Un romanzo di Camilleri
di ELO CONTE
«Bisogna vivere come siamo nati; la vita, bella o no, non l’abbiamo fatta noi cosi com’è». Sono parole che il saggio patron «‘Ntoni» rivolge al nipote insofferente nel grandioso affresco de Verga «I Malavoglia».
Ci ha riportato alla mente questa frase, la
lettura dell’ultimo romanzo di Andrea Camilleri La
stagione della caccia (Sellerio Editore, Palermo, 1992) perché esso è
percorso da una atmosfera astrattamente sentenziosa, cui fa riscontro
l’ineluttabilità dell’agire dei modelli umani prescelti, come guidati da
sconosciuti Dei.
Lo scenario è quello di un paese siciliano dell’800. I protagonisti — tra i quali non manca il classico farmacista di provincia — si affaticano dietro una catena di delitti a seguire, nella uniformità dei loro destini una logica narrativa solo talvolta ombreggiata di «giallo».
L ispirazione, come ha affermato lo stesso autore,
è merito di una «battuta
trovata nella famosa “Inchiesta sulle condizioni della Sicilia” del l876»
di Sonnino e Franchetti: alla domanda rivolta ad un responsabile dell’ordine
pubblico di un piccolo paese siciliano, se si sono verificati fatti di sangue,
egli risponde: «No. A eccezione del farmacista che per amore ha ammazzato sette
persone»: consapevolezza e indifferenza verso un imperscrutabile anonimo
destino. Come dire due realtà che seguono la loro esistenza all’infinito
senza mai confondersi e forse nemmeno capirsi: passione onirica e realtà
vissuta come sfondo scenico di una recita assunta e privilegiata a regola di
vita.
Perché non c’è dubbio che i siciliani, e diremmo in
forma diversa, i meridionali, come lo stesso autore ritiene sono dei «tragediatori»,
felici quando riescono a far coincidere, o coincide per misteriosa mano,
l’esistente con l’inesistente, la realtà della vita e l’effimero della
teatralità, e mutuare l’una all’altra per dare un senso — consapevolmente
illusorio — alla vita e ai loro sogni.
Tuttavia, sia detto per inciso, oggi la frase «Semel
siculus, sempre siculus» ripercorsa nel tempo ininterrottamente dal Medio
Evo, appare, malgrado tutto, sempre più lontana nel concetto esistenziale delle
nuove generazioni.
Il Camilleri, come uomo di teatro, possiede il
sentimento drammatico istintivo teso alla prospettiva scenica, al. racconto come
rappresentazione, il cui fascino narrativo consiste anche nella costante attesa
degli «applausi», intesa come risultato di virtuali pause discorsive, da cui
il lettore viene coinvolto, e diremmo si compiace, nella stasi d’ogni verace
sicilianità.
Tutto il testo è linguisticamente
rivolto alla riutilizzazione del dialetto e del gergo isolano —
in questo caso affermazioni di sovranità espressiva — dà cui traspare quel
nuovo realismo, che ebbe nel recente trascorso illustri precedenti, e che
nell’economia del romanzo di Camìlleri ben si adatta e si salda alla
struttura narrativa del racconto. Una osmosi che ci fa pensare alla sua funzione
e ricordare, meglio adattare, quanto detto dal letterato F. R. Leavis a
proposito del linguaggio «le parole contano perché riportano là di dove
provengono».