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Nato in Sicilia

Ho sempre rifiutato l’etichetta di “scrittore siciliano” che fatalmente mi viene cucita addosso tutte le volte che vengo presentato a voce o per iscritto in un contesto legato in qualche modo alla letteratura. Preferi-sco considerarmi piuttosto uno “scrittore nato in Sicilia”. La differenza è intuibile.

D’altra parte, considerata la mia professione principale, a chi verreb-be in mente di definirmi “un biologo siciliano”? D’accordo, la lettera-tura, come la maggior parte delle attività creative, è più profondamente legata a un contesto - geografico, sociale, culturale, etnico... - rispetto al-le professioni più tradizionali. Però anche la ricerca in biologia implica - o almeno dovrebbe implicare - notevoli doti di creatività, altrimenti - e sia detto con il dovuto rispetto per una categoria il cui lavoro si consi-dera spesso circonfuso da un aura di tedio - tanto varrebbe fare il geo-metra al catasto.

E allora come la mettiamo? Senza contare che si fa presto a dire Sici-lia.

Se prendete una cartina della mia regione e tracciate una linea ideale che va dalle rovine dell’antica Himera, sulla costa tirrenica, giù in direzione sud-ovest, fino a quelle di Selinunte, sulla costa mediterranea che fronteggia l’Africa, avrete diviso l’isola in due parti che nell’antichità corrispondevano, ad est, all’area di influenza greca e, ad ovest, a quella dominata da Cartagine. Questa caratterizzazione per grandi - e forse rozze - linee si è mantenuta fino ai giorni nostri, tanto che si attribuisce carattere levantino agli abitanti di Catania, mentre noi di Palermo e di tutta l’area a occidente della famosa linea saremmo “arabi”. Ovviamente si affibbiano connotazioni positive o negative all’attribuzione para-etnica, in funzione dell’origine di chi parla. Quando mi prende qualche attacco di pillicuseria (ritengo che, dopo Camilleri, sia superfluo tradurre il vocabolo) mi viene voglia di specificare che, caso mai, potrei essere considerato uno scrittore pa-lermitano. Anzi, di Romagnolo est, il vecchio borgo marinaro nel quale sono nato e che è da decenni estinto, fagocitato dalla città in espansione.

Su questo parecchi miei concittadini, specie se non più giovanissimi, sarebbero totalmente d'accordo: quand’ero ragazzo, prima del grande rimescolamento provocato dalla trasformazione edilizia della città, con relativa ridistribuzione dei nativi, era ancora possibile identificare dall’accento gli abitanti del quartiere della Kalsa o della Magione da quelli di Sant’Erasmo, di Ballarò, di Resuttana, di Cruillas, e così via, in un avvitamento di distinguo, cui corrispondevano presunte differenze qualitative tra i residenti.

D’altra parte - e mi aspetto di essere crocifisso per questo - non ho mai dato per scontata l’esistenza di una letteratura siciliana riconoscibi-le a colpo sicuro per omogeneità di caratteri, se si fa eccezione per l’abuso di metafore e allegorie. Tanto più nella letteratura poliziesca. La comune ambientazione regionale delle storie noir è una condizione non necessaria e non sufficiente a definire un’ appartenenza univoca.

Gli scrittori siciliani sono isole nell’isola.

Poi c’è il grande equivoco della così detta sicilitudine.

Il vocabolo fu inventato verso la fine degli anni ’50 dal poeta e pit-tore d’avanguardia siciliano Crescenzio Cane per analogia con il termi-ne négritude che Senghor aveva coniato per rappresentare la condizione della nigrizia. Solo che il vocabolo negritudine, per quanto concettual-mente arduo da circoscrivere, lo troviamo sui dizionari, mentre la sicili-tudine è una categoria molto più impalpabile, che noi siciliani amiamo esibire nel corso delle circumnavigazioni intorno ai nostri vasti ombeli-chi: una categoria delle viscere, insomma; una connotazione affettiva, più che razionale, che Sciascia fece propria attribuendole la capacità di rappresentare una condizione umana e storica. E noi ci speculiamo un po’ su, contando anche sulla discreta complicità degli editori, specie quelli non siciliani: perché, per fortuna, la Sicilia, in letteratura, “tira” da sempre. Tanto che il vero problema per quegli intellettuali della mia regione che sono soliti porsi problemi è che i non siciliani si aspettano sempre qualcosa di speciale da loro. E spesso lo ottengono, perché non c’è dubbio che senza il contributo dei nostri autori la letteratura italia-na avrebbe avuto tutta un’altra storia.

Detto questo, appare subito evidente che per uno scrittore nato in Sicilia che aspiri a una apparizione non troppo fugace nel campo delle patrie lettere, si aprono - o forse sarebbe più appropriato dire che si chiudono - prospettive da far tremare le vene e i polsi. E gli può anche accadere di ritrovarsi alternamente sotto il fuoco di cecchini di fazioni contrapposte, e talvolta persino collimanti: se scrive un libro fortemen-te intriso di sicilianità - concetto che nell’immaginario di molti può equivocamente coincidere con l’ambientazione siciliana di un romanzo - si espone all’accusa di provincialismo: ecco - dicono - l’ennesimo sici-liano che non si toglie mai le lenti da presbite. Se invece tenta di passa-re, anche metaforicamente, il confine insulare, c’è sempre qualcuno che salta su a dire: ma che bisogno c’era? In Sicilia c’è tutto, tutto è comin-ciato qui e tutto vi finirà: qui è il centro dell’universo. Ovvero, l’isola come metafora del mondo: guai a scantonare. E con l’Irlanda di Mr Leopold

Bloom come la mettiamo? E con l’Itaca di quell’altro Ulisse, il modello originario? Forse è colpa di Goethe e del suo viaggio in Sicilia: è qui - scrisse - che si trova la chiave di tutto. Lui però non fa testo: ha sempre trovato troppe chiavi in troppi posti.

A me è sempre risultato difficile parlare del mio legame con la Sici-lia.

Letterariamente, sono nato leggendo alcuni signori che si chiamava-no Faulkner, Steinbeck, Hemingway, Fitzgerald, Salinger, Wilder, Cal-dwell, Lewis, Bellow, Dos Passos, e tanti altri americani, sopra tutto, del ‘900, compreso l’americanissimo Vittorini di Uomini e no, che fu il pun-to di approdo di un episodio di serendipity. Sono state le mie prime, si-stematiche, esaustive letture, all’epoca della transizione dai libri dell’infanzia e prima adolescenza a quelli per i grandi. E’ stato un caso, una contingenza legata alla disponibilità delle opere di tutti questi au-tori rispetto agli altri, siciliani compresi: a Palermo, negli anni ’60, in una zona della città per me tatticamente ideale, c’era una sede dell’USIS, il centro di irradiazione della cultura americana all’estero, con una ricchissima biblioteca. Ci andavo quando marinavo il liceo (da noi si diceva “fare l’ora”) e il maltempo mi impediva di girovagare per la città. Con mio grande stupore, una volta ci trovai una ragazza con la divisa delle

Ancelle del Sacro Cuore: inconcepibile, data l’epoca. Fatto ancora più inconcepibile, attaccammo discorso dandoci per tutto il tempo rigorosamente del lei. Avevamo sedici anni a testa, o giù di lì.

In seguito scopersi che era possibile fare una specie di abbonamento gratuito: consegnavano una tessera che autorizzava il titolare a portarsi a casa, in prestito, cinque o sei libri. Poi si restituivano e si ripartiva con un altro carico. In media, ripetevo l’operazione una volta la setti-mana. Ovviamente studiavo poco. Quando i miei genitori entravano nella mia stanza dissimulavo il libro che avevo in lettura dietro un grande atlante geografico Zanichelli, nel quale fingevo di essere assorto. D’altra parte la geografia era una mia nota passione.

Fu all’USIS che, dopo gli autori citati, scopersi Chandler. Fu un in-namoramento duraturo e irreversibile. Un imprinting. Lui ha avuto una grande influenza sulla formazione del mio gusto in fatto di ro-manzi noir e per me, ancora oggi, è un modello al quale tendere se si accetta l’idea che il noir, per mezzo dell’indagine che il più delle volte l’attraversa, deve rappresentare e interpretare la società.

La mia condizione di scrittore non è altro che l’estensione logica del mio essere stato un lettore forte. E se si è lettori forti, si finisce con lo scrivere come si legge. Tuttavia, anche se agli scrittori siciliani, con l’eccezione di Sciascia e di Tomasi di Lampedusa, sono arrivato con un certo colpevole ritardo, mi guardo bene dal rinnegare l’importanza che la letteratura siciliana ha avuto sulla mia formazione. Sopra tutto per-ché sono arrivato a scrivere narrativa relativamente tardi e ho avuto tempo a sufficienza per metabolizzare e diluire le mie letture giovanili.

Sciascia ha sicuramente avuto un influsso decisivo, anche se indiret-to: lui fu il primo a entrare nel corpo vivo della realtà politico-mafiosa siciliana, analizzando comportamenti e formulando capi d’accusa che hanno resistito a tutte le requisitorie difensive. Ed ha aperto la strada a tanti altri scrittori, anche se forse nessuno ha mai eguagliato la sua lu-cidità e acutezza. La figura da padre nobile di Sciascia, con il quale con-frontarsi fino ai primi anni successivi alla sua morte, mi rendeva arduo - e forse anche presuntuoso - tentare di scrivere un libro che avesse la mafia come protagonista. E’ per questo che essa non è il soggetto né l’oggetto principale dei miei due primi romanzi. La mafia tuttavia è tutt’altro che ignorata, anzi ho fatto uno sforzo speciale per rappresen-tarla come una realtà “immanente” nella città. Entra invece direttamen-te e a pieno titolo nel mio terzo romanzo. Se non l’avessi fatto sarebbe stato come voltare la testa dall’altro lato. E mi piace pensare che i miei primi due libri hanno costituito una specie di alibi perché potessi fi-nalmente affrontare l’argomento con il terzo.

Oggi vivo la condizione di siciliano con un misto di orgoglio e di snervamento. Con la pressione di tutto quel passato che ha lasciato di sé tracce straordinarie e di un presente che è una dolorosa presa d’atto dei continui tentativi di rimozione della storia e della memoria. È la contraddizione estrema di vivere in una terra che ha prodotto contem-poraneamente Falcone, Borsellino, don Puglisi e i loro assassini. Di questo ho cercato di rendere conto distribuendo passioni e tentativi d’analisi nei tre romanzi e in tutto quello che ho finora scritto. Da scrittore nato in Sicilia, ma non necessariamente siciliano.

Santo Piazzese "Noir in Festival" di Courmayeur (9.12.2004)




Last modified Saturday, July, 16, 2011