesi" disse sinceramente stupito Giosuè Zito. "Perché lei è omo d’ignoranza! Fra lei e la cultura di una triglia non c’è differenza! A me lo sonò, un pezzo di questa musica, la signora Gudrun Hoffer, al pianoforte. E io me ne acchianai in paradiso! Ma santo diavuluni, come si fa a non conoscere Uogner? Non ha mai inteso parlare del Vascello fantasma?"
pag. 21 " E’ una musica nuova, rivoluzionaria! Come quella del Tristano!" "Ahi ahi!" mormorò il canonico Bonmartino, studioso di patristica, che stava come al solito autoimbrogliandosi con un solitario. "Che vuole venirmi a significare con questo suo ahi ahi?" "Niente" spiegò il canonico con una faccia tanto serafica che pareva che due angileddri gli volassero torno torno la testa. "Vengo solo a significarle che in lingua taliana tristano sta per culo malinconico. Ano triste. E se tanto mi dà tanto, m’immagino che l’opera dev’essere una billizza". "Allora manco lei capisce una minchia di Uogner!". "Intanto si scrive doppia vu, a, gi, enne, e, erre e si legge Vag - ner. E’ tedesco, amico carissimo, non è né inglese né midicàno. Ed è pi davero un fantasima, come dice lei e salvando la salute del signor Zito. Infatti è morto prima ancora di nascere, un aborto. La musica del suo Wagner è una cacata solenne, una cacata rumorosa, fatta di pirita ora pieni ora a vuoto d’aria. Cose di cesso, di retrè. Chi fa musica pi davero seria, non ce la fa a suonarla, mi creda."
pag. 22 " Voglio solo parlare del Trovatore, l’opera somma del cigno di Busseto. E’ chiaro?" " Chiarissimo." "E dunque, cavaliere, mi stia bene a sentire. Io piglio "Abbietta zingara" e gliela infilo nell’orecchia destra, afferro "Tacea la notte placida" e gliela sistemo nell’orecchia mancina, così non potrà più sentire il suo amato Uogner, come dice lei. Poi agguanto "Chi del gitano" e gliela inzicco nel pirtuso di mancina del naso, impugno "Stride la vampa" e gliela metto nel pirtuso di dritta, così manco può pigliare aria. Poi faccio un bel mazzo di "Il balen del tuo sorriso", "Di quella pira" e del "Miserere" e glieli alloco tutti quanti nel buco del culo che, mi riferiscono, lei ha abbastanza capiente ."
pag. 23 Successe quindi un momento di silenzio e proprio in quel silenzio tutti i presenti sentirono che don Totò Prestia, a fior di labbra, si era messo a cantare "Una furtiva lacrima". In silenzio, mentre mangiavano e bevevano, s’incantarono ad ascutare la voce di don Totò, che era cosa di mettersi a lacrimiare come vitelli scannati. Alla fine, dopo l’applauso, quasi a volerlo ricambiare, don Cosmo Montalbano gli arrispose, intonato com’era, con " Una voce poco fa".
pag. 24 " Lo sapete?" Intervenne il medico Gammacurta. " Questo Ricci che ha scritto la musica del Birraio di Preston, pare abbia fatto un’opera che è una dichiarata risciacquatura di una cosa di Mozart." A quel nome i presenti inorridirono. Dire il nome di Mozart, inspiegabilmente detestato dai siciliani, era come dire un santione, una vestemmia. A Vigàta, a difendere quella musica che a parere di tutti non sapeva né di carne né di pesce, ci stava solo il falegname don Ciccio Adornato, ma pare che lo faceva per ragioni sue personali, delle quali scarsamente parlava. " Mozart?!" Non fu un coro, anche se tutti allo stesso tempo quel nome esclamarono. Ci fu chi lo disse con disprezzo e chi con dolore, come per un tradimento, chi con stupore e chi con indignazione. " Sissignore, Mozart. Ma l’ha detto uno che le cose le conosce. Pare che circa trentacinque anni fa, alla Scala di Milano, questo stronzo di Luigi Ricci ha fatto rappresentare un’opera, che si chiamava Le nozze di Figaro e che era una stampa e una figura con un’opera di Mozart che si chiamava allo stesso modo. E i milanesi, alla fine, gli cacarono sulla testa. E allora questo Luigi Ricci si misi a chiangìri e in lacrime si precipitò a farsi consolare fra le braccia di Rossini che gli stava amico, va a sapere perché. Rossini fece il dovere suo, gli fece coraggio, però diede a sapere a tutti che, in fondo, Ricci se l’era andata a cercare."
pag. 25 "Oh Gesù, Gesù santo!" fece il canonico. "Già Mozart è quel mortorio che è, figuriamoci cosa deve essere la brutta copia di un brutto originale! Ma si può sapere cosa ci ha in testa questo signor prefetto?" Poiché nessuno seppe dargli una risposta, venne ancora un silenzio, tutto meditativo. Il primo a romperlo fu Giosuè Zito che intonò, basso basso, per non farsi sentire dalla strada:" Ah, non credea mirarti.." Gli subentrò il marchese Coniglio della Favara " Qui la voce sua soave…" Intervenne il commendator Restuccia, da basso profondo: "Vi ravviso, o luoghi ameni…" A questo punto il canonico Bonmartino si susì dalla seggia, corse alle finestre, tirò le tende a fare scuro, mentre il preside Cozzo addrumava un lume. Attorno a quella luce si ritrovarono tutti a semicerchio. E il medico Gammacurta attaccò con voce da baritono: "Suoni la tromba e intrepido…" Primo gli si unì, come da partitura, il commendatore. Poi, uno a uno, tutti gli altri. In piedi, taliandosi occhi negli occhi e stringendosi a catena le mani, abbassarono d’istinto il volume del canto. Erano congiurati, lo erano diventati in quel preciso momento nel nome di Bellini. Il Birraio di Preston, opera lirica di Luigi Ricci, imposta dal prefetto di Montelusa, non sarebbe passata.
pag. 47/53 Brani dall’opera "Il Birraio di Preston." pag.56/59 Storia (!!) di Luigi Ricci. pag.100 Gammacurta, dopo la riflessione, tornò a taliare verso il palcoscenico. C’erano lì sopra un tale Tobia, Daniele il birraio e la sua zita Effy. (…)Tobia imitava con la voce il suono del tamburo, rataplan rataplan, ma Daniele non pareva capace di imparare, mentre invece prontissima a marciare a passo era la sua zita Effy, che a lei le veniva facile, essendo più omo che fimmina. Di questa bravura di Effy Tobia si rallegrava tutto: "In un momento essa ha imparato/del reggimento sembra un soldato." pag.113 Don Ciccio teneva un particolare: non solo aveva studiato musica, sapeva leggere la carta, ma era puro capace di sonare il flauto traverso con la stessa bravura con la quale si contava sapessero sonare gli angeli quando il padreterno comandava loro di fargli un concertino. Prigato e riprigato da quelli che avevano scoperto la sua particolarità e capacità, si era deciso di fare ogni domenica dopopranzo due sole orate di musica per pochi amici veri: il ricevitore postale, un pescatore, il capitano del papòre per Palermo che ogni domenica faceva scalo proprio a Vigàta, un viddrano che magari lui sapeva sonare il flauto ma quello di canna dei caprari, e qualunque altro che, passando nelle vicinanze del magazzino, perché lì don Ciccio teneva la domenicale sonata, aveva gana d’ascutare musica. Non c’era dubbio però che don Ciccio fosse persona che faceva nascere, a ragionarci sopra, qualche dimanda. E una, soprattutto: dove, e come mai, aveva imparato a sonare e a capirne tanto di musica? Perché non c’era dubbio nisciuno che nella musica don Ciccio fosse di competenza, e fonduta assai. Ma lui, a ogni dimanda, faceva come il porcitello di sant’Antonio, che appena lo sfiori s’inserra a pallina. Al massimo, se si decideva a raprìri bocca, rispondeva con un monosillabo variabile: sì, ma, se, no. Però un giorno, la jurnata che faceva settant’anni di vita e gli amici gli avevano fatto festa insino a farlo ‘mbriacare, il capitano del papòre glielo spiò diretto: "Don Ciccio, comu fu?" E lui, senza che nisciuno se l’aspettasse, lo spiegò com’era stato che la musica fosse trasuta nella sua esistenzia e non ne fosse mai uscita. Fu un cunto bellissimo, che uno se lo stava a sentire con la vucca aperta e gli occhi sgriddrati, un cunto che pareva uno di quelli che si cuntano e si bon cuntano ai picciliddri per fargli pigliare sonno. La voce si sparse, ogni tanto quarcuno spiava:"Don Ciccio, comu fu?" E don Ciccio, passata quella volta, non aveva ora più ritegno a cuntare, di cunto in cunto abbellendo fatti, situazioni, persone e cose. Si guadagnò una ‘ngiuria, un soprannome, "Don Ciccio comu fu". pag.115 "Don Ciccio, voi la conoscete quest’opera che il signor prefetto di Montelusa vuole a tutti i costi farci sentire? Mi pare che si chiama Il Birraio di Preston". "Sissignore, la sentii una ventina d’anni fa, a Palermo". "Che ve ne parse?". Si fece un silenzio di tomba, don Ciccio pareva stesse pigliando tempo. In quel silenzio, solo il marchese ebbe il coraggio d’incalzarlo: "Volete darci la vostra pinione, se non vi porta disturbo?" Don Ciccio si calò verso terra chiano chiano, portando il braccio sinistro darrè la schina che gli faceva male, con la mano destra pigliò un riccio di legno, si risusì. Mostrò a tutti lentamente il truciolo, come un prestigiatore o un parrino che in chiesa fa vedere l’ostia consacrata. "Quest’opira è accussì" disse. Strinse il truciolo tra le dita, lo sbriciolò, ne gettò i minuti frammenti per aria. "Questa è l’opira, la sua consistenza". pag. 170 " Questo baruni stava sempre a contare che, qualche anno avanti, aveva ascutato al Real Teatro Carolino un’opira, mi pare che si chiamasse "fannu tutte accussì" di un certo Mozzat e che quest’opira, che a lui, al baruni, era parsa magnifica, non era piaciuta a nisciun palermitano. Allora il baruni si era arrisorbuto di fare rapprisintare n’autra opira di lo stesso Mozzat, chiamata "u flautu magicu", completamente a spese sue. Fece veniri cantanti, orchestra, scene e tutto il resto da Napoli pagando di sacchetta so. E accussì il baruni disse al tidisco che lo jornu appresso c’era questa rapprisintazione e che in triatro non voleva nisciuna persona di Palermo, solo il tidisco. Ancora non saccio pirchì io, lassato a mezzo il travaglio, mi piantai drittu davanti al signor Marsan e ci addomandai di portare puro a mia alla rapprisintazioni. Il tidisco si mise a rìdiri, taliò il baruni e lui fece di sì con la testa. U jornu appresso dintra al triatro c’èramo solo noatri tre: il baruni e il signor Marsan stavano assettati dintra a o parco più granni che c’era, io me ne acchianai supra supra, vicino al tetto. "Dopo manco cinco minuti che l’orchestra sonava e i cantanti cantavano, a mia sicuramente mi principiò una febbre àuta. U cori mi batteva forti, ora sentiva càvudo càvudo ora friddo friddo, la testa mi firriava. Didopu, come si fossi addiventato un palloneddro di acqua saponata, di quelli liggeri e trasparenti che i picciliddri fanno per jocu con una cannuzza, accominzai a volare. Sissignura, a volari. Cillenza, mi deve crìdiri: volava! E prima m’apparse il triatro da fora, poi la piazza cu tutte le persone e l’armàla, po’ la citate intera ca mi parse nica nica, poi vitti campagni virdi, li sciumi granni do Nord, li deserti gialli ca dìcino che ci sono in Africa, poi tutto il mondo istesso vitti, una palluzza colorata come a quella che c’è dintra a l’ovo. Dopu arrivai vicino a u suli, acchianai ancora e mi trovai in paradisu, con le nuvole, l’aria fresca pittata di blu chiaro, quarche stella ancora astutata. Poi la musica e lu cantu finero, io raprii gli occhi e vitti che dintra o triatro era arrimasto solo. Non aveva gana di nèsciri di fora, ancora dintra di mia sentiva la musica. Pigliai sonno e m’arrisbigliai, svenni e arrivenni, arrisi e chiangii, nascii e murii, sempre con quella musica che sonava dintra di mia. U jornu dopu, che ancora pativo di febbre, spiai al signor Marsan d’insignarmi a sonare il flauto, e lui lo fece. Questo è quanto, cillenza. Dopu quella jurnata io vado a sentiri musica e òpire, piglio macari il trenu e cerco, cerco sempre senza truvare mai." "Che hosa cercate?" domandò il prefetto che senza rendersene conto si era alzato in piedi. "Una musica, cillenza, che mi facesse provare la stessa felicità, ca mi facissi vìdiri com’è fatto u cielu."
pag.184 E così alla sirena di papòre e allo sparo si venne ad aggiungere un rombo, a un tempo terremotoso e armonico, che da qualche parte scognita del triatro si generò. La spiega di quel sono, a volerci ragionare a mente fridda, ma non certo in quel momento di virivirì, si trovava nel fatto che in triatro ci stavano magari i signori professori d’orchestra i quali sentito lo sparo e la sirenata (o viceversa) annirbositi com’erano per come stava andando la seratina, tutt’insieme si liberarono degli strumenti per potere meglio scapparsene. Ora gli strumenti erano tanti, ìvano dal contrabbasso al fagotto al trombone ai violini agli ottavini alla grancassa ai tammuri e questi strumenti, prima ittàti all’aria e poi caduti per terra, fecero rumorata assà e la fecero dintra quella parte del triatro che viene chiamata golfo mistico o quarche cosa di similare, e il cui scopo è quello di amplificare il sono dell’orchestra. Cosa che magari in quell’occasione il golfo mistico fece, scanoscendo però che di musica non si trattava. pag. 208 "Unica recita dell’immortale opera Il birraio di Preston, del maestro Luigi Ricci napolitano. Che cotanto trionfo ha ricevuto non solamente in Italia ma nel mondo intero. Le opere sue, da" La cena frastornata" a "Il sonnambulo", hanno avuto il plauso di Re e Imperatori nonché del vasto e colto pubblico. Arra di sicuro successo in Vigàta ne sono il tenore cantante Liborio Strano e l’attrice cantante Maddalena Paolazzi che per l’occasione avranno l’effige dell’innamorato birraio e della di lui bella fidanzata Effy. La rappresentazione, adornata di variopinte scene e di magnifici costumi, avrà luogo alle ore sei di sera precise. Rispettosi del pubblico, i cantanti tutti, l’orchestra fatta di quattordici professori diretti dal Valente Maestro Eusebio Capezzato, il Coro dell’Accademia Vocale di Napoli, attendono con animo palpitante il plauso dell’intelligente pubblico di Vigàta che al novo teatro Re d’Italia vorrà graziosamente convenire." pag.211 "Ma noi due non ci siamo visti per la prima volta alla Pergola?" "Certo, Dindo, al teatro della Pergola, ma sei giorni dopo. L’era mi’a questo birraio ma un’opera di Bohherini, mi pare si chiamasse La Giovannina o qualche hosa di simile". "Si chiamava La Clementina, ora mi ricordo" disse torvo Bortuzzi e qundi ammutolì.
pag. 229 Parve invece inspiegabile la reazione di panico che si ebbe all’inattesa "stecca" (come si usa dire nel gergo dei musici) della pur esimia cantante Maddalena Paolazzi. La "stecca", si sa, è incidente malaugurato che può accadere in qualsivoglia teatro e fra cantanti eccelsi: ma mai, a memoria d’uomo, errore simile provocò, in niun teatro al mondo, sì forsennato terrore. "La concessione del telefono" Sellerio editore, IX ed. 1999
pag. 24 Tu, qualisiasi cosa che fai, fai danno. Non ti basta il quadriciclo a motore? Non ti basta il fonografo Edison? pag. 36 Sempre a Parigi, dove si era recato con la moglie in occasione dell’Esposizione Universale del 1889, ha comprato anche un fonografo Edison con un rullo di cera che fa sentire musica se uno si porta all’orecchio un annesso tubo conduttore. pag. 48 "Non è malatìa di corpo, Taninè, ma d’animo. Senti, mi vado a corcàre ch’è meglio". "Proprio proprio non te la senti di mangiare?". "Nooo! Te lo devo cantare in musica?". pag. 59 Non pago di ciò, il Genuardi si è fatto pervenire, sempre dalla Francia, una macchina parlante e cantante, chiamata, alla francese, "phonograph Edison".
"La mossa del cavallo" Rizzoli - I ed. aprile 1999. pag.93 E intonò, con voce acutissima, un "Inno per un’anima che lascia il mondo" scritto e musicato dallo stesso patre Carnazza che ogni tanto di cose spirituali si dilettava: "Mondo più per me non sei,/Io per te non sono più!/Tutti già gli affetti miei/Gli ho donati al buon Gesù" pag.94 Prontissima, la signora Ersilia Cuccurullo in Imbrò intonò un inno, "Quale è il frutto del peccato?", originariamente in latino, ma che nella sua versione suonava pressappoco accussì: "Quali fruttum habuisti / del piccatu ca facisti? / Nelle fiammi dell’inferno / ora arrosti a foco eterno." pag. 171 Da quest’ultima notizia, la signora Ersilia Cuccurullo aveva formulato chiaro concetto e cioè che, come Gesù, patre Carnazza era risuscitato e per questo non lo trovavano. Sarebbe indubbiamente ricomparso ai suoi fideli. Perciò l’inno che in quel momento stava cantando si chiamava "Resurrècchisit". "La scomparsa di Patò"
Mondadori - I ed. novembre 2000. pag.30 L’Araldo di Montelusa La grande rappresentazione del "Mortorio" a Vigata Quest’anno c’è stata una graditissima e commovente innovazione: al momento della salita al Calvario, la locale banda municipale, egregiamente diretta dal Maestro Salvatore Cusumano, ha eseguito una dolente marcia funebre all’uopo composta dal Maestro. pag.71 La Gazzetta dell’Isola Echi della scomparsa del ragioniere Patò (…) Un lettore ci invia questo foglietto che un cantastorie ambulante ieri distribuiva a pagamento ai passanti di Montelusa: Ascutati stu fattu capitatu Mentr’era lu Martoriu ricitatu Ni la chiazza cchiù granni di Vigàta, Davanti a ‘na gran fuddra stirminata Stava Gisù ‘nchiuvatu nni la Cruci E Giuda, ‘u tradituri, facìa vuci Di sprufunnari ‘n funnu di lu ‘mfernu E di patìri nni lu focu eternu. La terra a li so pedi si raprì E Giuda tuttu ‘nzemmula spirì. Bravu l’atturi ca Giuda impirsonò E a gran vuci la genti lu chiamò. Ma l’atturi (di nomu fa Patò) Supra lu parcu nun si prisintò. Chiama ca chiama, cerca ca ti cerca, Mìsiru suttasupra Arca e Amerca, Di chistu tali, Antoniu Patò, Mancu l’ùmmira cchiù si truvò. "Fu Diu sdignatu ca lu vosi puniri", Ci fu quarcunu ca si misi a diri. "L’omu nun è acqua ca sbapùra", Ci fici’ n’antru, "si si cerca ancura, La crozza armenu s’havi a truvari Macari dintra a ‘n puzzu d’acqui amari". Ne diamo la traduzione. Ascoltate questo fatto capitato mentre il "Martorio" (nota: il cantastorie lo chiama così perché in questo modo viene popolarmente pronunciato) veniva recitato sulla piazza più grande di Vigàta davanti a una folla sterminata. Stava Gesù inchiodato sulla Croce e Giuda, il traditore, gridava di voler sprofondare in fondo all’inferno e di voler patire nel fuoco eterno. La terra ai suoi piedi si aprì e Giuda di subito scomparve. Bravo l’attore che impersonò Giuda e la gente a gran voce lo chiamò. Ma l’attore, che di nome fa Patò, non si presentò sul palcoscenico. Chiama e chiama, cerca e cerca, misero sottosopra l’Arca e l’Amerca (nota: espressione popolare che significa "ogni cosa"), ma di questo tale, Antonio Patò, non si trovò nemmeno l’ombra. "E’ stato lo sdegno di Dio che ha voluto punirlo" qualcuno cominciò a sostenere. "L’uomo non è acqua che evapora" disse un altro. "Se si cerca ancora, il cranio almeno si finirà col trovare sia pure dentro a un pozzo di acque amare" pag. 245
La Gazzetta dell’Isola Una coincidenza Iersera, incantati, assistevamo a una impeccabile rappresentazione dell’opera "Norma" del nostro immortale conterraneo Vincenzo Bellini. Nello splendido teatro guarnito di belle donne ingioiellate, la musica e il canto ci stavano trasportando fora dal nostro terreno mondo, lontano da affanni e intrighi, quando, all’attacco di uno tra i più celebrati passaggi, quello che fa "Dormono entrambi", il nostro pensiero disagevolmente di colpo piombò a terra. Risvegliandoci. Sì, perché immantinenti la nostra mente corse a due altri dormienti. Ci riferiamo al delegato di P. S. e al Maresciallo della Benemerita di Vigàta i quali, dopo avere girato a vuoto per giorni e giorni e dopo avere finalmente imboccato la strada che portava a una certa Banca, ora "dormono entrambi". Difatti delle indagini sulla scomparsa del ragioniere Antoni Patò non si riesce a saperne più niente. Anche il Questore di Montelusa e il Capitano Comandante dei Carabinieri "dormono entrambi". Sogni d’oro, signori.
"Biografia del figlio cambiato" Rizzoli - I ed. Dicembre 2000.
pag. 29 E Pirandello di quel viaggio, e dei giorni dell’esilio, scriverà sull’eco del racconto materno nel 1915. Vivono con la carità che fa loro uno zio, il fratello canonico di Giovanni, di idee diametralmente opposte, che canterà il Te Deum in cattedrale per il ritorno di Ferdinando II di Borbone lo stesso giorno nel quale Giovanni parte per Malta. Te Deum Inno in onore della Trinità in uso nella liturgia cattolica e nel culto protestante (incomincia con le parole Te deum laudamus). E’ anche noto come "inno ambrosiano", sebbene l’attribuzione a S.Ambrogio sia leggendaria. Era già conosciuto all’inizio del secolo V; dal secolo XVI i compositori cominciarono a trattarne il testo polifonicamente, alternandolo con la melodia originale o prendendone il tema come base. Rimasto in uso fino ai giorni nostri, il Te Deum è stato musicato, tra gli altri, da Lully, Charpentier, Purcell, Durante, Haydn, Mozart, Berlioz, Bruckner, Verdi. pag. 107 (…) una scrollatina di spalle per assumere le condizioni statiche della soma e.. via di corsa, con un passo cadenzato ed uguale, come a seguire il ritmo di una musica, già fissata nell’orecchio da lunga abitudine. pag.125 Frequenta i teatri, ascolta il Tannhauser e diventa fervente wagneriano, fervore che non manterrà a lungo, anzi.
pag.157 Nel salotto, Antonietta s’adduna che c’è un bel pianoforte nuovo: senza spiare nessun permesso, si susi dal divano, alza il coperchio dello strumento, scopre i tasti mettendo da parte la striscia di velluto arriccamato che li ricopre, s’assetta e piglia a suonare. La signora Fragapane tenta d’intavolare una discurruta qualsiasi, ma quella nenti, pare che manco la sente, continua a suonare. Ogni tanto però la melodia s’interrompe, Antonietta si mette quasi a picchiare i tasti con raggia, prosegue così per tanticchia poi ritorna a suonare un tema riconoscibile. La signora Fragapane comincia a preoccuparsi, le spia se desidera un caffè, un’acqua di zammù, una granita. Nenti, solo quel suono continuo, ora normale ora fatto di note straziate e strazianti. (…)
pag.178 Ma, su questa linea, ci sarebbero da aggiungere il "Kean" di Dumas e la "Danza macabra" di Volkoff, storia di un direttore d’orchestra che tanto s’immedesima nella "Danza macabra" di Saint-Saens da impazzire.
pag.257 Forse Luigi non intendeva scrivere altro, della "Favola": quella prima scena gli era più che bastevole per la funzione che doveva avere nei "Giganti". Senonchè, nel 1932, ne fece un libretto d’opera per la musica di Gian Francesco Malipiero. (…)
"L’odore della notte" Sellerio ed. - II ed. Giugno 2001 pag. 38 Vuoi vedere che Lohengrin Pera, quel cornuto dei servizi, aveva trovato modo di vendicarsi a tanti anni di distanza?
pag.68 E poi chi era questo Turiddru? Lo seppe un attimo doppo, quando il gemello pappagallo vero, che di nome si chiamava evidentemente Turiddru, si schiarì la voce e attaccò a cantare l’Internazionale. La cantava proprio bene e Montalbano si sentì acchianare dintra un’ondata di nostalgia.
pag.80 Ma quel "buona" di Montalbano non era rivolto alla picciotta. Era rivolto a quella parte del suo corpo che, sollecitata, non solo aveva prontamente risposto, ma aveva macari intonato a voce squillante un inno patriottico:" Si scopron le tombe, si levano i morti..".
pag.119 Fazio fece un sorrisino trionfale. Forse, in sottofondo, s’immaginava la marcia dell’Aida.
pag. 153 I due signori che scinnirono dal gommone erano indubbiamente il commissario Salvo Montalbano e il suo vice, il Dottor Domenico "Mimì" Augello, i due noti custodi della Legge. Ma quelli che li incontrarono, strammarono alquanto. I due si tenevano sottobraccio, traballavano tanticchia seulle gambe e canticchiavano a mezza voce "la donna è mobile".
pag. 156 Era il telefono a suonare, non il violino del maestro Cataldo Barbera il quale, appena apparsogli in sogno, gli aveva detto: "Ascolti questo concertino". "Il re di Girgenti"
Sellerio editore II ed. Ottobre 2001 pag. 32
Allora i travaglianti stascionali attaccarono la canzuna di San Giovanni, quella che faceva: Cumpari, cumpari cu u San Giuvanni, semu cumpari insinu a Natali. Zoccu avemu nni spartemu, pure l’acqua ca vivemu, e s’avemu pani e ossa, nui nni jamu dintr’a fossa, e s’avemu pani e risu, nui nni jamu in Paradisu. Gisuè sorridì. La truppa, con quella canzuna, gli stava arricordando quale era il doviri suo, e cioè spartire con tutti quello che il principe gli aveva dato come ringrazio. pag. 45
Gisuè pigliò la curruta e con un balzo s’attaccò alle gambi di don Filippo. Si susì da terra, pigliò a dondoliare. E mentre dondoliava, pinsava al sacchitello con le cento onze che il principe gli aveva consegnato appena era arrivato e che ora teneva alla cinta. Mentre dondoliava, gli venne di cantari per la cuntintizza. E si mise a cantare. pag. 105
Improvvisa una voce, che era la sua ma che non era la sua, disse nella sua testa queste paroli: "A onde te ascondiste, / Amado, y me dexaste con gemido?". Erano i primi due versi del Cantico spirituale di San Juan de la Cruz* che lei sapeva a memoria. Dove ti sei ammucciato, amore mio, lassandomi sula e chiangente? Bisognava andarlo a circare. Si susì, ma le venne difficoltoso starsene dritta, aveva le gambe trimanti. E inoltre lo sguardo era come oscurato da una specie di neglia. Davanti alla porta della sò càmmara si fermò, taliò a dritta e a mancina. Il corridoio era deserto. "Oh felice ventura / uscii né fui notata / essendo la mia casa addormentata". Era sempri San Juan de la Cruz che cantava la canzoni dell’anima. "Nello scuro e sicura / per la segreta scala, mascherata..". Qui San Juan si sbagliava, la scala non era segreta e lei non era mascherata, ma era lo stesso. Dove stava andando? Non lo sapiva, ma continuava a caminari pi la casa. "Sola mi dirigeva / la luce che nel cuore mio splendeva..". Arrivata sul pianerottolo, la scala continuava, ma c’era puro la porta dello studio. Vi si diresse. "E questa mi guidava / più certa che la luce a mezzogiorno / là dove m’aspettava / colui ch’io ben sapeva / in luogo ove nessuno era d’attorno". Difatti nello studio non c’era nisciuno. pag. 111 Donna Isabella principiò ad acchianare l’escalera che portava alla càmmara da letto e cantava sin mover los labios: "La blanca palomica / al arca con el ramo se ha tornado…". * Il "Cantico spirituale" di S.Giovanni della Croce, citato più volte nelle pagg. dalla 105 alla 111, non è in musica; ho scelto quindi di inserirlo come citazione musicale esclusivamente nei due passi in cui la protagonista della scena, Donna Isabella, ne canta i brani. pag. 112 Rimbombò un tercer canonazo e fu come un signale, pirchì dalle tricento e passa pirsone che circondavano la casa, principiò un coro: "Ficcaccilla, Gisuè / ficcaccilla avanti e narrè, / Gisuè, scana e ‘mpana / falla prena la buttana / Falla gràvita, Gisuè / megliu a tia nun ci nn’è / Dunaccìllu lu dovuto / a stu duca gran cornuto!". pag. 129 E’ necessario che il duca torni ad essere picciliddro. Fatelo giocare. Con le palluzze colorate. Colla comerdia o stiddra aquilone. Cantategli filastrocche e ninne nanne. pag. 150 Nelle grecchie, mentre la taliava, Zosimo sentì come una musica, una volta aveva ascutato suonare un violino e una mandola, ora ce n’erano a centinara. "State sonando?" spiò al mago senza levare gli occhi dal cannocchiali. "Perché? Stai sentendo sonare?". "Sissi" "Non sono io. Tu stai ascutando la musica della luna". pag. 153 "Il Signuruzzu, sempri sia lodato, / la bona jornata m’ha regalato". A Zosimo piacì assai il modo come l’omo parlava. Diceva paroli, ma pareva che cantasse musica. pag. 155 Doviva essere, la poesia fatta sul serio e non per sgherzo, come un venticeddro leggio leggio che pettinava l’erba, metteva in ordine le foglie dell’àrbolo, cangiava la forma delle nuvoli, faceva addiventare musica le pampine della vite. pag. 157 Mostrò il flautu al picciliddro. "Chisto flautu è vecchio almeno di tricent’anni. E’ l’osso di un vrazzo di un mio catanonno, che di nome faciva Artemisio ed era il meglio serparo del mondo. Quanno morì, i figli sò si spartirono l’ossa e ne fecero strumenti. Lui ci parlava, alle serpi". Pigliò a sonari un rumori che pareva l’istisso strisciamento della serpi che ora s’allonga ora s’arrotunna e Zosimo, attaccato dal sonno, principiò ad avere gli occhi a pampineddra. pag. 162 A questo punto priciso del conto del briganti, Grigoriu si mise a cantari. "Piglia l’infami e spaccaci l’ossa, / pistalo bene, riducilo a unguentu, / catafottilo doppo in una fossa, / coprila bona, ca non ci trasi ventu". (…) Grigoriu si fece n’autra cantatina: "Al mondo c’è una sula cosa certa: / unni vai vai, la giustizia è torta". "A fartela corta, il giudice desi ragione al morto e al patre del morto. E mi condannò a essere appiso. Però era un galantomo. Venne di notti in càrzaro per dirmi che non aveva potuto fare diversamenti, Arrigo d’Arrigo l’aveva amminazzato. Come dice la canzuna, Grigò?". "Guardati dalli nobili e putenti, /sono latri, sasini e pripotenti" cantò Grigoriu. pag. 164 Grigoriu si fece l’ultima cantata. "L’omo ch’è omo non rivela nenti, / manco con cento colpi di fendenti". pag. 186
La casa allato all’Archivio era quella indovi ci abitava don Stellario Spidicato. E fu dal tirrazzo di quella casa che si partì una voci che cantava, accussì potenti che arriniscì a farsi sintiri supra il gran vociare. Era una fìmmina, perigliosamente addritta supra la balaustra del tirrazzo, che cantava un’aria d’opira: O mio ben, mi trema il core! Passan leste le mie ore, tu non vieni, io mi doloro, vieni presto ché mi moro! Arriconobbero, sotto la parrucca e la vesti fimminina, il Capitano di giustizia don Stellario Spidicato, completamente imbriaco, che faceva gestuzzi e mossette come una fìmmina vera ma un poco troia. Don Stellario s’isò la gonna fin supra il ginocchio piloso e fece la mossa. Riattaccò. Io sono qua, però tu no! La mia gemma a chi la do? Scoppiò un applauso di core, quarcuno addimannò le ripetizioni, il bis. E don Stellario, doppo avere fatto l’inchino di ringrazio più volte e ogni volta arrischiando di cadiri e catafottersi ‘ n terra, stava per riattaccare la canzuna, quanno dal palazzo di fronte, che ci abitava il barone Bonifazio di Roccalumèra, partì un colpo d’arma di foco. pag. 189
I giurati che governavano Montelusa, a parte il sinnaco e consultore don Tìndaro Dedomini, erano don Alterio La Seta, don Filiberto Giardina, don Occàso Barbèra, don Silvestro Cozzo e din Tinino Titò. Proprio accussì la genti lo chiamava, "din", per farlo sonare a parte da tutto quello scampanìo di "don", pirchì quanno parlava, caminava, taliava, pariva priciso una fìmmina e non un omo. pag. 195 "Questo non è un buon argomento per il vescovo" osservò il canonico. "Sua cillenza li considererebbe martiri e buonanotte ai sonatori". pag. 203
"Se voi lo dite alla genti, succede l’opira" fece don Alterio La Seta che aveva avuto il suo stesso pinsèro. "Se opira devi essere, opira sia" disse una voci. pag. 210 Mentre si spiavano che vinisse a significare quella rapritina di portone, la campana della cappella privata del pìspico si mise a sonare e tutti isarono gli occhi, pronti a rispondere alla chiamata di sua cillenza. Ma il vescovo non li chiamava. Parato sulenne, con la mitria spirtusata nuovamente in testa, Ballassàro Raina pinnuliava da supra la torretta più alta, sospeso nel vuoto. Una corda, che gli passava sotto le ascelle e il cui capo era legato a un merlo, lo reggeva. Calàzio pigliò la corda, la tirò e la lasciò nuovamente: il pìspico principiò a oscillare da dritta a mancina e da mancina a dritta che pareva il batacchio d’una campana. "Din, don" si mise a fare la folla che assisteva alla scena ammassata nei vicoli che portavano alla piazza. pag. 273
Padre Siqueiros si calò leggermente verso la grecchia di dritta di patre Uhù e principiò: "Ave Maria, gratia plena…". Aveva una voce di basso, potente, pareva un tuono che rotolava. pag. 304 S’aspittava che Zosimo tanticchia s’infuscasse, invece la cosa fu arriversa. L’omo si susì dalla tavola e si mise a ballari torno torno alla mogliere, cantando per la cuntintizza tanto forte che finì a burdello (…) pag. 310
Alla luce della luna curriva filato e si firmò sulamenti un mumentu in mezzu a un canneto per strappare una canna e doppo, currennu currennu, con il cuteddru tagliò la canna, ci fici i pirtusa giusti, attaccò con un filo di raffia che aviva in sacchetta i cinco pezzi di canna tagliati a lunghizza diversa l’uno allato all’altro. pag. 311
Portò alle labbra lo stromentio di canna che si era fatto e ci soffiò adascio. Lo stromentio arrispose al suo sciato. Allura si pigliò di coraggio e, sempri adascio adascio, principiò a circare le note. Doppo una mezzorata le note gli vennero tutte alla mente. Era una musica che gli aveva fatto ascutari patre Uhù, serviva a firmare per un mumentu i morti mentre principiavano a scinnire nel loco che non si torna, e quella musica abbisognava sonarla, gli aveva spiegato, come se fosse l’ultimo gesto della tò vita, con l’istissa dispirazioni, raccogliendo in quel sciato tutte le pene e tutte le spiranze, tutti i jorni e le notti, tutte le lagrime e tutte le risate non sulamenti di la vita tò, ma macari di la vita di tutte le pirsune accanosciute, vive e morte. E mentri si sonava abbisognava puro ripetiri certi paroli che principiavano accussì: "Mòirai, aperésioi, nuktòs fila tékna melaines…". E allura Zosimo sonò dicenno nella menti le paroli. E mentri sonava, sintiva che tutto quello che lui era stato, era e sarebbe stato si condensava in quel suo sciato che le canne cangiavano in musica. Poco a poco, davanti ai sò occhi principiò a formarsi una nuvolaglia biancastra che portava un barlume splapito e si faciva sempri più consistente. Obbligò il suo cori a non firmarsi, a fari girari il sangue, a fari gonfiari d’aria i sò purmuna: se interrompeva il sono, tutto era perso. E finalimenti la vitti. Ma era virità o era tutta fantasia? Non aviva nisciuna importanza. Ciccina vistiva l’abito col quali s’era maritata (e lui avrebbe saputo doppo che propio con quell’abito l’aveva vistuta la mogliere di Gaspanu levandogli le robbi macchiate di sangue) e caminava a lentu dandogli le spalli. Si vidiva chiaramenti che non aveva gana di prosecutare nella strata, ma era obbligata a farlo. Zosimo, non putennu staccari le labbra dalle canne, la chiamò, la chiamò a longo con gli occhi. Ciccina dovitti sentirlo pirchì si firmò e lenta lenta si voltò a taliarlo. Aviva la stissa faccia, pricisa, di quanno era mortu Gisuè, sò figliu. Doppo raprì la vucca e disse senza paroli, ma Zosimò la sentì lo stisso: "Oramà…". E fece un gesto con la mano, come quanno si jetta ‘n terra una cosa inutili. Si voltò nuovamenti e ripigliò la strata. Zosimo continuava a vidirla mentri s’alluntanava e capì ch’era la musica che gliela manteneva davanti agli occhi, ancora tanticchia, prima che riscomparisse nella neglia. Allura staccò le labbra dalle canne e lo scuro nella grotta tornò di colpo. pag.337 Doppo una mezzorata, si sentì il sono delle trombe che veniva a significare che so Maistà e la regina erano arrivati e che la festa principiava pag. 364 In testa alla processioni che si partiva alle otto di sira da Montelusa, ci stavano le fìmmine che portavano canistra con frutta e virdura, appresso vinivano i cantatori, màscoli e fìmmine, che cantavano le lodi di santu Campagnolo e gli facivano il ringrazio e doppo tutti i fedeli. All’istissa ora, alle otto, una processioni ‘ntifica si partiva da Montereale, macari issa in anuri di santu Campagnolo. A mezzanotti spaccata, le dù processioni s’incontravano sutta alla muntagneddra dell’Omomortu e si mittivano a cantari e ballari. Caminanno, i cantatori màscoli facivano la impruvvisa. Per esempio, agitando in aria un cetriolo, cantavanu: O gran santu Campagnolu, mi lu dasti lu citriolu, mi lu dasti grossu e duru ca s’attrova ni lu scuru. I cantatori fìmmine facivano macari loro una impruvvisa. Pigliavano un melone nel quali era stato fatto un pirtuso nico e cantavano: O gran santu Campagnolo, cu ‘u muluni m’accunsolu! Quant’è beddru e sapurusu! Cu s’u gusta stu pirtusu? Le dù processioni, a mezzanotti spaccata, s’attrovarono proprio sutta all’Omomortu. I màscoli si salutarono, le fìmmine s’abbrazzarono e si vasarono. Doppo, come d’abitudini, attaccarono la canzuna del santu: Santu beddru, fammi la grazia Ca la mè panza sia sempri sazia, teni luntana la tinta disgrazia… pag. 368 Ma la rumorata viniva dalla càmmara di sutta, era la vuci di una fìmmina che cantava. pag. 379 A sira tutta la citati apparse illuminata come la notti di l’Ascensioni, la genti cantava e ballava. pag. 396 Caminò e strata strata non incontrò anima criata, Girgenti pariva diserta. S’addiresse verso la piazza dalla quali inveci si aprtivano risate, canti , vociate. pag. 402 Alla fini arrivarono a un compromisso, mentri Zosimo veniva incurunatu, il canonico diciva una missa sullenne di Taddeum (…)
Le parole raccontate Rizzoli editore Prima edizione 2001 pag. 19 Dopo una settimana gli attori mi telefonarono, mi raccontarono che il mio assistente aveva completamente stravolto lo spettacolo, cambiando le parti, i movimenti, gli interventi musicali, le luci. pag. 29
“Se ti venisse data la possibilità di mettere in scena il lavoro che più ti piace, con tutti i mezzi possibili e immaginabili, che sceglieresti?”
Le risposte dei candidati spaziavano da “Edipo re” ad “Amleto” a “La vita è sogno” ai “Sei personaggi in cerca d’autore”. Io risposi senza alcuna esitazione (era ed è rimasto il mio sogno di regista):” La vedova allegra”.
Franz Lehar (Komàron, 1870 – Bad Ischl, Linz, 1948) Lehar è uno dei più conosciuti compositori ungheresi. Dopo gli studi al Conservatorio di Praga esordì come violinista in orchestra. Fu successivamente direttore di banda in vari reggimenti austro-ungarici; dal 1902, dopo le dimissioni dall’esercito, si dedicò interamente alla composizione. “La vedova allegra” (titolo originale Die lustige Wittwe) ,è la sua opera più famosa. Fu composta nel 1905 e divenne subito un successo internazionale. pag. 32
I guai per un regista che, in Italia, deve mettere in scena un autore, classico o moderno, che adopera il coro, cominciano proprio da lì, dal coro.
Gli italiani usano praticare, e assai si dilettano nel farlo, solamente il canto corale, dal “Nabucco” a “Lassù sulle montagne”; ho conosciuto alti magistrati e fruttivendoloi, primari e commessi che puntualmente si ritrovavano in una corale e lì passavano ore cantando insieme in letizia. Ma appena dal canto corale si passa al coro parlato, le cose cangiano radicalmente. Tutto lo sfrenato individualismo italico viene a galla di colpo.
Lassù sulle montagne Canto tradizionale italiano pag. 41 Una volta, per effetti scenici, si intendevano tutti i rumori e i suoni che, da fuori scena, arrivavano in palcoscenico ed erano determinanti ai fini dello svolgimento della rappresentazione. Si trattava di zoccoli di cavalli in avvicinamento, cani che abbaiavano, colpi di pistola, raffiche di vento, pioggia scrosciante, cupo rombo di tuoni, fischiettio di un passante, finestra che sbatte per il vento, passi sulla ghiaia, suono di un violino o di una chitarra, sciabordio del mare e via così. pag. 42 Fu Menirovic-Dancenko a risolvere la situazione creando un suono non realistico, misterioso, d’imminente catastrofe (in fondo, era quello che Cechov voleva) ottenuto con corde di pianoforte pizzicate, contrabbassi e campanelle cinesi. pag. 47 Comunque, fare le luci a tarda notte in compagnia del solo tecnico, nel musicale silenzio di un teatro vuoto, vedere a poco a poco la scenografia pigliare senso e corpo, vivere, era veramente esaltante malgrado la stanchezza e il sonno che stava lì per sorprenderti a tradimento. pag. 55
Eduardo usava improvvisare solamente con due o tre attori dei quali interamente si fidava e che prontamente si uniformavano al ruolo di “spalle” (Armstrong diceva che in una jam session non era importante sapere che cosa si suonava ma con chi si suonava)
Jam session Espressione (letteralmente “seduta-marmellata”) con cui si indicano, nel gergo jazzistico, gli incontri informali tra vari solisti, spesso a tarda notte, fuori dai circuiti professionali. Stimolante momento di confronto creativo alla fine dello swing, e di verifica del nuovo linguaggio nel bop, si trasformò poi in una formula concertistica con aspetti competitivi e di emulazione, ad esempio nella famosa serie del “Jazz at the Philarmonic” organizzata nel dopoguerra dall’impresario Norman Granz. Dall’esperienza delle jam session derivarono, negli anni ’50, le “blowing sessions”, sedute discografiche fondate sulla successione di lunghi assoli di musicisti radunati per l’occasione. pag. 69
C’era, nello spettacolo, un momento di estrema tensione, quando cioè i rivoluzionari irrompevano nel convento al canto del Ca ira e imponevano alla vicesuperiora di aprire le celle.
pag. 111 Il viaggio dentro il teatro di un uomo che ha fatto teatro è, inevitabilmente, la storia della sua vita. Può avvenire, in ogni altra arte – in letteratura, in pittura, nella musica – che il prodotto di un’attività artistica non coincida con l’esistenza di colui che la produce. pag. 138
Io racconto, nel modo per me più preciso e più aperto, una mia storia. Poi passo col cappello. Può darsi che questo cappello si riempia di soldi perché il racconto che vi ho fatto, da cantastorie, vi è piaciuto. Può darsi di no.
La paura di Montalbano Mondadori editore I edizione Maggio 2002 pag. 79
“Invece l’altro accenna a una reazione e il Tupìa gli spara. Quello che segue lo sappiamo. Ora bisognerebbe cercare la…”
“…la Titina?” spiò serissimo il commissario.
pag. 81 “Lo vedeva spesso?” “Nonsi. Ma se è chistu ca voli sapìri, nell’ultimi dù misi era cangiatu.” “E come fa a dirlo se non lo vedeva?” “Pirchì lu sintivu. Da dù misi cantava.” “Cantava?!” “Sissi. Cu tutta la vuci ca aviva. La matina quannu s’arrisbigliava e la sira quanno turnava.” “E prima non cantava?” “Mai.” pag. 82 “Mi leva una curiosità? Perché lo chiamavano Dindò?” “Ci piacivano le campane. Quanno sunavano, faciva din don cu la testa.” …….. Com’è che dintra a quella cella fitusa era trasuta la gioia, una cuntintizza tale da far sì che Dindò, che mai ci si era provato nella vita so, in un certo giorno si mettesse a cantare a squarciagola senza finirla più fino al momento nel quale gli avevano sparato? pag. 89 “Ma tu riesci a dirmi per quale motivo un povero disgraziato come quel ragazzo bambino a un certo momento, in tutto quello squallore, si mette a cantare?” E da Livia gli venne una risposta semplice che proprio nella semplicità, anzi nell’ovvietà, trovava la forza della verità assoluta. “Per quale motivo, Salvo? Per amore.” pag.119 “Che viene a dire?” “Che stiamo dintra a un’òpira indovi che si canta, dottori. Non ha viduto che il sangue supra la mè giacchetta è suco di pumadoro?” Sotto la taliata sbalordita del commissario, Catarella appuiò la mano a terra, si susì addritta, s’aggiustò il birritto della divisa che gli stava di traverso, si mise una mano sul petto. E principiò a cantare. Certo, la situazione era quella che era, ma il commissario non poté fare a meno di notare che Catarella aveva una bella voce impostata. pag. 120 “Nonsi! Ma come ce lo devo diri? Chista non è l’impresa di pompa funebria Cicalone! Chisto è il commissariato di Vigata di pirsona pirsonalmenti! Nonsi, vossia scangia nummaro! Voli che ce lo dico cantanno?” Montalbano oramà si era fatto pirsuaso che a Vigàta doveva essersi costituita un’associazione segreta di figli di buttana che se la scialava a telefonare a Catarella facendo finta di sbagliare nummaro. Però quel verbo, cantanno, gli aveva di colpo fatto tornare la memoria del sogno. “Catarè, ma lo sai che tu canti benissimo?” …. “Dottori” fece Catarella taliandosi torno torno e abbassando la voce in tono cospirativo “ma vossia, a mia, mi assentì pi caso cantari?” “Sì.” “E quanno, dottori?” spiò, preoccupatissimo, Catarella. “Stanotte.” Catarella fece una faccia ammammaloccuta. “Dottori, ma io stanotti nel letto mio di mia m’attrovavo!” “Vero è. Ma io ti sentii cantare un sogno.” pag. 122 “Com’è che ti preoccupa tanto se uno ti sente cantare?” Catarella fece un sospiro funnuto. “Ah, dottori, vossia devi assapire che quanno che io canto, porto danno. Sugno accussì stonnato che appena che mi sentono i cani baiano. La voli che ci cunto una cosa? Una vota ero in nella macchina di me cuscino Pepè e tutto ‘nzèmmula mi pigliò gana di cantari. Appena raprii vucca Pepè si scantò, sfagliò, stirzò e andammo a catafotterci in un vallone. Pepè si rumpì malamenti quell’osso che sta proprio in cima al culo, rispetto parlanno. Come si acchiama? Ah, sì, l’osso sacrosanto.” pag. 142 Ma l’armonia tra lui e il suono delle sfere celesti si era spezzato di colpo. pag.148 Pareva di stare dintra a un tamburo suonato da centinara di tambutinara, era la grandine sul tetto di lamiera. pag. 255 S’insaponò, si sciacquò, cantò tutt’intera, stonando, la marcia trionfale dell’Aida e mentre stava per pigliare l’asciucamano gli arrivò lo squillare del telefono. pag. 261
Sul corridoio sparluccicante si aprivano una decina di porte. Da una veniva un lamento dispirato e continuo, da un’altra la musica di una radio o di una televisione, da una terza un’esile vecchia voce fimminina che cantava “C’è una chiesetta, amor / nascosta in mezzo ai fior…”
pag. 283 In salotto, straripante da una poltrona allocata allato alla seggia a rotelle della signora Clementina, c’era una cinquantina grassissima che fin dalle prime parole si rivelò essere vucciriusa, vale a dire una che invece di parlare usava un tono di voce parente stritto di un do di petto. pag.285 Abbastava tanticchia di bona volontà, veniva a sapere quello che c’era da sapere e bonanotte ai sonatori. La linea della palma Mondadori editore I edizione Maggio 2002 pag. 50 Ci sono queste decine di tamburinari con i ritmi arabi, questo pane a bizzeffe, queste urla concitate... pag. 51
Cosa accadde quando il presidio nero degli americani si accorse che san Calogero era nivuro? Che pagando fior di dollari furono loro, i soldati americani, a portare a spalla la vara del santo... In testa ce n’era uno, indimenticabile che sparava in aria col mitra, e dietro tutta la banda municipale del paese, che aveva ceduto gli strubmenti ai neri che suonavano spirituals. Un episodio di una bellezza rara, di una commozione irripetibile, e l’ho vissuta in prima persona, perchè ero qui, a Porto Empedocle.
pag. 134
Una sera -verso le otto- scoppia una musica celestiale, un’orchestra grandiosa che suonava dal vivo. Avevano costituito un’orchestra vera e propria, perchè erano enormi ‘ste divisioni che sbarcavano ed erano talmente fornite che non gli mancavano neanche gli strumenti musicali. Quella sera, in aperta campagna, suonavano jazz melodico. E chi dirigeva? Il mio povero disgraziato di soldato. Finalmente riesco a parlargli a lungo:” Come ti chiami?”. “ Martin. Sono un compositore di musica...” E mi canticchia una canzone allora molto famosa: Stella d’argento nel Messico d’or
O qualcosa di simile. E aggiunge:” E’ mia, questa è mia, l’ho scritta io”. E così ho conosciuto Martin, del quale -purtroppo- non ricordo più il cognome.
pag. 161
Ricordo anche che nel viaggio di ritorno, in treno, leggevo una sua poesia (di Eugenio Montale, NdR):” Il vento che stasera suona...” eccetera. A un certo punto montale scrive:” suonasse pure te stasera/scordato strumento/cuore”.
Mi spuntarono le lacrime. E allora il viddanu che era assittatu in questo treno disastroso a carbone, che ci impiegava quattr’ore e mezzo per fare Palermo-Agrigento, si preoccupò e mi disse:” Chi fa? Chianci vossia?”. “No” dico “mi trasì una cusuzzadi cravuni ni l’occhiu...”
Mi vergognai e riuscii a pararla in questo modo.
Ma a Palermo c’ero stato anche in un’occasione favorevole che va ricordata. Durnte il fascismo il jazz, come tu sai, era proibito. Allora, oltretutto, Sant Louis Blues diventava Tristezza di San Luigi... L’unica orchestra che suonava jazz era quella di un maestro che si chiamava Arturo Strappini, torinese. E suonava jazz vero, anche se poi lo copriva con nomi italiani per sfuggire alla censura del regime. io ho sempre amato il jazz. E l’ho amato moltissimo. Fino a una decina, quindicina di anni fa, ero capace di correggere un nome scritto sul’etichetta di un disco e avere ragione dicndo:”No, alla tromba hanno sbagliato. Suona quest’altro”. Leggo su un giornale locale che ci sarà un concerto del maestro Strappini
L’America non era ancora entrata in guerra, e vado a Palermo solo per assistere a questo concerto che si tiene -se ormai la memoria non mi fa brutti scherzi- al Tealtro Biondo. A metà del concerto, il maestro annuncia:”Questa sera è venuto a trovarci un grande musicista. Una leggenda del jazz americano: Tiger Rag con l’orchestra Strappini. E questo è stato, nella mia vita, un evento memorabile. Nick La Rocca era di famiglia siciliana, ed era venuto a trovare i parenti. Aveva capito che l’America sarebbe entrata in guerra. era già una person anziana. E posso dire di aver sentito suonare una leggenda.
Arturo Strappini Direttore d’orchestra torinese.
pag. 163 Angelo Musco junior era un altro frequentatore assiduo. In quegli anni Angelo si diplomò in composizione musicale musciando cinque poesie mie. Cinque poesie che si chiamavano “Porto”. E l’ultimo verso dell’ultima poesia diceva:”La salvezza è nel bianco di una vela”. La sera in cui si diplomò, improvvisò qualcosa al pianoforte:”... del giovan Camilleri/ noi diamo qui un ritratto/ diciamo perciò subito,/ che già è un poeta fatto./ però maggior fattezza/ avrà se ci rivela/ perchè stia la slavezza/ nel bianco di una vela...”. pag.191
“Un’ultima domanda: se lei avesse i soldi per mettere in scena il lavoro della sia vita, che lavoro sceglierebbe?” L’ultima domanda è di Costa: Tutti a questa domanda rispondevano: l’Edipo re, l’Amleto. Io dico:”La vedova allegra”. Orazio Costa:”Ma che dice?”. Silvio D’Amico intervenne:”No, Orazio. Guarda che è un capolavoro La vedova allegra. Comunque, Camilleri, lei vada”. E me ne andai con la certezza di non avercela fatta.
pag. 214
A Bergamo realizzo una novità lirica al Teatro Donizetti: San Giovanni decollato, musica del catanese Alfredo Sangiorgi.
pag. 217
Dopo le commedie di Eduardo, cominciai a produrre quello che sarebbe stato uno dei più grandi successi della televisione italiana: Le inchieste del commissario Maigret con Gino Cervi.
Decine di puntate, colonna sonora di Luigi Tenco, ”Un giorno dopo l’altro...”
pag. 222 Se mentre stai suonando un brano musicale ti viene in mente di fare piripin, questa è una cretinata. Così la trovata del regista è esteriore al testo pag. 291
Questo “Gradus ad Parnassum”, come dicono quelli che studiano pianoforte, quel sistema che insegna le scale per suonare.
L’ombrello di Noè
Pag. 86 E avrà sicuramente accompagnato il racconto con uno di quei dolenti canti di Ravanusa o Raffadali:” D’unni vinni ‘sta nevula nivura/ca lu figliu m’arrubbò...” Pag. 135
La musica, molto particolare, di cui solo in televisione sentii la necessità, venne appositamente composta da Vittorio Gelmetti.
pag. 216
Lesse infatti tutta “La favola” accompagnato soltanto da una pianista che suonava la musica originale composta da Malipiero.
pag. 229 Ci fu un applauso, che ancora mi commuove, su un silenzio: il momento dell’addio, quando si salutano tutti, si siedono, si guardano e poi si sentono i songali dei cavalli. “Fuori c’è mondo... mondo che vive e Cechov fa rumori di mondo.” I suoni creavano questa atmosfera incredibile, sospesa. pag. 255
E’ vero che ogni poeta lo si riconosce immediatamente dal suono. Un jazzista riconosce subito un altro jazzista. Chet Baker è inconfondibile.
Allo stesso modo si riconoscono Petrarca e Leopardi.
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Collage era un balletto di quarantacinque minuti. La musica era di uno dei maggiori compositori di oggi, Aldo Clementi (...)
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L’emozione fortissima, avevo cinque anni, ne sono sicuro, di andare a teatro per la prima volta, a sentire un’operetta che era Il paese dei campanelli e da quel momento avere, sempre, il sogno di fare un’operetta. Questo sogno l’ho sempre conservato. Infatti all’esame per essere ammesso in Accademia indicai La vedova allegra come spettacolo che avrei preferito sopra ogni altro dirigere. Ed era vero, non era una risposta provocatoria. Perchè tuttora se mi chiedessero: Andrea, Il giardino dei ciliegi, Amleto e La vedova allegra, è l’ultima regia della tua vita: quale vuoi fare? La vedova allegra: non c’è il minmo dubbio.
Questa spaventosa, potentissima emozione dei miei cinque anni si è proprio impressa dentro di me. Il fatto che ci fosse la musica e quelli cantassero, Madonna! che emozione mi diede.
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Un giorno il prete mi chiamò:” Senti, al collegio dei salesiani” io ero in un altro collegio “stanno mettendo in scena un’operina lirica, pechè non vai a dargli una mano?”.
Evidentemente una certa mia vocazione a dire come dovevano essere fatte le cose l’avevano notata. Andai, e mi ricordo -se hai pazienza te la canto-:” Le storie belle a leggere”... Questa ragazza povera che vendeva libri con la gerla, naturalmente interpretata d un ragazzo... “Le storie belle a leggere da me chi vuol comprare, ahi! che gridare è inutile non c’è da guadagnare”. Così cominciava quel’operina, sotto la neve fatta con la bambagia. Insomma, feci questa psudoregia e non ci pensai più finchè, quando scrivo Il birraio di Preston tra i libretti di Luigi Ricci ne trovo uno lo apro e trovo:” Le storie belle a leggere...” La mia prima regia, chiamamola così, era stata di un’opera di Luigi Ricci, lo stesso autore de Il birraio di Preston
Luigi Ricci (Napoli, 1805/Praga, 1859) Il Birraio di Preston - Su libretto di Guidi, venne rappresentata per la prima volta a Firenze nel 1847. Il giro di boa Sellerio editore I edizione, 2003 pag. 25
“Pietà l’è morta”, diceva profeticamente una canzone, o quello che era, di parecchio tempo avanti.
E via via stavano agonizzando macari la compassione, la fraternità, la solidarietà, il rispetto per i vecchi, i malati, per i picciliddri, stavano morendo le regole della...
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“... e passeranno i giorni...” canticchiò tra sè con raggia mentre sbatteva il ricevitore.
pag. 63 “Quindi Ingrid deve averti curato bene. Dimmi che t’ha fatto. Ti ha messo a letto? Ti ha rimboccato le coperte? Ti ha cantato la ninna nanna?”. C’era caduto come un fissa! L’unica era contrattaccare. pag. 80 E nel misto di triglie,spigole e orate alla griglia il commissario ritrovò quel paradisiaco sapore che aveva temuto perso per sempre. un motivo principiò a sonargli dintra la testa, una specie di marcia trionfale. Si stinnicchiò, beato, sulla seggia. Appresso tirò un respiro funnuto. Doppo lunga e perigliosa navigazione, Ulisse finalmente aviva attrovato la sò tanto circata Itaca. pag. 94 Isando l’occhi, il commissario vitti a Catarella fermo sulla soglia, stavolta non si era manco degnato di dire che gli era scappata la mano. Aveva un’ariata tale che una marcia trionfale sarebbe stata il sottofondo ideale. pag. 105
Si fermò sulla porta e gridò verso l’interno:
“Mimì! Mimì!”.
“Oggi c’è la Bohème?” s’informò Augello comparendo.
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D’altra parte chi di dovere tarda a riconoscere che i furti sono in aumento, le rapine pure... insomma, loro cantano in coro “Tutto va ben, mia nobile marchesa” e noi dobbiamo continuare ad andare avanti con quello che abbiamo.
La prima indagine di Montalbano Sellerio editore I edizione, 2004 pag. 45
Niscì dalla Questura cantando “La donna è mobile”, tanta era la contintizza per la notizia del prossimo trasferimento di Bonetti-Alderighi
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Si mise a cantare senza voce, dintra di sé:”Dies irae, dies illa…”
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Doveva tenersi a fatica, mentre caminava, dal mettersi a ballari il boogie-woogie, che in quel momento era il ritmo col quale il sangue so’ girava.
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“Cusumano!” gridò il commissario mentre sentiva scoppiare dentro di sé una specie di marcia trionfale tipo Aida.
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La signora Bufano stava a sintirisi, al massimo del volume, una canzuna che faciva:”Andiamo a mietere il grano, il grano, il grano…” Quanto durava una canzuna? Tri minuti? Tri minuti e mezzo?
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Subito appresso ne partì un’altra, attutita, che faciva:”Amore amor portami tante rose”.
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La signora Bufano si stava facenno ‘ntrunari la testa con “Guarda come dondolo, guarda come dondolo, con il twist”.
La pazienza del ragno Sellerio editore I edizione, 2004 pag. 14
Tentò di farsi tornare a mente una vecchia canzuna d’alpini che si chiamava”Il testamento del capitano” o qualichicosa di simili, ma non ci arriniscì.
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Il commissaro si sintì cantare dintra, non ci sarebbe stata sciarra.
Glossario
Aria - Pezzo per voce solista, con accompagnamento strumentale, articolato in diverse parti. Spesso occasione, per i cantanti, di sfoggio virtuosistico. Arioso - Andamento melodico intermedio fra quello dell’aria, di cui possiede l’espansione lirica, e quello del recitativo, di cui conserva il ritmo della parola. Cabaletta - Breve aria d’opera di movimento vivace, talvolta con variazioni, di solito collocata a conclusione di una scena o di un concertato. E’ frequente nel melodramma italiano del primo Ottocento. Cavatina - Aria in una o due parti senza ripresa da capo, preceduta spesso da un recitativo. Adottata dagli operisti del ’700/’800, in particolare per presentare psicologicamente un personaggio, coincideva spesso con l’aria di sortita del personaggio stesso. Cool Jazz - Termine usato nel jazz per indicare sonorità “fredde”, ottenute con minimo uso del vibrato Concerto - Composizione per un complesso di strumentisti, uno o alcuni dei quali intervengono come solisti, mentre tutti gli altri agiscono come gruppo collettivo. In tutti i concerti, dai tempi di Mozart in poi, all’orchestra fu data generalmente importanza pari a quella del solista, in modo che le due parti si integrassero a vicenda. Coro - E’ generalmente espressione di sentimenti collettivi. Nel melodramma rappresenta di solito certe comunità o categorie di persone. Dixieland - Termine che nel linguaggio popolare indicava il Sud degli Stati Uniti e che successivamente è stato impiegato per designare il primo jazz bianco fiorito, appunto nel Sud e praticato soprattutto dai ceti più poveri, in particolare dagli immigrati. Dodecafonia - “Metodo di composizione con dodici note non imparentate fra loro”. Questa è la definizione che diede della dodecafonia il suo ideatore, Arnold Schonberg. Il metodo dodecafonico si serve conseguentemente di tutte le risorse della gamma cromatica temperata, definita come totale cromatico. Finale - Parte conclusiva di un atto d’opera. Golfo mistico - Posto dell’orchestra nel teatro ottocentesco. Largo - Indicazione di un movimento sostenuto, più lento dell’adagio; un movimento meno sostenuto del largo è indicato dal diminutivo larghetto. Entrambi i termini possono indicare un pezzo lento a sé stante o facente parte di una composizione più ampia (sinfonia, sonata, opera, etc..) Leitmotiv - Tema musicale ricorrente in una composizione, con specifico riferimento a un personaggio, un oggetto, un sentimento, un’idea. Il termine è l’equivalente tedesco di "motivo conduttore" e si trova soprattutto impiegato nell’opera e nel poema sinfonico. Wagner lo usò sistematicamente. Lied - Termine che designa, con accezione ora generica ora specifica, varie espressioni poetico-musicali tedesche, di carattere lirico o narrativo; in senso lato corrisponde all’inglese song, al francese chanson, e alle voci italiane lirica, canzone, romanza. Melodramma - Fusione tra musica e dramma, sinonimo di opera. Opera - O anche "Opera in musica", termine internazionale che indica lo spettacolo in cui l’azione teatrale si realizza attraverso la musica e il canto. Poiché si avvale di scenografie, e, spesso, di azioni coreografiche, l’opera può essere considerata una delle manifestazioni artistiche più complesse. Poema sinfonico - Composizione per orchestra di ispirazione letteraria, pittorica, mitica o naturalistica; costituisce la realizzazione formale più completa della musica a programma. Forma tipica del secolo XIX, è caratterizzato da un’assoluta libertà strutturale, da una marcata predilezione per elementi timbrici di effetto, dalla frequente presenza di motivi conduttori evocanti personaggi o significati ricorrenti. Recitativo - Stile di canto tendente a riprodurre, attraverso la recitazione intonata, la naturalezza e la flessibilità della lingua parlata. Si sogliono distinguere due categorie di recitativo: il recitativo semplice (detto nell’800 secco), in cui la voce è sostenuta dal solo basso continuo, e il recitativo accompagnato, di carattere più disteso e arioso, nel quale alla voce si uniscono più strumenti, o più spesso, l’intera orchestra. Rondò - Forma strumentale, meno frequentemente vocale, largamente utilizzata dai compositori della seconda metà del secolo XVIII e della prima metà del sec. XIX. La struttura formale del rondò consiste nell’alternanza di un episodio fisso nella tonalità fondamentale con episodi di carattere contrastante ambientati in tonalità diverse. Sinfonia - Forma strumentale. La sinfonia classica consta generalmente di quattro movimenti: Allegro (in forma-sonata), Adagio (per lo più in forma di Lied), Minuetto (talvolta Rondò, o, con Beethoven, Scherzo), Finale (vivace o presto, per lo più in forma di Rondò). In epoca romantica, attraverso Schubert, Schumann e Brahms, la sinfonia venne ampliandosi nella struttura, nelle elaborazioni tematiche, nell’impiego timbrico, nell’organico strumentale, fino a giungere alle monumentali costruzioni di Bruckner e Mahler. Zarzuela - La forma originaria e più tipica del teatro musicale spagnolo. Il termine designa sia il libretto che la musica, e la rappresentazione comprende parti cantate e parti recitate. Bibliografia Nuova enciclopedia della Musica - Garzanti, 1988. |