IL MATTINO – NAPOLI                        28 Aprile 1992

«La stagione della caccia», storia siciliana di Andrea Camilleri

Come un colpo di teatro

di TITTI MARRONE

 

Nomi e situazioni di questo delizioso librino, a detta del suo autore, «non hanno rapporto con persone realmente esistenti o con fatti realmente accaduti. Hanno invece rapporto tra me e la memoria della mia terra». Indizio numero uno di una cifra che emerge forte, fortissima fin nel singolare ordito lessicale scelto da Camilleri: come una vera e propria lingua letteraria, dolce, musicale, la sicilianità esplode piena nel linguaggio accorto e pigro, ritmato come avviene in quelle vecchie storie tramandate a voce per generazioni. E, indizio numero due, lo stesso racconto rivela di essere un piccolo monumento ironico ad una sicilianità prima sommessa, poi via via più evidente nell’intreccio dei rapporti familiari, nel chiaroscuro dei caratteri, nell’evocazione degli ambienti e dei luoghi.

Andrea Camilleri, oltre ad essere saggista e romanziere, è un uomo dall’antica militanza in teatro, di cui è stato regista, studioso, di cui oggi è docente, ricoprendo 1’insegnamento di regia presso l’Accademia d’Arte Drammatica «Silvio D’Amico»».E così, alla sicilianità, Camilleri abbina inevitabilmente la sua sapienza teatrale, costruendo l’intricata vicenda qui narrata con un meccanismo che sfocia in un coup de théatre di grande effetto. Ma andiamo per ordine. Innanzi tutto, l’antefatto, o meglio il prologo: l’autore c’informa d’aver scovato un giorno, nei 2 volumi dell’Inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia del 1875-76, questo scambio di battute fra uno dei membri della commissione e il responsabile dell’ordine pubblico d’un paesino:

«Recentemente ci sono stati fatti di sangue al suo paese?»

«No. Fatta eccezione di un farmacista che per amore ha ammazzato sette persone.»

Da questa risposta così siciliana nella sua reticenza, Camilleri ha fatto nascere un romanzo che potrebbe esser anche trasformato in commedia, e che scopriamo essere una piccola tragedia umana ambientata nel paesino di Vigàta. Entriamo, col racconto, nella famiglia dei marchesi Peluso discendenti di Federico lI, al vertice del microcosmo del paese, e ne conosciamo i vizi inconfessati che tutti sanno, gli amori nascosti che tutti sbirciano.

C’è don Filippo col suo ossessivo desiderio di lasciare dietro di sé un «masculo», che dopo la morte per (apparente) avvelenamento da funghi del figlio ventiduenne decide d’ingravidare Trisìna, la moglie di un suo colono. C’è donna Matilde, uscita fuori di senno dopo la scomparsa dell’erede, e defunta per. (apparente) inedia. C’è il vecchio marchese rigido e misterioso come una statua, che passa a miglior vita per (apparente) annegamento. C’è don Totò, emigrato in America e improvvisamente tornato al paese con moglie americana e serva negra, morto ammazzato con famiglia e servitù per (apparente) vendetta d’amore. C’è la bella e tragica figlia-Antigone Ntontò, che nel giro di una manciata di mesi vede morire intorno a sé tutti i membri della sua famiglia. C’è il suo promesso sposo Nenè Impiduglia, gaglioffo perdigiorno dedito al gioco, che viene trovato stecchito per (apparente) crisi diabetica. E fin dalle prime pagine c’è il farmacista del paese, sulle prime timido e mite, misterioso di un suo mistero in apparenza fragile, che non è niente a fronte di quello tragico e decisivo che rivelerà nel colpo di teatro finale. C’è una Sicilia solare e poi improvvisamente incupita, sfondo ideale per questa storia incalzante come un racconto giallo al sapore di radici antiche e di memorie ancestrali.