di TITTI MARRONE
Nomi e situazioni di questo delizioso librino, a detta
del suo autore, «non hanno rapporto con persone realmente esistenti o con fatti
realmente accaduti. Hanno invece rapporto tra me e la memoria della mia terra».
Indizio numero uno di una cifra che emerge forte, fortissima fin nel singolare
ordito lessicale scelto da Camilleri: come una vera e propria lingua letteraria,
dolce, musicale, la sicilianità esplode piena nel linguaggio accorto e pigro,
ritmato come avviene in quelle vecchie storie tramandate a voce per generazioni.
E, indizio numero due, lo stesso racconto rivela di essere un piccolo monumento
ironico ad una sicilianità prima sommessa, poi via via più evidente
nell’intreccio dei rapporti familiari, nel chiaroscuro dei caratteri,
nell’evocazione degli ambienti e dei luoghi.
Andrea Camilleri, oltre ad essere saggista e romanziere,
è un uomo dall’antica militanza in teatro, di cui è stato regista, studioso,
di cui oggi è docente, ricoprendo 1’insegnamento di regia presso
l’Accademia d’Arte Drammatica «Silvio D’Amico».E
così, alla sicilianità, Camilleri abbina inevitabilmente la sua sapienza
teatrale, costruendo l’intricata vicenda qui narrata con un meccanismo che
sfocia in un coup de théatre di
grande effetto. Ma andiamo per ordine. Innanzi tutto, l’antefatto, o meglio il
prologo: l’autore c’informa d’aver scovato un giorno, nei 2 volumi dell’Inchiesta
sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia del 1875-76, questo
scambio di battute fra uno dei membri della commissione e il responsabile
dell’ordine pubblico d’un paesino:
«Recentemente ci sono stati fatti di sangue al suo
paese?»
«No. Fatta eccezione di un farmacista che per amore ha
ammazzato sette persone.»
Da
questa risposta così siciliana nella sua reticenza, Camilleri ha fatto nascere
un romanzo che potrebbe esser anche trasformato in commedia, e che scopriamo
essere una piccola tragedia umana ambientata nel paesino di Vigàta. Entriamo,
col racconto, nella famiglia dei marchesi Peluso discendenti di Federico lI, al
vertice del microcosmo del paese, e ne conosciamo i vizi inconfessati che tutti
sanno, gli amori nascosti che tutti sbirciano.
C’è don Filippo col suo ossessivo desiderio di
lasciare dietro di sé un «masculo», che dopo la morte per (apparente) avvelenamento da funghi del
figlio ventiduenne decide d’ingravidare Trisìna, la moglie di un suo colono.
C’è donna Matilde, uscita fuori di senno dopo la scomparsa dell’erede, e
defunta per. (apparente) inedia. C’è il vecchio marchese rigido e misterioso
come una statua, che passa a miglior vita per (apparente) annegamento. C’è
don Totò, emigrato in America e improvvisamente tornato al paese con moglie
americana e serva negra, morto ammazzato con famiglia e servitù per (apparente)
vendetta d’amore. C’è la bella e tragica figlia-Antigone Ntontò, che nel
giro di una manciata di mesi vede morire intorno a sé tutti i membri della sua
famiglia. C’è il suo promesso sposo Nenè Impiduglia, gaglioffo perdigiorno
dedito al gioco, che viene trovato stecchito per (apparente) crisi diabetica. E
fin dalle prime pagine c’è il farmacista del paese, sulle prime timido e
mite, misterioso di un suo mistero in apparenza fragile, che non è niente a
fronte di quello tragico e decisivo che rivelerà nel colpo di teatro finale.
C’è una Sicilia solare e poi improvvisamente incupita, sfondo ideale per
questa storia incalzante come un racconto giallo al sapore di radici antiche e
di memorie ancestrali.