La Sicilia, 5 dicembre 1984

La torre di Carlo V

di
Federico Hoefer


«La tozza eppur poderosa mole della Torre di Carlo V, da sempre, ha contraddistinto il panorama di Porto Empedocle: sia che si giunga da est, attraverso la Valle dei Templi; oppure da ovest, per la direttrice Sciacca-Realmonte; o vi si approdi dal mare, a sud. La cittadina porta il nome del filosofo, poeta, medico e scienziato agrigentino Empedocle, vissuto dal 490 al 430 a.C. ed appartenente alla schiera dei pre-socratici. A nord è circondata dalla dorsale dell'altipiano della Lanterna, sforacchiato da antiche caverne ed oggi invaso da nuove costruzioni. Fu borgata e "caricatore" di Girgenti dalla seconda metà del 400 e divenne, appena quattro secoli dopo, Comune autonomo: era il 4 gennaio 1863. Soltanto la Torre di Carlo V si è sempre chiamata con lo stesso nome, è sempre stata al suo posto, e ha sfidato il tempo e le pastoie burocratiche che, da secoli, hanno caratterizzato la nostra ben amata isola a tre punte. "A nessuno, al momento della sua costruzione, passò per l'anticamera del cervello che una qualsivoglia castellana avrebbe potuto alleggerire, con la sua presenza, la cupezza del luogo...".
Così recita, ad un certo punto, lo scrittore empedoclino Andrea Camilleri nel suo recente libro La strage dimenticata. L'autore, indagando sull'eccidio compiuto nella Torre fra il 25 e il 26 gennaio del 1848 per mano dei borboni allo sbaraglio, ha fatto, prepotentemente, rimbalzare agli onori della cronaca la torre empedoclina. L'accavallarsi delle date cadenzano il prosieguo della storia, pur se queste, non sempre approdano ai libri o alle "cronache". (I Giovanni e Matteo Villani, specialisti in "Cronache" non nascono spesso!). Eppure, la sera del 15 agosto 1946 non una "qualsivoglia castellana" - perché la Torre di Carlo V non fu concepita né come castello né adattata a possibili presenze femminili - ma una nutrita schiera di signore e signorine "bene" di Porto Empedocle, e di altre provenienti dalla provincia agrigentina, varcarono il nericcio portone della Torre "alta, fosca e quadrata". Per una sera le toilette delle donne, mogli o amanti dei "galantuomini" del dopoguerra, sfiorano le porte delle tetre ed anguste sale che avevano visto ben altri abbigliamenti ed umane tragedie. Le dame, schivando i muri delle celle-tane, giunsero alla terrazza della torre sfavillante di luci alla veneziana. L'aria era satura di aromi inconsueti, svaporati da profumi parigini e da creme di bignè alla rinfusa; un ricco buffet era collocato sotto il muraglione della terrazza che guardava a ponente; più in là c'era l'orchestra coi leggii. Da quella terrazza echeggiante i passi dei guardiani e dei "servi di pena" prendere "l'aria" a cielo aperto, si diffusero i motivi del Boogie Woogie e dei Blues importati con gli americani, da New Orleans. Con la complicità della Torre, gli empedoclini, quella notte, si lasciavano alle spalle, de-finitivamente, la seconda guerra e l'astinenza di leciti divertimenti riservati, da sempre, ad una élite figlia del recente scomparso regime ed imparentata da lontano a gli ultimi borboni. Il "trattamento danzante" fu organizzato da un Ufficiale e da un Sottoufficiale della locale Capitaneria di Porto; fece epoca, suscitando l'invidia degli aristocratici veri di Modica e di Ragusa Ibla, ed indispettendo i brandelli di Torri Schierate fra i due Portopalo di Menfì e Capopassero! Ma, con quell'evento festaiolo, si compiva anche una involontaria profanazione; anche se era improbabile che allora fosse a conoscenza di qualcuno che in quella torre si era compiuta una strage, con l'uccisione in massa di 114 detenuti, per mano di un famigerato maggiore borbonico e della sua cricca. I due ufficiali della Capitaneria, in uniforme di gala, ricevevano alla sommità del budello di scala "le famiglie perbene"; sotto, al portone della Torre, alcuni marinai con quattro "laici-indigeni", in odor di gaudenti post bellici, controllavano i biglietti di invito. La "notte delle stelle", soltanto per via del cielo stellato che sembrava si amalgamasse con la scenografia della terrazza della Torre, fu un avvenimento che non si sarebbe più ripetuto negli anni a venire: sia per gli alti costi organizzativi, sia per un certo pudore nei confronti della storia di Carlo V! Quest'ultima considerazione, in verità, appare un po' inverosimile in rapporto alla "sensibilità alla storia", a livello professionale fu coltivata dal prof. Baldassarre Marullo. Nel 1928 nella rinomata tipografia di Leonardo Dimora, ad Agrigento, il Marullo diede alla stampa un suo saggio di appena 27 pagine che porta il titolo: "Due punti da chiarire per la storia di Porto Empedocle". L'autore divise il saggio in due parti. Nella prima si pose questo interrogativo: "Ebbe Girgenti, come avevano avuto Acragante prima e Agrigento poi, il suo scalo marittimo alla foce del fiume Akragas?" e nella seconda: "La Torre di Carlo V, in atto esistente a Porto Empedocle, fu costruita ex novo, o rifatta su una preesistente torre ubicata nello stesso luogo?". Per tentare di dare una risposta al primo interrogativo, bisognerebbe risalire al "turbine musulmano" dell'anno 828, quindi alle invasioni dei barbari e di... tutti gli altri dopo; ed a questo punto è meglio ridiscendere precipitosamente, a tempi più recenti: quelli compresi tra il 1749 ed il 1763 in cui, per intercessio-ne del Vescovo Gioeni presso Carlo III di Borbone, la marina Porto Empedocle ebbe un porto artificiale, che tuttavia sta a riflesso della potenzialità economica di tutto il vasto hinterland "girgentino". Una risposta da fornire al secondo interrogativo interessa fino ad un certo punto. Basti sapere che si tratta di una torre o fortino-bastionato che il vice re Giovanni De Vega fece costruire nel 1554 sul margine delle acque dove oggi si affaccia la cittadina. E poco ci importa che sia trattato di un ampliamento o di una sopraelevazione: una sorta di abusivismo edilizio, che con il beneplacito del re di Sicilia, dal 1538 in poi, un certo architetto Camillo Camillani incominciò ad attuare lungo le coste siciliane, in attesa di un probabile condono! Non mutarono in quel periodo, invece, le finalità delle torri che, alternativamente, furono utilizzate per depositi di mercanzie, per posti di guarigione, per luoghi di pena o come fari. Sicuramente la Torre di Carlo V - vale ancora la pena ricordarlo - non fu mai adibita a castello con relative castellane. E quella fatidica notte del 1946 non fu che una parentesi nella sua lunga e travagliata esistenza, che neanche Carlo V avrebbe potuto immaginare. Sulla facciata orientale della Torre che guarda alla cittadina e, volgendo le spalle al mare ed evitando la corrosione marina, ancora oggi, ben conservata, si può leggere questa iscrizione: «Carlo V imperatore semper augusto hinspaniarum utrisque siciliae rege catholico Ioannes Vega prorex post munitionem totius ore maritimae pro-pulsantaanque turcorum classem hanc quoque turrim erexit munivitque anno MDLIV». Sotto l'iscrizione, più in basso, c'è scolpito uno stemma araldico in cui campeggia un levriero che serra fra le zampe uno scudo, nel cui centro sono raffigurate tre torri, accostate tra di loro, e ben piantate su una larga scogliera. Nel cimiero del cane c'è scritto il motto: «Malo mori quam foedari». Che tradotto equivale a: «Voglio piuttosto morire che essere disonorato». Camilleri, parafrasando il motto, con arguzia e un pizzico di amaro sarcasmo, ha tradotto: "Meglio morire malamente che parlare"! Più di così l'omertà mafiosa non poteva essere rappresentata, almeno fino a qualche mese addietro! Il prof. Marullo riconosce all'iscrizione principale che a dettarlo non fu certo Cicerone, per cui ad ogni parola sia da assegnare un valore assoluto tanto linguistico che grammaticale, tuttavia nulla autorizza a credere che l'autore non avesse sufficienti nozioni di grammatica latina. Da considerare che il Marullo fu un rigoroso latinista; il Camilleri, invece, vive la contemporaneità in tutta la sua essenza ed in essa è immerso. Al di là di qualsiasi disquisizione linguistica, resta il fatto che la Torre di Carlo V continua a sfidare, imperterrita, i colpi infertigli dalle guerre nei suoi quattro lati ed il lento corrodere della salsedine che sale dalla marina ai suoi piedi. La Torre, fino ad oggi, si è salvata da sola, senza particolari interventi della mano umana. Ma fino a quanto potrà durare? In eterno? Per i residui romantici empedoclini, più che una Torre la considerano un monumento nazionale: per i pescatori rappresenta un sicuro punto di riferimento, più che i fari rossi e verdi dei moli di levante e di ponente. In cima è priva di merlature né vi garrisce una qualsivoglia bandiera; ma incastonata nel panorama stupendamente: come la marna bianca, accecate, della Scala dei Turchi ad un tiro di schioppo, che la natura prodiga edificò falda dopo falda».