Miracoli di Trieste
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Miracoli di Trieste

Si può essere sbirri di nascita, avere nel sangue l'istinto della caccia, come lo chiama Dashiell Hammet, e contemporaneamente coltivare buone, talvolta raffinate letture? Salvo Montalbano lo era e, se qualcuno gli rivolgeva stupito la domanda, non rispondeva. Una volta sola, ch'era particolarmente d'umore nìvuro, rispose malamente all'interlocutore:

«Si documenti prima di parlare. Lei lo sa chi era Antonio Pizzuto?»

«No.»

«Era uno che aveva fatto carriera nella polizia, questore, capo dell'Interpol. Di nascosto traduceva filosofi tedeschi e classici greci. A settant'anni e passa, andato in pensione, cominciò a scrivere. E diventò il più grande scrittore d'avanguardia che noi abbiamo avuto. Era siciliano.»

L'altro ammutolì. E Montalbano seguitò.

«E dato che ci siamo, le vorrei dire una mia convinzione. Leonardo Sciascia, se invece di fare il maestro elementare avesse fatto un concorso nella polizia, sarebbe diventato meglio di Maigret e di Pepe Carvalho messi assieme.»

E poiché era fatto così, appena sceso dalla vettura-letto che l'aveva portato a Trieste, una poesia di Virgilio Giotti, in dialetto, principiò a risonargli dintra. Ma subito la scacciò dalla mente: qui, nei luoghi stessi dov'era nata, la sua dizione pesantemente sicula sarebbe parsa un'offìsa se non un sacrilegio.

Era una matinata di prim'ora, tersa, chiara, e lui, che pativa di cangiamenti d'umore a seconda di come svariava la giornata, si augurò di poter restare sino a sira con lo stesso stato d'animo di quel momento, benevolmente aperto a ogni situazione, a ogni incontro.

Percorsa la banchina affollata, trasì nell'atrio, si fermò ad accattare "Il Piccolo". Cercò invano nella sacchetta ch'era vacante di monete, e nel portafoglio aveva solo biglietti da cinquanta e da centomila lire. Ne pruì uno da cinquanta con scarse speranze.

«No gho da darghe spici» fece infatti l'edicolante.

«Manco io» disse Montalbano, e s'allontanò.

Subito però tornò indietro, aveva trovato la soluzione. Al giornale aggiunse due romanzi gialli scelti a caso e l'edicolante stavolta gli diede trentacinquemila lire di resto che il commissario infilò nella sacchetta destra dei pantaloni, non avendo gana di ritirare fora il portafoglio. Si avviò verso il posteggio dei taxi, mentre ora irresistibilmente, dintra alla sua testa, Saba si era messo a cantare, con quella sua voce che aveva sentito alla televisione:

"Trieste ha una scontrosa

grazia. Se piace

è come un ragazzaccio aspro e vorace

con gli occhi azzurri e mani troppo grandi..."

Le mani che all'improvviso gli artigliarono la giacca all'altezza del petto non erano quelle di un ragazzaccio, appartenevano a un cinquantino con gli occhiali, dall'ariata per niente aspra e vorace, vestito con cura. Il cinquantino aveva truppicàto, se non si fosse istintivamente aggrappato a Montalbano e se il commissario, altrettanto istintivamente, non l'avesse sorretto, sarebbe andato a finire lungo disteso a terra.

«Mi scusi tanto, sono inciampato» fece l'omo virgognoso.

«Ma le pare!» disse il commissario.

L'omo si allontanò e Montalbano, oramai fora dalla stazione, s'avvicinò al taxi di testa, fece per raprìre lo sportello e in quel preciso momento si rese conto, misteriosamente, che non aveva più il portafoglio.

«Ma come?» s'indignò. Questo era il benvenuto che gli dava una città che aveva sempre amato?

«Si decide o no?» spiò il tassinaro al commissario che aveva aperto la portiera, l'aveva richiusa e ora la stava nuovamente aprendo.

«Senta, mi faccia un favore. Porti questa valigia e questi libri al Jolly. Mi chiamo Montalbano, ho prenotato una camera. Io verrò dopo, ho un'altra cosa da fare. Ventimila bastano?»

«Bastano» fece il tassinaro che partì subito, dato che il Jolly era a due passi, ma Montalbano non lo sapeva.

Taliò il taxi finché sparve alla sua vista e subito gli nacque un cattivo pinsèro.

«Il numero di targa non pigliai.»

Gli era venuta una botta di diffidenza, di arrifardiamento.

L'omo che gli aveva arrubato il portafoglio certamente doveva trovarsi ancora nei paraggi. Perse una mezzorata a taliàre e a ritaliàre dintra alla stazione e a mano a mano ci perdeva le speranze. Che gli tornarono di colpo quando, uscito su piazza della Libertà, rivide il borseggiatore che camminava a zigzag tra le macchine di un posteggio. Aveva appena finito di fare la stessa sceneggiata con un signore imponente, bianchi capelli al vento, il quale, ignaro d'essere stato alleggerito, continuò a procedere verso la Galleria d'arte antica, maestosamente taliàndo tutti dall'alto.

Il borseggiatore era sparito di nuovo. Poco dopo a Montalbano parse di scorgerlo, si dirigeva verso corso Cavour.

Può un commissario di polizia mettersi a correre appresso a uno gridando "al ladro, al ladro"? No, non può. L'unica era di accelerare il passo, tentare di raggiungerlo.

Un semaforo rosso bloccò Montalbano. Ebbe così modo d'assistere, impotente, a un'altra esibizione del borseggiatore: questa volta la vittima era un sissantino, elegantissimo, pareva Chaplin nella pellicola Un re a New York. Il commissario non poté fare a meno di ammirare la magistrale bravura del ladro, nel suo campo un vero artista.

Ma intanto dov'era andato a finire? Sorpassò il suo albergo, arrivò sino all'altezza del Teatro Verdi e qui si perse d'animo. Era inutile continuare la ricerca. E poi in quale direzione? Chi gli assicurava che il borseggiatore non avesse già imboccato una strada qualsiasi tra tutte quelle che si partivano da piazza Duca degli Abruzzi o da Riva III novembre? Lentamente tornò indietro.

Trieste seppe cangiargli l'inseguimento d'andata in una tranquilla, ariosa, passeggiata di ritorno. Si godé tutto l'odore denso e forte dell'Adriatico, tanto diverso da quello del mare della sua terra.

La sua valigia era già stata portata in càmmara, spiegò in portineria che il documento di riconoscimento l'avrebbe dato dopo.

Per prima cosa telefonò alla questura, spiò del commissario Protti, suo amico di sempre.

«Montalbano sono.»

«Ciao, come stai? Sei in anticipo, il convegno inizia alle quindici. Vieni a pranzo con me? Ti passo a prendere al Jolly, d'accordo?»

«Sì, ti ringrazio. Senti, ti devo dire una cosa, ma se ti metti a ridere giuro che vengo lì e ti spacco la faccia.»

«Che ti è successo?»

«Sono stato derubato. Il portafoglio. Alla stazione.»

Dovette aspettare cinque minuti col telefono in mano, il tempo che Protti riemergesse dalla risata sconquassante nella quale aveva rischiato d'annegare.

«Scusami, ma non ce l'ho fatta. Hai bisogno di moneta?»

«Me li dai quando ci vediamo. Cerca di darmi una mano coi tuoi colleghi a ritrovare almeno i documenti, sai, la patente, il bancomat, la tessera del Ministero...»

Mentre la risata di Protti ricominciava, Montalbano riattaccò, si spogliò, si mise sotto la doccia, si rivestì, fece una lunga telefonata a Mimì Augello, il suo vice di Vigàta, e un'altra a Livia, la sua donna, a Boccadasse, Genova.

Quando scese nella hall, il portiere lo chiamò e il commissario s'infuscò. Quello sicuramente voleva i documenti, lì non si poteva sgarrare, quelli, in quanto a rispetto delle regole, erano fermi ai tempi di Cecco Beppe. Che minchiata poteva contargli per guadagnare tempo?

«Dottor Montalbano, hanno portato questa busta per lei.»

Era una busta grande, telata, col suo nome scritto a stampatello. Era stata recapitata a mano, non c'era mittente. La raprì. Dintra c'era il portafoglio. E dintra il portafoglio c'era tutto quello che lui ci aveva messo, patente, bancomat, tesserino, cinquecentocinquantamila lire, non mancava un centesimo.

Che miracolo era? Che veniva a significare? Come aveva fatto il borseggiatore pentito a sapere in quale albergo abitava? L'unica spiegazione possibile era che il ladro, capendo d'essere seguito, si fosse ammucciato e quindi avesse a sua volta pedinato il derubato sino all'albergo.

Ma perché si era pentito del suo gesto? Forse si era accorto, taliàndo i documenti, che il derubato era uno sbirro e si era pigliato di spavento? Ma via! Non reggeva.

La prima cosa che Protti gli spiò fu:

«Me la racconti meglio questa storia del portafoglio?»

Evidentemente il garruso voleva scialarsela ancora tanticchia, aveva gana d'altre risate.

«Ah, scusami, dovevo telefonarti subito, ma mi hanno chiamato da Vigàta e m'è passato di mente. La tasca della giacca era scucita e il portafoglio m'è scivolato all'interno della fodera. Falso allarme.»

Protti lo taliò dubitativo, ma non disse niente.

Nel ristorante dove l'amico lo portò, servivano solo pesce. Si fece un piatto di tagliolini all'astice e per secondo pigliò guatti sfilettati che difficilmente si trovano. Per mandare giù quella grazia di Dio, Protti gli consigliò un terrano del Carso, prodotto sulle colline alle spalle di Trieste.

Al convegno erano presenti un trecento poliziotti di tutt'Italia. Invitato ad assittarsi sul palco, il commissario, macari per contrastare la gran botta di sonno che l'aveva assugliato dopo la mangiata, cominciò a taliàre a uno a uno quelli che stavano in platea, tutti col tesserino appuntato sul risvolto della giacchetta, alla cerca di una faccia conosciuta.

E la trovò, infatti, una faccia che aveva visto per pochi secondi, ma che gli era rimasta impressa. Montalbano sentì lungo la spina dorsale una specie di scossa elettrica: era il borseggiatore, non c'era dubbio. Era il borseggiatore, un malvivente che si era pigliato il gusto di fingersi sbirro, con tanto di tesserino bene in vista (a chi l'aveva fottuto, Madonna santa?), che ricambiava la sua taliàta e gli stava sorridendo.

Può un commissario, a un convegno di poliziotti, saltare giù dal palco e agguantare uno che tutti credono un collega, gridando che è un ladro? No, non può.

Sempre taliàndolo fisso, sempre sorridendo, il ladro si levò gli occhiali e contorse la faccia in una comica smorfia.

E allora Montalbano lo riconobbe. Genuardi! Impossibile sbagliarsi, era proprio Totuccio Genuardi, un suo compagno di ginnasio, quello che faceva ridere la classe, ce n'è sempre uno. Già fin d'allora abilissimo con le sue mani di velluto: una volta aveva sfilato il portafoglio al preside e tutti erano andati a farsi uno schiticchio in una taverna.

E adesso, che fare?

Quando finalmente venne dato l'intervallo-caffè, fece per scendere dal palco ma venne fermato da un collega che gli sottopose un delicato problema sindacale. Se ne liberò prima che poté, ma Totuccio era scomparso.

Cercò e cercò e finalmente lo vide. Lo vide e aggelò. Totuccio aveva appena portato a termine la sua solita sceneggiata col questore Di Salvo e si stava scusando, fintamente imbarazzato. Il questore, che era notoriamente un gran signore, gli batté per conforto una mano sulla spalla e gli raprì lui stesso la porta per farlo nèsciri. Totuccio gli sorrise, gli fece un mezzo inchino di ringrazio, uscì, si perse tra la gente.

Andrea Camilleri



Last modified Saturday, July, 16, 2011