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LA FISSAZIONE

Per fortuna si era ricordato di controllare il passaporto. Era scaduto. Sarebbe stato seccante scoprirlo alla vigilia della partenza per Cuba. Francesca l’avrebbe scorticato vivo. Faceva ancora in tempo a rinnovarlo. A patto di non perdere neanche un giorno. Decise di portarselo dietro in ufficio e poi cercare di fare un salto in Questura. Però gli servivano due foto. Le cercò inutilmente in un paio di cassetti. Francesca sapeva sempre dove trovare le cose che lui conservava. Ma era già uscita. Tanto valeva rifarle.

A metà mattinata scese a caccia di una di quelle cabine automatiche che promettevano quattro splendide foto in tre minuti. Ne trovò una vicino alla Stazione. Mentre leggeva le istruzioni stampate sull’autoadesivo, si sentì toccare il braccio:

- Signor, amicu, indovino tua mano…

Una zingara con l’età indefinibile delle zingare di quell’età. La liquidò con un gesto sgarbato e con una frase standard:

- Vai a lavorare.

La donna s’incupì. Poi materializzò un sorriso metallico, un bagliore artificiale di denti d’oro, e attaccò una litania ritmata, che lui tradusse in suoni che gli erano famigliari:

- Macallè zammù potucuntu mèusa basilicò agghiaccia...

- A te e a tutta la tua razza…- sibilò all’indirizzo della donna che si allontanava.

Inserì le monete e prima di premere il pulsante si aggiustò i capelli con le dita e si sforzò di assumere l’espressione che gli sarebbe piaciuto rimanesse agli atti: un’aria tra il vissuto, l’intelligente, l’emancipato.

- Macallè zammù potucuntu mèusa basilicò agghiaccia... – si sorprese a mormorare mentalmente, in attesa del lampo.

Un singolo colpo di flash ed eccolo fuori, ad aspettare i tre minuti. Si mise a studiare il coperchio rugginoso di un tombino, finché riuscì a decifrare la scritta Fonderia Basile, erosa dalle suole di innumerevoli passi. Poi lesse i tabelloni pubblicitari appesi alle fiancate arancione degli autobus. Infine passò alle foglie verdi dei ficus, seguendo il percorso delle nervature.

Le foto non si decidevano a uscire. Ma non era passato che un minuto. Adocchiò l’edicola vicina e contò i venti passi fino ai giornali nell’espositore. Contemplò le prime pagine dei quotidiani, senza riuscire a reprimere la solita sensazione di déjà-vu. Avrebbero potuto essere quelle di un anno prima. Anzi, del decennio scorso, considerati i titoli sul nuovo scandalo del calcio-scommesse. Che – solo il cielo sapeva perché – lo avevano indotto a quella riflessione più dei titoli clonati sulla nuova guerra, anch’essa clonata.

Ricontò al contrario i venti passi fino alla cabina. La macchina finalmente si era decisa a sputare le foto in quella specie di marsupio metallico che sporgeva di lato. Aspettò che il flusso di aria calda dell’asciugatura si estinguesse e prese le foto con la tipica trepidazione curiosa e famelica dei vanitosi insicuri.

Si accorse subito che non erano le sue. Forse aveva perso più tempo di quanto credeva, nella contemplazione dei giornali. E nel frattempo qualcun altro era entrato nella cabina, aveva fatto scattare il flash, era uscito, aveva preso sbadatamente le sue foto ed era sparito.

Improbabile.

Dette ancora un’occhiata alle foto. Erano sfocate e con i colori non saturati. Il viso di un ottuagenario. Lui era di poco sotto i quaranta. Forse la cabina era fuori uso e aveva i suoi bioritmi personali.

Sarà in fase premestruale, pensò, riproponendosi di riportare a Francesca quella battuta per lui così insolita.

Decise di cercare un’altra cabina. Lasciò cadere le foto nel marsupio e marciò spedito in direzione della Questura Trovò un’altra di quelle trappole vicino alla Cattedrale. Stavolta filò tutto liscio. Senza perdere di vista il marsupio contò i tre minuti ed ecco pronte le foto. Perfette. A parte una moderata perturbazione della chioma, dovuta alla veloce camminata.

Le portò all’Ufficio Passaporti, con tutto il resto e con le sue firme messe al posto giusto: Sergio Laganà, più svolazzi vari.

Di ritorno verso l’ufficio ripassò vicino alla prima cabina. La striscia con le foto era ancora dentro il marsupio. La prese tra le dita, e quasi senza rendersi conto di quello che faceva la infilò in tasca. L’edicolante lo squadrò con un mezzo sogghigno, e poi lo seguì a lungo con lo sguardo mentre lui si allontanava.



In ufficio non pensò più alle foto. Non ci pensò sino al momento di andare via, quando si ritrovò in ascensore con il suo collega Mario Di Natale. Mario contemplava una striscia simile a quella che lui aveva in tasca.

- Le hai fatte oggi? – gli chiese.

- Già.

- Dove?

- Vicino alla Stazione, di fronte all’edicola.

La cabina difettosa. Laganà guardò le foto. Erano perfette, a fuoco e con i colori giusti. quattro copie identiche e in formato tessera della faccia barbuta e falsamente triste del collega.

- A che ora le hai fatte?

- Un’ora fa, perché? – si stupì Mario.

- Due ore fa ci avevo provato io, ma non funzionava.

- L’avranno aggiustata – disse Mario.

Quella notte Sergio Laganà fece un sogno alla Lovecraft, un incubo dal quale riuscì parzialmente a districarsi solo svegliandosi. C’entravano le foto, la cabina e l’edicolante. E pozzi oscuri, profondi. E cunicoli e gemiti e sangue. In ufficio rimase sotto l’influsso del sogno per tutta la mattinata.

Quando uscì si sorprese a camminare verso la Stazione. Ritrovò la cabina. Immutata. Come la smorfia dell’edicolante. E come le prime pagine dei quotidiani. Entrò e versò il tributo. Flash, e via ad aspettare. Contò i tre minuti; poi ancora mezzo. Un fruscio, ed ecco la striscia. E riecco la faccia del vecchio. Pessime foto, come quelle del giorno prima. Aspettò ancora per una decina di minuti, ma non accadde niente. Si voltò a guardare il giornalaio, impegnato a dare il resto a un cliente. Si avvicinò all’edicola:

- Lo conosce? – chiese mostrando le foto. L’uomo si strinse nelle spalle, con la faccia chiusa. Laganà si allontanò lentamente.

Qualcuno gli stava facendo uno scherzo, pensò. Mario forse? Magari l’incontro del giorno prima, in ascensore, non era stato una coincidenza. No, impossibile. Come poteva prevedere, Mario, che proprio quel giorno lui avrebbe avuto bisogno delle foto? E che avrebbe scelto proprio quella cabina? No, se si trattava di uno scherzo, lui ne era solo la vittima casuale. E poi la faccenda richiedeva un’organizzazione complessa, forse anche la complicità del giornalaio, al quale non sarebbero potuti sfuggire eventuali maneggi.

La soluzione gli si presentò contemporaneamente all’arrivo dell’autobus che doveva portarlo a casa: è una Candid camera, decise. Forse in quel momento c’era tutta una troupe che rideva alle sue spalle. Lasciò perdere l’autobus e rifece quasi di corsa la strada verso la cabina. Un attimo prima di svoltare l’ultimo angolo rallentò e si fermò a ricomporsi. Poi riprese a camminare piano, cercando di proiettare un’impressione di sicurezza, dignità, disinvoltura.

Cercò la telecamera. Il posto più logico era la feritoia delle foto. Si accorse subito che non c’era abbastanza spazio. Né sufficiente ampiezza di campo, anche a usare un grandangolare spinto, attraverso la fessura. Esaminò le altre pareti. Niente.

Improvvisamente un colpo di fortuna. Una donna bruna, giovane, bella, era entrata nella cabina. Dopo un po’ vide il lampo del flash. Riavvicinò e si piazzò vicino alla feritoia delle foto. Per darsi un tono finse di studiare le istruzioni. Tre, quattro minuti, ed ecco la striscia cadere nel marsupio: perfette foto a colori della bellezza bruna. ora toccava a lui. Solito salasso, solita trafila. Pessime foto del solito vecchio.

Un pensiero improvviso lo folgorò: la ragazza fa parte del gioco. la cercò con gli occhi, ma lei ovviamente era sparita. Corse verso l’angolo, scrutò in tutte le direzioni: niente. Tornò indietro verso la cabina. La telecamera doveva essere lì, da qualche parte.

Sarà su una macchina parcheggiata, pensò; o dietro una finestra; avranno teleobiettivi potenti.

Riprese pian piano la via di casa. Quella notte dormì pochissimo.



Si alzò presto e si preparò velocemente. Era pronto a uscire prima ancora che Francesca avesse cominciato a prepararsi. Lei lo guardò pensosa:

- Mi sembri teso. Hai problemi in ufficio?

- Niente di particolare. Routine. Devo chiudere una pratica rognosa prima delle ferie.

La bugia scorse via con naturalezza. Si sarebbe sentito ridicolo a confessare la verità. Francesca annuì senza molta convinzione. L’idea che da qualche parte potesse esserci un’altra donna affiorò, girò in tondo, e infine rifluì verso un’aerea di parcheggio, in attesa di nuovi dati.

Laganà usci e camminò a passo svelto fino all’edicola di fronte alla cabina. Passò in rassegna tutti gli spazi esterni, sforzandosi di assumere l’aria di chi è indeciso nella scelta di una rivista.

Infine comperò un quotidiano. Cercò di perdere tempo fingendo di cercare i soldi e pagò con una banconota di grosso taglio. Mentre aspettava il resto esplorò con gli occhi l’interno dell’edicola. Nemmeno là c’era posto per una telecamera nascosta. Ogni anfratto potenzialmente in asse con l’aera della cabina era uniformemente coperto da pubblicazioni e altro ciarpame. Il giornalaio era impassibile. L’aveva riconosciuto? Avrebbe giurato di si.

Prima di continuare la ricerca decise di riprovare con le foto. Cinque minuti e si ritrovò a contemplare le quattro identiche facce del solito vecchio. Ideò una specie di controprova. Il vecchio metodo scientifico. Entrò di nuovo nella cabina, infilò le monete, premette il pulsante di scatto e, prima del lampo, fece un balzo all’indietro e uscì, chiudendo la tendina dietro di sé.

Flash e via con i tre minuti. Si voltò verso l’edicola. Il giornalaio parlottava con un tale; indicava col mento nella sua direzione. Aveva l’aria compiaciuta, sardonica. La striscia uscì con un rumore che somigliava a un sospiro. Anzi, a un singhiozzo. Quattro istantanee del nulla all’interno della cabina. Come interpretare la cosa?

Cercò la telecamera con metodo. Prima le macchine ferme. Le esaminò una dopo l’altra. Non avevano nessuno a bordo e montavano normali vetri trasparenti. Niente di sospetto. Non restavano che le case. Un rapido giro a trecentosessanta gradi lo convinse della difficoltà della ricerca.

C’erano centinaia di finestre. Potevano essere appostati ovunque. Passò davanti alle più vicine, senza notare niente di insolito. Ma non voleva dire molto. ed era il momento di andare in ufficio.

Lavorò senza costrutto per il resto della mattinata. Continuava a ronzare con il pensiero intorno alla cabina. L’ipotesi della telecamera nascosta cominciava a non persuaderlo più tanto. Aveva visto molte trasmissioni di Candid Camera. Gli piacevano. Sapeva che i responsabili, alla fine, si svelano sempre alle vittime. E devono chiedere loro il permesso di usare le immagini riprese di nascosto. Lui girava intorno a quella cabina da tre giorni. E nessuno si era fatto vivo. Eppure, il suo doveva essere proprio un caso da manuale. No, concluse, non c’è nessuna telecamera.

E allora? Tirò fuori le strisce che aveva messo insieme dal primo giorno. C’erano quattro gruppi di foto del vecchio. Le allineò. Le studiò con calma. Si era sbagliato pensando che le foto fossero tutte uguali. Guardando con attenzione si notavano piccole differenze nella posizione del capo. In una striscia il mento era un po’ più sollevato che nelle altre; nell’ultima il viso era ruotato di più verso sinistra. Anche i vestiti parevano diversi. Nella prima striscia la giacca dava un’impressione di grigio scuro; nelle tre successive virava più sul bluastro. Neanche le cravatte sembravano uguali. Ma non avrebbe potuto giurarci. La qualità delle foto era molto scadente e i dettagli poco visibili. Guardò a lungo il viso del vecchio. Era un volto glabro, con le guance incavate, come svuotate da un’assenza di parole. In tutte le foto il vecchio manteneva un’espressione grave. I capelli erano radi, grigi, come ci si aspettava in un vecchio.

Mise via le foto e usci. Non riusciva a stare lontano da quella cabina. Ne ricavò una quinta striscia di foto e cominciò a girovagare lì intorno. Scrutò in viso ogni vecchio che incrociava.

Raggiunse tutti quelli che avvistava da lontano. Cercò sulle panchine abituali dei pensionati, nei capannelli davanti ai bar, al mercato rionale. Due o tre volte ebbe la falsa impressione di riconoscere il suo vecchio. Entrò nell’edificio della Stazione e cercò anche lì. Alla fine del pomeriggio era esausto. Era digiuno dalla sera prima, ma non aveva fame. Gli venne voglia di un caffè ed entrò nel bar della Stazione. Mentre girava il cucchiaino nella tazza , tirò fuori l’ultima striscia di foto e la porse al barista:

- Ha mai visto questo signore qui intorno?

L’altro lo guardò sospettoso:

- No – disse, senza dedicare nemmeno un rapido sguardo alle foto.

Laganà non si lasciò smontare:

- E’ mio zio – disse. – Sa, ormai è un po’… ogni tanto sparisce e a me e a mio fratello ci tocca cercarlo. Ci dividiamo la zona: io la Stazione e lui il piazzale con la villetta. Lo zio era ferroviere.

Il barista si rilassò ed esaminò la foto:

- Ho capito – disse. – Suo zio. Infatti le somiglia. Però io non l’ho visto.

Laganà decise di rientrare a casa. Francesca era in ansia:

- Ti avevo cercato in ufficio. Mi hanno detto che sei arrivato tardi e te ne sei andato prima del solito. Ore fa.

Aveva l’aria di una richiesta di spiegazioni. Lui tirò fuori le foto, le allineò sul tavolo e le raccontò ogni cosa. Francesca la prese con una disinvoltura quasi allegra, che lui trovò eccessiva:

- Tutto qui? Sarà uno scherzo. Comunque, un po’ ti somiglia davvero.



Quella notte Sergio Laganà dormì di un sonno lungo e privo di sogni. La mattina dopo, mentre si pettinava, trovò sul pettine il suo primo capello grigio. Insieme a molti altri di colore usuale. Strano. Di solito, pettinandosi, non perdeva molti capelli, Attribuì alle recenti vicissitudini la sottile ruga inedita che gli attraversava la guancia da nord-est a sud-ovest. Il numero di capelli grigi aumentò nel pomeriggio. Come pure quello complessivo dei caduti. La ruga non era scomparsa. Anzi, aveva la sua copia simmetrica sull’altra guancia. Ne parlò con la moglie.

- Ma non ti sta male - disse Francesca; - le rughe conferiscono fascino a un uomo. Semmai dovresti fare qualcosa per le macchie. Ci sono delle creme fatte apposta, in commercio. Non le fanno sparire, ma rallentano il processo. Costano a sangue di papa, però…

- Che macchie? Dove? – La interruppe lui.

- Quelle che ti sono apparse sulle mani.

Prese atto delle macchi brune che cominciavano a infestargli il dorso delle mani. Sua madre le chiamava macchie di vecchiaia. Non era un po’ troppo giovane per quelle?

Dopo cena si chiuse in bagno e si scrutò ancora a lungo nello specchio. La vista della cravatta gli fece scattare un riflesso. Cercò le ultime foto. La sua cravatta sembrava stranamente simile a quella del vecchio. Controllò incredulo le altre foto. Anche la seconda cravatta del vecchio era simile a una delle sue. Cercò febbrilmente di ricordare se nei giorni in cui aveva fatto le foto avesse indossato proprio quella cravatta. Aveva un debole per le cravatte, ne possedeva un centinaio.

Passavano mesi prima che tornasse a indossare di nuovo una stessa cravatta. Non poteva esserne sicuro però, si, era possibile che avesse indossato proprio quella, nei giorni precedenti.

Improvvisamente, capì. E credette di perdere la ragione. Con un misto di sgomento, di incredulità, di fatalismo, tornò a scrutarsi nello specchio del bagno. Nella foto non aveva i baffi. A quello si poteva rimediare. Passò uno strato spesso di spuma da barba sul labbro superiore. Si rase via i baffi. Continuò a contemplarsi allo specchio.

- Macallè zammù potucuntu mèusa basilicò agghiaccia… – si ritrovò a mormorare. Con un senso di stupore si accorse di non avercela con la zingara. Che fosse un anticipo della rassegnazione dei vecchi? Si accinse ad aspettare. Non ci sarebbe voluto molto. Una, due settimane, forse. O sarebbe stata questione di qualche giorno? A fine corsa la fiamma brucia più in fretta. Pensò che si sarebbe spento quietamente. Neanche l’agonia sarebbe stata lunga.

Non disse niente a Francesca. Lei doveva già essersi addormentata, con l’aiuto della solita mezza compressa di Tavor? Non c’era il rischio che si svegliasse prima delle sette. Pensò fugacemente di fare testamento, ma scartò l’idea. C’era ancora tempo, per quello.

Poco dopo l’alba apri il cassetto dove teneva le sue cianfrusaglie. Esigeva il contatto con qualcosa di concreto, qualcosa che gli confermasse che era un uomo con una infanzia, un’adolescenza, una giovinezza, un passato all’attivo. Anzi, al passivo. Prese in mano la vecchia Ferrania di suo padre, la stilografica della cresima con il pennino rotto, un regolo da ingegnere, una medaglia di bronzo vinta con la staffetta ai campionati studenteschi… Relitti di un naufragio annunciato con lungimiranza. Armeggiò con la Ferrania, le aprì il dorso, la girò da tutte le parti, sfiorò l’obbiettivo con l’unghia del mignolo. Stava per riporla.

L’idea lo folgorò prima che riuscisse a completare il gesto.

Su preparò rapidamente e si precipitò fuori. Un quarto d’ora dopo fermò la macchina davanti alla saracinesca ancora serrata di un negozio di materiale fotografico all’ingrosso. Alle sette e mezza arrivò qualcuno. Aprì. Laganà si catapultò dentro:

- Presto, mi dia del liquido di fissaggio per fotografia.

L’uomo lo guardò incuriosito. Poi la ragione commerciale prevalse:

- Lo vuole per carta o per pellicola?

- Il più rapido.

L’uomo sparì nel retro e tornò con un flacone:

- Questo va diluito uno a dieci. Il fissaggio è completo in tre minuti.

Laganà fece un rapido conto:

- Me ne dia venti litri.

- L’uomo lo fissò incredulo.

- Presto – ansimò Laganà.

L’uomo si strinse nelle spalle e sparì di nuovo. Tornò con i flaconi, batté l’importo e gli consegnò tutto.

Lui corse a casa. Francesca si era alzata. Laganà ignorò le sue domande. Apri il mobile bar e afferrò una manciata di cannucce da bibita. Si chiuse in bagno, tappò la vasca e cominciò a fare scorrere l’acqua. Aiutandosi con il termometro cercò di ottenere la temperatura prescritta dall’etichetta sul retro dei flaconi. Li vuotò nella vasca e si spogliò. Calcolò a occhio una diluizione di uno a dieci. Quando fu il momento, chiuse il rubinetto e agitò col piede la soluzione. Si infilò nella vasca, lasciandosi coprire interamente dal liquido, ad occhi chiusi, respirando attraverso le cannucce.

Cominciò a contare mentalmente i secondi: milleuno, milledue, milletre, millequattro…

Funzionerà, pensò. Sicuro che funzionerà…

Santo Piazzese - Pubblicato su Margini, ottobre 2004, numero zero




Last modified Saturday, July, 16, 2011